Archivi tag: futuro

Su futuro, bontà, destino e non vivere

Max Ernst

di Franco Nova

IL FUTURO E’ UN DI PIU’
 
Troppo poco si vive,
miliardi d’anni alle spalle
e pure quando più non saremo.
Poter parlare senza cessa,
scorgere prati e monti,
stare giocosi con gli amici
mentre ti coglie l’amore.
Non più ci sono notti,
il Sole splende e ti sorride,
l’orizzonte è carezzevole e
mostra il futuro non mai noto.
In realtà si sta sognando
ma non tutto è irreale,
nel sonno anche fatti veri
e l’animo si arricchisce.
Avremo sorprese non liete,
non conosceremo però la noia,
si eleveranno nuove montagne
che la vita avvolgeranno.
Rendiamo dolce la memoria
lanciandoci sempre in avanti
per quanto si può nell’esistenza.
I ricordi crescono mentre
si accosta irrispettoso lo zero. 
Continua la lettura di Su futuro, bontà, destino e non vivere

Su presente/futuro, vita e malinconia di Natale

di Franco Nova

PRESENTE E FUTURO INSIEME
 
Le campane suonano a distesa,
i sentimenti pure a scampanio.
Ogni ricordo, bello o brutto,
si risveglia e vibra senza sosta;
la vita troppo spesso appare
come una semplice parodia
di eventi invece dolorosi.
I più vicini e intensi
sollevano onde spumose,
ma pure quelli lontani
pretendono la loro rilevanza
nell’aver forgiato l’animo nostro.
I passi verso il prossimo futuro
rimbombano e coprono i suoni
ben più dolci di voci amiche.
Non ci arresteremo mai
malgrado ci sia la Perfida
che ci spia e si prepara.
Attendiamo e lavoriamo
per godere intanto ogni attimo. 
Continua la lettura di Su presente/futuro, vita e malinconia di Natale

Sette poesie

di Cristiana Fischer

Il nero delle stoffe non è puro
ha un po' di giallo e un po' di blu
il giallo lo vira sul grigio
e il blu sul nero della notte
poi quando viene il sole stoffa nera
è piena di macchie e fili bianchi
che spiccano e ricordano che il nulla
si riempie della vita di ogni giorno
delle sue cose e il cielo non risponde
a notte e sole, scorre indifferente
all'immaginazione e alle paure.
Così siamo felici e troppo spesso
smarriti di usi e di pensieri
non c'è passato né futuro soli
siamo e ciechi in universo
nero.
Continua la lettura di Sette poesie

Cucina

di Cristiana Fischer

Il nostro mangiare moderato
a pranzo e cena
(in intervalli merende e aperitivi)
senza ingrassare ma con cibi magri
sani e controllati, gusto certo
e purificazione di sostanze.
Quel nostro mangiare ci mantiene
beati e nutriti a sufficienza – senza
esagerare – in circostanze
di lotta di classe non estrema, chi teme
la fame qui da noi? Non c'è forse
cibo per tutti?
La moderazione come strategia
di accoglimento e integrazione
non vogliamo respingere ma accogliere
in salute senza esagerare
quelli che arrivano e si vogliono integrare. 
Basta non pretendano abbuffarsi
di una ricchezza che amministriamo
responsabilmente senza accrescere
di peso e grasso i dominati, in nome
di salute spiritualcorporale. 
Continua la lettura di Cucina

Il pensiero creatore, ultima speme

di Franco Nova

Il tramonto rosso acceso
di un occidente protervo,
il grigio teneramente disteso
in un oriente disattento,
suscitano sentimenti d’odio
o puro piegarsi all’abulia.
Voglia d’afferrare l’ignoto
e desiderio di nulla sapere;
sempre in contrasto fra loro,
l’uno non eliminerà l’altro.
La tragedia irrompe da un lato,
dall’altro si spegne nel noioso
ripetersi d’una piatta quiete.
L’Umanità procede comunque
senza nulla capire di dove va,
s’immagina un futuro sublime
e si perde nella ripetizione
d’usuali azioni che crede diverse.
Finirà con sua somma inutilità e
l’Universo non ne avrà sentore.
Né una perdita né un guadagno,
si spegnerà una sola lampadina
fra miliardi che ancora brillano,
uomini presuntuosi e sciocchi
soltanto fili della lampadina.
Mai muteremo l’Universo
per noi solo cielo stellato che
ignora la nostra vanagloria.
Diamoci pure un nido migliore,
ma abbiamo pure il pensiero;
creiamoci un altro mondo,
in cui vivremo sempre
dopo la fine dell’Universo.
Smettiamo di voler cambiare
quello in cui alloggiamo;
la nostra fortuna è pensare
d’essere destinati all’eternità
d’un mondo senza materia,
accolti da deità da noi create.  

Marta Poggi, una voce giovane

Paolo La Motta, Interno museo 2018, Napoli

di Mariella De Santis 

Per questo quarto appuntamento ho cercato tra le poesie di autori giovani di cui mi capita di ricevere i testi e ho scelto di condividere la lettura di inediti di Marta Poggi, genovese, ventitré anni, studi universitari non letterari in corso e un’attività lavorativa nel sociale. Alcuni dettagli della sua biografia sono riportati nella notizia in calce che ho lasciato con le sue stesse parole. Mi sono resa conto ora che questa mia decisione non è casuale poiché Marta ha scritto la notizia in prima persona e l’IO è il nominato continuo delle poesie che ora leggeremo. Mi è capitato spesso di affermare che la poesia che nasce, si articola e sviluppa solo intorno alla propria individualità mi annoia. Il racconto di sé reiterato, esposto, spesso alternante tra invettiva, supplica, profezia e compiacimento lo trovo un appesantimento che sbarra ogni dialettica intratestuale. Vi sono testi poi in cui l’IO è soggetto e non individuo e allora il testo poetico assume posizione relazionale. Nelle esperienze iniziali di scrittura è molto frequente che l’IO faccia da bussola per l’orientamento ma man mano che procede il processo riflessivo, si acquisiscono altri strumenti e se si è fortunati, ci si lascia avvincere dalla ricerca. Le poesie di Marta Poggi sono promettenti, l’IO esiste ma è asciugato, non ridondante e soprattutto è esso stesso un vettore. La seguente poesia di Marta, ad esempio, è una poesia di disorientamento, di esplicita interrogazione al senso della propria significazione nel mondo: […] Apro la carne/A muco, viscere, placenta/ Parole viscose e scarne /Che squartano il petto/ Ma restano mute./In me non più taccia /Tutto ciò che ho amato: / L’amore lima corazza /Come tiepido/Sorridere al vuoto. C’è un gesto violento che è la violazione della propria carne dentro la quale oltre a materiali organici, ci sono le parole. Questo incidere la carne per trovare la parola che porti nel mondo è gesto di forte dichiarazione di ingaggio con l’esistenza. La poesia contemporanea dei giovani che mi capita di leggere ha un forte carattere di corporeità che quasi mai è esultante. Sembra che al corpo venga affidato il compito di sostenere una dialettica con l’ultra personale difficile da raggiungere nell’interazione plurale. Ma quasi mai questo è un corpo glorioso quanto un corpo che cerca di definirsi mentre statuisce un’idea di rapporto con l’esterno a sé: […] Semino il cuore/ Di porte socchiuse/  E nei meandri/ Dell’intestino/ Ripeto perdono./Alle lacrime incagliate/ Alle carezze mute/ Scordate ad asciugare./ Io solo accado/Ma senza parole/ Scolata di suoni. In questi versi dalla evocata immagine del cuore, organo eccessivamente ospitato in poesia, si scende subito nell’intestino. Lì si trovano le emozioni e la mancanza di parola che addirittura è afona, senza suono. Pur rispettando la specificità della poesia di Marta, io credo che in qualche modo anche attraverso di lei si possa entrare in una poesia generazionale che esprime non tanto un ritiro dal confronto ma una torsione del conflitto ineludibile, su di sé. Non siamo in presenza di una poesia che desidera consolare chi la scrive, sembra che questi giovani abbiano letto e appreso la lezione lasciataci da Stig Dagermann nel suo struggente e profondo “Il nostro bisogno di consolazione”. La consolazione ci consegna a noi stessi, il conforto ci unisce perché implica la necessaria vicinanza dell’altro. Riporto per intera la poesia Quello che resta : Degli atti /Miei e vostri/Nel residuo dell’anima / Non resta che il solco/ E il rimpianto/ Anche dei mostri/ Di questa viva orchestra,/ Crudele ma viva e /L’offeso stupore di abbaglio/ Non resta/Che l’invisa materia/ E si assottiglia/In eterno allo zero./Polvere/ È ciò che resta /Del repertorio umano / E sinceramente/ Non so se mi basta. Questa è una poesia del disincanto, ciò che non ha prodotto il bene atteso può far rimpiangere il male pur di non sentirsi persi nell’assenza di gravità che allontana da ciò che si costituisce come fondante dell’umano. Ma nella dichiarazione di perplessità, quel non sapere se anche il dissolversi possa bastare, c’è l’apertura al possibile.  Questa di Marta Poggi non è una poesia di resa, il divenire, il futuro sono entità presenti. Per la resa in poesia utilizza ossimori, contrapposizioni, tessiture materiche: Se abiti l’alba conosci / L’armonia delle ombre / Ed estasiato piangi/ Che la luna è di sabbia / Sta notte. […]ma poi arriva la scossa, il desiderio del movimento verso il nascente: L’impeto sbieco/di chi ha ancora salda nel pugno/ La gioia inesperta di levarsi/Al mondo,/Lo sguardo s’incrina/ Carezzato dal vento/Come gatto ascolta una mano / Sussurargli: è giorno. Naturalmente vi è un elemento di richiamata soggettività in questi componimenti che stringono il fianco della biografia. Nella notizia l’Autrice accenna di aver fronteggiato disturbi alimentari e quindi di aver agito un confronto interiore in profondità ma forse proprio per questo la sensibilità al tema dell’insidia, come un senso rigenerato della resistenza danno a questi testi  una spaziosità che li disancora da una ricaduta nell’IO intimistica  portando il corpo e la sua testualità in una dimensione di apertura al mondo, ai mondi.

Notizia

Sono nata a maggio del 1997 e vivo a Genova. Sto terminando gli studi in psicologia dello sviluppo e da un paio di anni lavoro come educatrice. Ho sempre vissuto la scrittura come un prezioso e intimo strumento di ricerca e incontro. Sin da piccola, infatti, ho percepito e cercato di coltivare una duplice tensione. Da un lato, l’impegno verso il sociale e, dall’altro, una ricerca verso la dimensione più intima dell’umano e il tentativo multiforme di toccarla ed esprimerla. La scrittura, la pittura e la musica mi sono sempre stati a fianco: mi hanno accompagnato nei giochi d’infanzia, mi hanno restituito una voce quando ho sofferto di disturbi alimentari e oggi sono diventati i miei principali attrezzi nel mio lavoro educativo. Da qualche anno ho cominciato a meditare, alla ricerca di strade capaci di restituirmi spazio anche nella corporeità. 

Autoritratto di Marta Poggi.
Soffoco
L'estraniata cadenza
Di abitare un corpo 
E lasco dal ventre
Il punto di non ritorno.                                          
Nel martirio
E' la pellicola labile
Di  un'obesità
Senza confini. 
Un bagliore
Delinea inesorabile
La vaga superficie
Di un vuoto senza fondo 
Ridotto conforme
Al riflesso scarno
Di un uomo senza volto.
Sbianchi il contegno
A vedermi nuda e donna 
Sorridere rozza,
Tra l'ascesi e l'umana 
Accozzaglia.
Sono la tua presenza
nelle mie ferite,
Qui staziono 
Nell'arcaico dolore 
Di un'anima in larsen




- I LISTEN TO THE WIND -
 
Certe sere
Cerco ninne nanne 
Voci calde e stonate
Guaisco alla vita
E d'infanzia sussurro
Puré
Cioccolata. 
Io aspetto
Ma non chiamo.
Quella malinconia
Che spezza
Certe sere 
Quella stretta
Del petto mi chiama
Alla resa
E io sono nuda
Ma armata
Di occhi sgranati 
Muta tenacia
Di bimba che é offesa. 
Certe sere io canto
Di piuma e di pianto 
E nel palmo bisbiglia
La mia ninna nanna: 
Marta,
Ascolta il vento
 



- ESTATE ALL'INSAPUTA-
 
É estate
Ma a mia insaputa. 
In fila
Persiane socchiuse
E nello spiraglio
Tra il vento e l'asfalto
La lavanda cresce 
Muta.
Comprimo le ossa
In vista del salto
Ma il vento corteggia
La corsa
E il volo non urla 
Ma gonfia lo sterno. 
Piovono sguardi
Su strada rovente 
E a sprazzi lavanda
Cresce muta:
La rivoluzione é timida
E  tinge l'asfalto.





 - OCCHI -
 
Se ora potessi 
Sarei solo occhi 
Incontrerei 
Senza domande
Sarei mite fessura
E presenza muta 
Starei
Scandalo di lacrima
Che non chiede 
Ragione.
Aprirmi nel canto
E chiudermi al vento 
Intravedere 
D'altrove
Tutto ciò
Che del mondo 
Sussurra.
Solo occhi sarei
E dentro
Il silenzio. 
Nulla di taciuto. 
Nulla da tacere. 
L'anima intera 
Avrebbe il suo 
Spazio.

Lui ha un’anima

di Franco Casati

   Il maestro abita in un vecchio casolare di campagna, con le porte e le finestre orlate di cotto, fiancheggiato da un alto fienile, naturalmente vuoto, percorso da rondini che intrecciano i loro voli fra i nidi e le grandi finestre diroccate. La casa è fronteggiata, a una certa distanza, da villette di recente costruzione, allineate lungo la strada provinciale. Egli è venuto ad abitarvi con la moglie dopo che gli ultimi proprietari l’hanno abbandonata, visto che i loro figli non ne volevano più sapere di lavorare i campi: tutti in città, a stipendio fisso e a orario sindacale. Continua la lettura di Lui ha un’anima

In morbo salus. Dieci poesie

 di Domenico Melillo

Domenico Melillo vive a Roma. Ha la mia stessa età ed è stato un mio compagno di classe nella scuola elementare e media. Fino a poco tempo fa ha fatto il medico. Nel 2004 pubblicò con la casa editrice Pagine la sua prima raccolta di poesie. La prefazione era del poeta, scrittore e saggista Elio Pecora. La nota, nel risvolto di copertina, la firmò Franco Arminio.

Durante quest’estate ci siamo frequentati molto di più. Ci siamo fatti compagnia nel tempo del Covid 19. Ho riletto a lungo le sue poesie. Alcune contengono versi che rimangono impressi: «Sa di sole / la notte», «Interpretare il giorno, qualche volta, / è coniugare un verbo irregolare», «E sentirete in qualche strana voce / la nostra storia, la vostra, perché ognuno / è la voce dell’altro», «mentre nascondo la vergogna / di sapermi uomo che, per esserlo, / si nutre del sangue della specie». Figlio unico, mi ha raccontato delle sue estati da studente, trascorse a lavorare in fabbriche svizzere dove stavano i suoi genitori: «Ci siamo ritrovati, padre e figlio, / in fabbriche del nord, ed era un tempo / di gioia difficile.» E abbiamo riso insieme per la puntualità con cui la Svizzera gli fece arrivare la pensione. Gli ho chiesto se dal 2004 ad oggi ha continuato a scrivere poesie. Mi ha risposto affermativamente e gli ho proposto di sceglierne qualcuna da presentare al pubblico di Poliscritture. L’ha fatto. I primi quattro testi sono tratti da «Alianti Canopi», gli altri sei sono inediti e fanno tutti parte di una sezione dal sottotitolo “In morbo salus” di una  ipotetica, seconda raccolta. (D.S.)

Continua la lettura di In morbo salus. Dieci poesie

Aspettando Marion

di Rita Simonitto

Mi presento subito.

Mi chiamo Aldo e mia moglie, Ada.

Gli amici ci chiamano i coniugi AA, dalle nostre iniziali. Abbiamo una figlia, Cristina, iscritta a Lingue e che adesso si trova a New York per un corso di perfezionamento.

Quanto a me, ho fatto il panificatore per dare una mano a mio padre sia prima che dopo la mia Laurea in Scienze Economiche, non riuscendo a trovare, con quel titolo, subito una occupazione che mi potesse dare una certa autonomia finanziaria.

Continua la lettura di Aspettando Marion