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La taverna del portoghese

NOTE DI FINE ESTATE (10)

di Donato Salzarulo

                                                                                               Chiunque voglia far opera di sogno
                                                                                               deve mescolare tutto insieme.

                                                                                                                    Albrecht Dürer

É un box. Quando sulla soglia d’autunno, riprende l’aereo per atterrare a Lisbona e raggiungere Costa de Caparica, al di là del Tago e alle spalle di Cristo Rei, sistema dentro la Ford Fiesta, utilitaria con cui ha fatto nei mesi estivi su e giù e giù e su dal paese nuovo a quello vecchio, e chiude il locale.
«La taverna è aperta!…» annuncia a parenti e amici intorno al tredici giugno, giorno della festa di Sant’Antonio, patrono di Lisbona, di Padova e di Bisaccia.
Con Padova Peppino non ha nulla da spartire, ma a Lisbona e Bisaccia è di casa. Il santo patrono deve, però, festeggiarlo qui, al paese d’origine.
O sant’Antonio a Vesazz o vesazz ‘ncuodd. Tradotto: o trascorri sant’Antonio a Bisaccia o metterai la bisaccia sul collo. En passant: il detto pare abbia origine dal particolare contratto che i salariati bisaccesi facevano coi latifondisti pugliesi. Se non veniva consentito loro di recarsi al paese per la festa del patrono, avrebbero raccolto le scarse masserizie in una bisaccia e sarebbero andati via.
Comunque, ora Peppino non ha più padroni e il detto può onorarlo senza grandi complicazioni.
Così il locale – sei metri e sessanta per tre e novanta – , pensato da chi progettò la stecca di case nuove, dopo il terremoto dell’Ottanta, per custodire e riparare da vento e intemperie una macchina, per la solenne occasione viene aperto e adibito a taverna. Per la precisione: TABERNAE ROMANORUM, come si può leggere sulla bianca tavoletta appesa ad una sorta di trave in legno leggero, installata al soffitto per nascondere i tubi di scarico provenienti dai piani superiori della casa. Accanto alla scritta, a destra sono appese cinque spighe di granturco, a sinistra una damigiana di cinque litri, uno spolverino bianco, un mazzo di rametti di alloro, una falce insieme alle canne con cui i mietitori proteggevano le dita e, infine, un’altra spiga.
Sul soffitto, a questa trave finta succede quella vera, la colonna portante, il cordolo orizzontale in cemento armato, che sostiene le parti superiori dell’abitazione. É una colonna dipinta in blu mare e decorata con facce di mezze lune nascenti e cavallucci marini.
La scritta TABERNAE ROMANORUM prosegue con l’indicazione della data di apertura: A.D. MMIII. Anno del Signore, 2003. Sono già trascorsi sei anni, quindi, dalla data della inaugurazione con relativa cerimonia e inviti personali. Sei stagioni di ordinaria e straordinaria gestione, di accoglienze calorose, con andirivieni di ospiti bisaccesi e non, in arrivo da paesi e città italiane, ma anche stranieri (soprattutto Svizzera e Portogallo). Sei stagioni di fuoco con quotidiana preparazione di pranzi e cene e di realizzazione, per così dire, del sogno di Peppino. Un sogno detto a chiare lettere, raccontato in mille modi, mostrato a tutti gli eventuali ospiti, agli occasionali passanti e agli incontenibili ficcanasi del paese.
Sul retro, sempre in lingua latina, la tavoletta insiste: TABERNA PATRICII ET PLEBEI OPTIMAE LIBAGIONES. Insomma, che sia patrizio o plebeo, alla tavola di Peppino, nella sua taverna, almeno una volta bisogna sedersi. Chi non lo fa, sappia che perde prelibatezze raffinate.
Il portoghese emigrò ancora minorenne in Svizzera. Nato nel 1943, prese il treno per Zurigo, alla fine degli anni Cinquanta. Non ricorda più se accadde nel ’58 o ’59. Di certo v’è che non aveva ancora fatto il soldato, né aveva mai esercitato il diritto-dovere del voto. Atti che allora si potevano compiere soltanto a 21 anni, col raggiungimento della maggiore età. Non avendola raggiunta, per emigrare, ricorda che fu necessaria l’autorizzazione dei genitori con relativa firma. Cosa che non gli fu negata. Il padre era già a Ginevra, la madre andava a zappare terre occupate, in affitto o in proprietà, oppure andava a prestare o a restituire giornate. Peppino allora era figlio unico. Ma come prendersi cura di lui? Con quali risorse?
Alla noia di diciotto mesi trascorsi in una camerata, a saltare dal letto per l’alzabandiera o, magari, subendo gli insulti e le reprimende del solito caporale di giornata, sfuggì ben volentieri. Meglio guadagnarsi da campare che servire una patria soddisfatta di mandare in giro per il mondo milioni e milioni di persone come lui. Al diritto di voto, invece, per quanto gli è stato possibile, non ha mai rinunciato. Anzi, le votazioni a volte potevano costituire l’occasione per un rapido rientro al paese.
La prima volta che lasciò la casa della Cupa e i sedili di piazza Duomo, Peppino arrivò, lo dicevo prima, nei dintorni di Zurigo; ma lavare piatti in una cucina di ristorante non gli andava a genio e si spostò rapidamente a Ginevra, in una macelleria e sotto gli occhi discretamente vigili del boss, come affettuosamente chiama il padre ora morto. Dalla città sede del Palazzo delle Nazioni – per inciso: nei prati circostanti per qualche anno mio padre vi ha pascolato le mucche – a Losanna ci si arriva con mezz’ora di treno. Nell’ottobre del ’64 la sede centrale della macelleria venne chiusa; per non perdere quel lavoro che gli piaceva, il taverniere fu costretto a trasferirsi nella città sorta sulla riva del Lago Lemano. Qui è rimasto per 36 anni: a consumare giovinezza, maturità e tarda maturità. Qui incontrò la prima Candida con cui si sposò, da cui ebbe una figlia e si separò. Qui incontrò anche la seconda Candida, la donna di Lisbona, con cui attualmente vive.
Avendo sempre lavorato nel reparto carni di un grande centro commerciale, ha imparato il mestiere di macellaio alla perfezione e può disquisire con cognizione di causa sui vari tagli di una bestia. Può disossarti un coniglio con tale abilità che non trovi più un ossicino neanche a pagarlo oro. Così bravo, col passar degli anni, la direzione pensò bene di affidargli compiti di responsabilità.
Oltre al macellaio, ha servito nei ristoranti e imparato a cuocere su una vampata i gamberoni flambé. Ha appreso inoltre il segreto per una buona marinatura delle alici e per mettere in tavola un piatto di cozze alla vinaigrette. Insomma, grazie anche alla frequenza di un corso di formazione professionale, è diventato un ottimo cuoco, particolarmente esperto nella cottura del pesce e in molte altre ricette il cui successo è collaudato. Allorché le libagioni dai piatti si trasferiscono nelle bocche degli ospiti, i complimenti al cozinheiro, come lo chiama la compagna lusitana, non si fanno attendere. Io, che non disdegno la buona tavola e non mi faccio mancare un po’ di pinguedine, sono, fin dalla sua apertura, uno degli ospiti d’onore della taverna.
In questi giorni, che come dice il poeta ne ricapitola altri mille, mi siedo spesso a capotavola e gusto le prelibatezze dello chef.
Ma non è di questo che vorrei parlare. Non ho nessuna intenzione di seguire Peppino ai fornelli, mentre intonando Nessun dorma affetta carne o mescola sughi. Ho accennato all’aria di Puccini perché, oltre che macellaio e cuoco, mio cugino è un melomane entusiasta. Il faut savoir, come direbbe lui, che possiede una voce da tenore amatoriale e per un certo periodo ha cantato nella corale italiana di Losanna… Aggiungo che parla, per quanto io ne possa capire, un buon francese e un altrettanto buon portoghese. Non scherziamo, l’irpino è poliglotta.
Tornando alla taverna: è di questo locale che mi piacerebbe raccontare, dell’ambiente in sé, di questo suo palpabile desiderio, realizzato con una certa cura e attenzione. Avere a disposizione una taverna: questo mi è sembrato col tempo il suo vero sogno e il suo grande oggetto d’amore. «Peccato che sia un po’ piccola!…», si rammarica ogni tanto, «Ci fossero stati altri due metri, sarebbe stato un vero carnozet…Eppure qui dentro abbiamo mangiato fino a trenta persone!…»
Alla richiesta di farmi capire cosa sia un carnozet, risponde che Williams, un buon uomo che abitava in una villa e dal quale andava a lavorare extra, ogni volta che terminava l’attività, lo portava in visita a farglielo vedere; ed era una specie di taverna col camino, l’angolo bar, il tavolo lungo, ecc. Il carnozet c’era in tutte le ville. E lui, mentre lo ammirava, sognava di possederne uno.
«Ho capito!…» gli dico e penso che anche al Nord, dalle mie parti, dove Berlusconi ha installato la torre di Mediaset, chi compera o si costruisce una villa o villetta, il primo ambiente che vorrebbe far visitare all’eventuale ospite è la taverna. Anzi, la tavernetta con camino e legna da bruciare, molle e griglie su cui arrostire bistecche, cosce di pollo, salsicce, puntine di maiale o costine di agnello. Non so perché, ma quello di Peppino è un sogno diffuso. Come se il massimo della vita fosse quello di trascorrere ore ed ore su una panchetta o su una sedia a dondolo vicino al camino. Oppure star lì a girare pezzi di carne o pollo allo spiedo.
Mariella, sua unica figlia, è venuto a trovarlo a sant’Antonio; è rimasta contenta della taverna e pare che gli abbia detto: «Vedi, papà, hai realizzato il tuo sogno…»
Devo essere sincero: il fatto un po’ mi sconcerta. Ma non ha senso mettere piedi e becco nei sogni di ognuno di noi.
Poi, sono ancora sincero, ora che il sogno ha preso forma e corpo, mi sembra di poter dire che la taverna di mio cugino è una specie di camera delle meraviglie, una sorta di museo domestico permanente. Oltre che degli artisti, meriterebbe l’attenzione di un antropologo o di un etnografo. Molti mi sembrano gli aspetti culturali da evidenziare. Di cultura materiale e non solo.
Meriterebbe, credo, anche i flash di un ottimo fotografo per poterne ricavare un catalogo alfabetico o tematico dei pezzi presenti. Non si aspetti di avere tra le mani o sotto gli occhi delle rarità. Niente cranio, ulna e tibie della Principessa di Bisaccia, ma non mi appare culturalmente e, starei per dire artisticamente irrilevante, il riprodurre per una cartolina il ceppo nodoso e a uncino di un vitigno o la scultura del pappagallo verde brasiliano, il bianco vaso da notte dei nostri nonni o l’antica lucerna romana.
Una visita alla taverna è consigliata. Insieme alle ottime libagioni, è possibile assicurarsi sguardi freschi e di prima mano sui gusti estetici di un illustre rappresentante dei nostri ceti popolari. In fondo interessa capire cosa sia “bellezza” tanto nelle case di chi sta in alto quanto in quelle di chi sta in basso. Non è escluso che i confini non siano poi così rigidi – culturalmente parlando, non economicamente – e che le contaminazioni siano molte di più di quanto si creda.

L’entrata è quella tipica di un garage. Ma non c’è saracinesca da tirar giù o su. La porta, in vetro e alluminio verniciato di bianco, è ampia e suddivisa in tre parti. All’occasione si può aprire tutta o soltanto nella zona centrale. All’ingresso, in alto, sulla parete esterna, è disegnata una meridiana.
Mettendo naso ed occhi dentro, ci si accorge subito di avere a che fare con un ambiente non di ordinaria amministrazione: a destra, la serie dei mobili tipici di una cucina (lavandino, fornello, piano cottura, frigorifero…) e in fondo l’angolo col camino. E che camino! Più simile ad un forno che ad un normale camino, con l’apertura ai propri piedi. Qui la grande bocca si trova nella zona centrale. Sotto c’è un’altra grande apertura in mattoni rossi, diventata al momento una sorta di ripostiglio. Prima di regalarla ad un amico, all’imbocco c’era anche una cancellata, non ho capito bene se di finestra o di porta. Peppino l’aveva recuperata in qualche casa abbandonata dopo il terremoto. Così come ha recuperato due piccoli rettangoli in ceramica bianca e bordi blu. Antichi numeri civici crollati insieme alle facciate e alle porte.
L’angolo camino o forno non l’ho mai visto acceso. Perciò, non saprei dire nulla sul suo effettivo funzionamento. Il taverniere assicura che funziona alla perfezione ed io mi fido di lui.
L’altra zona che salta subito all’occhio è l’angolo bar, in fondo a sinistra. Una soluzione ingegnosa per offrire agli ospiti il drink prima o dopo il pasto. Ogni taverna che si rispetti ce l’ha e in un pranzo i momenti dell’aperitivo e del digestivo vanno tenuti in debita considerazione.
Mentre s’ingeriscono liquidi alcolici o analcolici, fluiscono parole cerimoniali, tic comportamentali, modalità d’aggancio o di sgancio. Mio cugino, ad esempio, è un patito dell’entrée consumata non a tavola, comodamente seduti, ma nell’andirivieni dei commensali da un punto all’altro del locale.
Tornando alla descrizione della taverna, alla visita guidata a questa sorta di wunderkammer bisaccese, dopo il colpo d’occhi sugli angoli, mi sembra opportuno procedere con alcune osservazioni, spero non banali, ordinate per filoni tematici. Come se in ogni tema fosse possibile leggere o intravedere un volto o un’anima di Peppino. Allora, di seguito, è possibile individuare:

a) Il Peppino figlio di una cultura contadina, verso la quale conserva un particolare amore, attestato dagli attrezzi raccolti e messi in mostra. Entrando, è così possibile ammirare sulla parete sinistra: un’accetta, una zappa, una zappetta, un piantatoio, una forca e una sega da falegname; appesi alla finta trave del soffitto, ci sono, come ho già detto, le spighe di granturco, la falce da mietitore con le canne per proteggere le dita, la damigiana di cinque litri con la protezione in vimini, il mazzo di foglie secche di alloro.
Sulla parete di fondo, la sezione di una botte, tagliata verticalmente, poco più in là del primo cerchio, con la spina ben in mostra, come se girando la vite, fosse possibile spillare vino; due spine attaccate una sull’altra e la sezione di una botticella.
Il fiore all’occhiello della taverna è, lo dicevo poco prima, l’angolo bar, ricavato tra la parete di fondo e quella a sinistra. É un rettangolo di due metri o poco più per un metro, costituito da una tettoia ricoperta di tegole, sistemate ora in un verso ora nell’altro e tenute ferme da pietre. Sotto si trova l’apertura in legno e sotto ancora il muro ricoperto di pietre irregolari miste a qualche conchiglia a pettine. Appese alla tettoia due brocche di terracotta smaltate e decorate, un cicino, ossia un recipiente in terracotta proveniente dall’Alentejo e una fiaschetta. Sul piano di servizio una caraffa di vetro e una bottiglia incastonata in un portabottiglie di ferro.
Ma il portabottiglie più in mostra è quello sulla parete di fondo, a sinistra del camino. Si tratta di un vero e proprio scaffale ricavato da cilindri di terracotta in serie: sei per sette, quarantadue potrebbero essere le bottiglie di vino pregiato dormienti nella fresca cuccia. In realtà diversi cilindri sono vuoti e Peppino preferisce il vino di Montemarano a quello doc. A sinistra di questo scaffale ce n’è un altro, più basso ma simile in tutto.
L’angolo bar, tra il muro e la parete, diventa ripostiglio. Lì dietro il taverniere conserva pacchi di pasta, damigiane piene di vino, bottiglie e via di seguito.
Sullo scaffale portabottiglie si trova il bassorilievo in gesso dorato di una pigna d’uva.

b) Il Peppino innamorato di Roma e dell’Impero Romano. Roma caput mundi, è scritto all’interno di un’ostrica, una delle tante bivalvi esposte sulla sporgenza della parete sinistra della casa e incollate ai muri un po’ dappertutto. “Roma capitale del mondo” non è frase detta così tanto per dire, magari vera un tempo ed oggi soltanto fonte di nostalgie e passatismi. Non scherziamo: per Peppino Roma è la città eterna e resterà eternamente capitale del mondo. Vuoi mettere a confronto Roma con Lisbona o con Losanna?…Neanche a dirlo. La superiorità della culla dell’Impero romano è per lui schiacciante su tutti i piani: dei monumenti, degli edifici, della cultura. L’amore per la storia di Roma, soprattutto della Roma di Cesare e Costantino, è nell’animo di Peppino sviscerato. Non so come si sia acceso e perché, ma è un fatto indiscutibile. Se non bastassero le scritte latine, è sufficiente dare uno sguardo alla taverna per capirlo. Oltre all’antica lucerna già citata, subito all’entrata, alla parete sinistra, sopra un bassorilievo di gesso raffigurante due cavalieri probabilmente ellenici, ecco, ben esposte, due teste dorate di pretoriani col classico elmo e cimiero; e più avanti, ecco la grande planimetria di Roma al tempo di Costantino.
«Colosseo, Fori Imperiali…C’è tutto, non manca nulla…» Continua a dire Peppino.
Io mi limito al gesto affermativo della testa. Evito qualunque discussione. Mio cugino è preparatissimo in storia romana e non vorrei fare la figura di chi, dopo anni e anni di frequenza delle aule scolastiche, prenda solenni cantonate. É vero che sono laureato in pedagogia e la storia romana mi puzza un po’, ma che penserebbe di me mio cugino se sbagliassi l’anno di morte di Cesare Augusto e i piani di attacco delle più importanti battaglie ingaggiate durante la prima, la seconda e la terza guerra punica? Una volta a bruciapelo mi domandò chi era quel tizio che si mise nella botte e si fece rotolare giù da un monte. Biascicai una risposta; per fortuna, corretta.
Sempre sulla parete sinistra, in fondo, subito dopo la gigantesca planimetria, è esposta una ceramica a forma di piatto con le più importanti vedute della Roma odierna. Sopra, invece, una tavoletta bianca con la scritta in pennarello nero: CARPE DIEM QUAM MINUM CREDULA POSTERO. Peppino sa che è tratta da un’ode di Orazio e la sbandiera come una sua possibile filosofia di vita, soprattutto quando porta in tavola, in bella mostra e magnificandone il profumo, piatti di spaghetti alle vongole o di faraona ai funghi porcini. Lo chef preferisce le linguine agli spaghetti, ma Sandro, il fratello nato quando lui stava già per sposarsi, è affezionato ai bastoncini lunghi e sottili inventati dai cinesi. E lui, quando può o gli va a genio, l’accontenta.
Peppino è nato durante la seconda guerra mondiale ed è andato a scuola verosimilmente nei primi anni Cinquanta. Non credo che abbia imparato in aula e sui banchi tutto ciò che sa di storia romana. Anche perché non è andato oltre la licenza elementare. Credo che sia autodidatta e che l’amore un po’ gli venga dal clima culturale dell’epoca fascista.
Sempre all’entrata, sulla parete destra, questa volta è esposto un attestato, firmato B. Mussolini, conferito a suo padre. Recita: Al soldato Solazzo Antonio autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa con gladio romano per le operazioni militari in Africa Orientale. Decreto 27 aprile 1936 XIV.  Sotto la firma del Ministro B. Mussolini, si può leggere, tutta in stampatello, la seguente esortazione: LEVATE IN ALTO, LEGIONARI, LE INSEGNE IL FERRO E I CUORI A SALUTARE DOPO QUINDICI SECOLI LA RIAPPARIZIONE DELL’IMPERO SUI COLLI FATALI DI ROMA.
Prima di prendere il treno alla stazione di Foggia per Zurigo o per Ginevra, probabilmente Peppino avrà vista la medaglia col gladio conferita al boss e avrà letto le frasi altisonanti dell’attestato. Così nel momento in cui, emigrato, ha sentito sul corpo le parole offensive e minacciose o gli sguardi di disprezzo razzista di qualche crucco o di qualche cittadino di Losanna – tutti gli emigrati sono oggetto di queste forme di razzismo come l’Italia di oggi dimostra a menadito – ha provato a difendersi esibendo i propri quarti di nobiltà. «Ignoranti voi non conoscete la nostra storia!… Noi siamo i figli della lupa, i pretoriani dell’Impero Romano alloggiati un tempo in tutta la penisola iberica e anche al di là delle Alpi…Molte vostre città le hanno costruite i nostri padri e se sapete qualcosa dovete ringraziare noi…».  Non so se Peppino abbia mai realmente fatto un discorso simile. Per quanto mi riguarda ho l’impressione di sì e sono anche convinto che da proposizioni così congegnate pensava di ricavare una certa forza. O, per lo meno, cercava di contenere la superiorità di chi offrendoti un lavoro e un letto pensa di poterti rendere schiavo. Questo è una faccia della medaglia. L’altra è il sogno che lo sbandieramento delle insegne imperiali porta con sé.
Una volta gli chiesi, se gli sarebbe piaciuto vivere nell’epoca della Roma dei patrizi e dei plebei, dei Cesari e degli imperatori. Mi rispose di sì. Ovviamente avrebbe voluto essere un patrizio che gusta leccornie sul triclinio e che si fa servire da uno stuolo di belle schiavette. La Roma su cui Peppino fantastica è quella della gloria e, nello stesso tempo, della dissolutezza e della decadenza. Ama la Roma dei principati e quella del Satiricon di Petronio, la forza conquistatrice dell’Impero e il carpe diem di chi sa che su questa terra tutto è provvisorio. Mussolini e persino il nostro ben amato Presidente del Consiglio.

c) Il Peppino esterofilo, amante dell’ordine svizzero ma mai disposto a viverci lì.
In alto sulla tettoia dell’angolo bar sventolano due bandiere: una – è banale persino dirlo – italiana e si trova a sinistra; l’altra, quella svizzera, sventola a destra. Quasi sulla parete di fondo, appeso alla tettoia, un lampione con la croce elvetica comperato il primo agosto, giorno di festa nazionale.
Della Confederazione, il taverniere esalta soprattutto l’ordine: puntualità dei treni, pulizia delle strade (se sbadatamente ti accadesse di buttare un pezzo di carta per terra, troveresti qualche sguardo pronto a fartelo notare), sorveglianza efficace della polizia, ecc.
«Agli svizzeri puoi dire tutto, ma su queste cose sono cento volte più avanti di noi…»
«Perché, allora, non hai mai pensato di comperare una casa a Losanna?…» gli domando io, «Perché non ti sei proposto di risiedere lì?… Perché sempre ‘sto Bisaccia in testa?…»
La risposta è facile da immaginare ed è tutta un’esaltazione di radici come se le persone fossero alberi, invece che nuvole. Le radici poi sono i genitori un tempo anziani ed ora morti, gli zii, i cugini, la tribù famigliare.
Gli emigrati che non hanno attraversato l’oceano vivono o hanno vissuto tutti col pensiero del ritorno: anni ed anni a Losanna, Zurigo, Francoforte sempre con l’attesa di rimettere le valigie nel bagagliaio della macchina o di prendere il treno.
Peppino è uno di quelli che ha fatto doppio e triplo lavoro, che ha comperato, come forma di investimento, un appartamento a Torino. Quando poi ha scoperto che l’amministratore lo fregava e che i soldi dell’affitto non bastavano neanche a pagare le spese condominiali, l’ha rivenduto. Ha comperato in seguito due appartamenti nel paese d’origine della prima Candida, ecc. ecc. Voglio dire che nelle mani del portoghese i franchi sono girati e avrebbe forse potuto acquistare una casa a Losanna. Ma o non ci ha pensato o non faceva parte dei suoi progetti di vita o le case nelle città svizzere hanno costi proibitivi.
Se ci pensa su, sostiene che è stato sfortunato. I soldi, dopo tanto lavoro, sono sfumati ed ora deve contarli con attenzione.
Comunque, Peppino ogni tanto torna a Losanna. Mariella, la figlia, vive lì. 

d) Il Peppino portoghese. Quando si separò dalla prima Candida – un lungo allontanamento cominciato anni prima e trasformatosi nella fase finale in un tormentone giuridico tortuoso e costoso – incontrò la seconda, una simpatica e bella signora proveniente da Lisbona, a sua volta separata e con un figlio.
La incontrò nel centro commerciale dove lui lavorava. Candida era in ferie dalla sorella emigrata (molti portoghesi erano e sono emigrati in Svizzera) e si trovava occasionalmente lì per comperare il formaggio. Si innamorarono, unirono felicemente due solitudini e progettarono un’età della pensione da trascorrere un po’ in Portogallo, un po’ in Irpinia.
Ciò che attualmente sta accadendo.
La taverna è impregnata di quest’aria portoghese, di queste passeggiate oceaniche tra le calette e la banchisa di Costa De Caparica.
C’è, innanzitutto, ben esposto, sulla parete destra, dopo gli stipetti e le mensole della cucina, un brandello di rete da pescatori, un’ampia fascia trapezoidale, ritaglio probabilmente di una paranza a cui sono appesi alcuni galleggianti, quattro grandi bivalvi nere, a pinna, un gasteropodo a spirale (murice forse) e la corazza rosea di un granchio. Zapateira lo chiama Peppino e lo immagino in grembiule da cucina, mentre con coltello e martello taglia zampe, spacca chele e corazza per cavarne polpa da cuocere; mescolata a maionese, whisky ad altri ingredienti che non saprei più elencare, ottiene una salsa davvero squisita.
Vinta la mia iniziale diffidenza (non sopporto la maionese), l’ho assaggiata nel mio primo viaggio in Portogallo e posso testimoniarne la bontà.
A sinistra della rete, verso il camino, sistemate orizzontalmente, due gigantesche bivalvi a pinna. Nella parte a punta sono nere, in quella larga sul grigio-marrone e con una superficie tutt’altro che liscia: aspra e scabra. Una meraviglia, davvero una meraviglia! Un mio racconto mi piacerebbe così.
Bivalvi anche sulla parte alta del camino. Appiccicate all’intonaco due file di datteri di mare, tre di sassolini – di quelli che i bambini si divertono a raccogliere sulle spiagge – e cinque file di conchiglie a pettine.
Bivalvi e sassolini, poi, a metà, lungo tutta la sporgenza della parete sinistra. Non mancano tre o quattro gasteropodi a spirale. É possibile, inoltre, ammirare anche un’ostrica con su scritto CAPARICA, dei santini di Sant’Antonio da Padova, dei ceri sempre del santo e un cero del noto santuario di Fatima.
Ci sono, in aggiunta, due ceramiche a forma di piatto, una più piccola ed un’altra più grande. Ambedue tra il marrone lucido e il senape con su scritto, sulla prima, PAO MILHO, sulla seconda ALGADA CHURRASCÃO. Quest’ultima sembra essere il ricordo-ringraziamento di un ristorante. Me l’ha anche detto, ma non ricordo dove il portoghese ha comprato il piattino con la scritta “pao milho” che forse significa “pane di miglio”. “Algada churrascao”, invece, significa “cantina o taverna di carni grigliate”. Il piatto, decorato con fiorellini bianchi e con una scritta sul fondo, viene dalle parti di Odivela. Peppino lo ricevette in occasione di un pranzo che Manuel, suo cognato, nato il 28 maggio come me, pagò ad un vigile. Gli aveva fatto una multa abbastanza pesante. Gliela tolse e allora per sdebitarsi andarono da Algada Churrascão. Ogni mondo è paese. La corruzione, come dicono gli esponenti del partito delle libertà, c’è dappertutto. Un amico poeta, compagno di scuola, l’altra sera ha detto che c’è persino nei tanti osannati paesi scandinavi. D’accordo, gli ho detto: ma quali livelli raggiunge? Ma lasciamo stare questi discorsi in cui tutte le vacche sono nere.
La scritta sul fondo del piatto coi fiorellini recita: Espero che tenha /Desta boa refeição/Pao os votos da Gerencia / Da Adega Churrascao. Traducendo a occhio e croce: Spero che conservi / di questo buon piatto / il pane con gli auguri dalla Gerenza / Taverna di carni alla brace…
E dopo il piattino con la scritta, ancora conchiglie a pettine o gusci d’ostriche a far da intonaco, insieme a lastre di pietra irregolari, sulla fascia bassa delle pareti: sia a sinistra che sulla zona dell’angolo bar.
Ma i pezzi forti di chiara matrice portoghese sono i due quadri esposti sulla parete sinistra dopo la forca: il primo è un azulejo raffigurante una corrida, il secondo è un’immagine di Sant’Antonio proveniente da Lisbona. Il santo, col suo saio marrone, occupa sei piastrelle quadrate e sulla sua testa ha una lampada votiva.
Altri pezzi interessanti di provenienza portoghese sono due ciotole di sughero dell’Alentejo. Afferrandole per il manico, è possibile attingere acqua da bere da un pozzo.  A sinistra della ciotola più grande, appesa sulla parete di fondo, si trova quella che Peppino chiama una cataplana. Parola inesistente nel vocabolario italiano. Probabilmente è lessico lusitano. Ma non saprei dirlo con certezza. Quando andai in Portogallo, Peppino mi incoraggiò: “Imparare a parlare il portoghese è facile. Parla in dialetto bisaccese e vedrai che ti capiranno!…” Aveva ragione. Sua madre, zia Maria, rigorosamente analfabeta e capace di espressioni verbali unicamente in dialetto, s’intendeva prodigiosamente con la nuora In effetti la menina è molto simile alla nostra menenna, la ciucolatera  è la caffettiera  che anche noi chiamiamo così. Ma, come si sa, parlare una lingua non è soltanto un problema di lessico. Si tratta di impadronirsi di un accento, di un ritmo, di una melodia, di un giro sintattico, che forse è il più difficile da apprendere. Soprattutto se si hanno orecchie resistenti agli altrui idiomi. Evidentemente, la zia non le aveva.
Tornando alla cataplana è una padella di rame con doppio fondo per permettere una buona cottura del pesce.
Anche i due colombi di terracotta sistemati sugli angoli della tettoia provengono da Lisbona, il pappagallo verde scolpito magistralmente nel legno è, invece, brasileiro. Dall’Alentejo arriva, invece, il già menzionato cicino, recipiente di terracotta ad uno o due boccagli a seconda che sia riempito d’acqua o di vino.
Ultima curiosità portoghese è la targa che Peppino ha esposto sullo scaffale del portabottiglie. É quella della sua macchina rossa fiammante con cui venne i primi anni a Bisaccia e che poi ha venduto. Ricordo un viaggio con lui verso Rodi Garganico. Le curve gli davano le vertigini. Sensazione di cui soffre profondamente fino alla paralisi. In Portogallo, andammo al castello di Sintra e lui per passare da un muraglione all’altro si teneva appiccicato al muro. 

e) Il Peppino turista non per caso. Da sempre il taverniere ama viaggiare. Comodamente. In alberghi a tre, quattro e cinque stelle. Ai tempi della prima Candida, la riviera adriatica è stata spesso la sua meta; ma poi ha fatto anche puntate in Francia, in Germania, in Austria, in Grecia, in Sicilia, in Algarve, sulla costiera amalfitana, ecc. Di quest’ultima ha due ostriche-ricordo con su scritto AMALFI e POSITANO.
Sull’asse di legno dell’angolo bar, c’è veramente anche una bella ceramica a piatto con la città di Gerusalemme. Non mi risulta che sia andato, ma è indicativa della sua voglia di girare il mondo, di conoscerlo. Ai viaggi a caso, antepone quelli organizzati. Al nomadismo delle roulotte, preferisce la prenotazione e l’invio della caparra all’hotel che lo ospiterà. É chef, non servitore. E’ responsabile del lavoro, nom de dieu!, non cameriere.
É un cinema essere in sua compagnia al tavolo di un ristorante. Legge e rilegge il libretto del menù. Sceglie con oculatezza. Si fa spiegare. E se la malcapitata, invece, del lombo vuole rifilargli un pezzo delle prime costole, stai sicuro che si alza e protesta energicamente.
Due episodi ricordo. Ambedue accaduti in Portogallo. Il primo in un ristorante di Penacova. Eravamo lì, ospiti di un parente. Per onorarci ci portò in un locale specializzato in ricette a base di lampreda. All’entrata c’erano le vasche in cui questa specie di anguille fluttuavano. Quando ci sedemmo, il mio caro cuginetto fece finta di scegliere, poi disse che preferiva al pesce, la carne. E ordinò la picanha. Mi misi sul chi va là. Perché mai?, pensai, lui esperto in ricette ittiche, perché mai non sceglie questo pesce, che pur agli occhi dei portoghesi è una vera specialità. Trovai la risposta poco dopo, appena mi vidi recapitare al tavolo un piatto annerito dal sugo della lampreda, mentre lui gustava dalle mani di una signorina pezzettini di carne di manzo infilzata in uno spiedo che veniva ogni volta riportata sul fuoco. Per fortuna me la fece assaggiare. Io sono un amante del pesce, ma quella era una vera leccornia.
Il secondo episodio mi è capitato in un ristorante dell’Alentejo. Io stavo consumando del baccalà, piatto nazionale, come si sa, dei portoghesi. Lui ordina della carne di vitello. La signora gli recapita un pezzo non proveniente dalla spalla piuttosto che dalla coscia. Apriti cielo!…Dovetti calmarlo. Non si può sfidare impunemente la sua competenza. Per fortuna, alla fine si calmò e la signora gli chiese scusa e lo baciò sulla guancia.
Ovviamente nella taverna sono esposti tutti gli attrezzi che fanno riferimento a questa sua arte della cucina: da una lunga fila di coltelli, al camino, alle pentole, al passatutto, ecc.
Non so se ho dimenticato qualcosa; ma questi mi sembrano gli angoli e gli oggetti essenziali della taverna del portoghese, un locale di sogno, chiaramente specchio stratificato e prismatico della cultura e della storia di Peppino. Come definirla una taverna così? Come caratterizzarla?
Alcuni giorni fa, mi è capitato di entrare dentro la cantina antica di un vecchio contadino. Ogni oggetto al suo posto, ma tutti oggetti che avevano a che fare con la destinazione e la funzione del locale: dalle damigiane ai tini, dalle bottiglie agli imbuti di varia grandezza, dalle giarle alle botti. Neanche un quadro o una conchiglia a pagarla oro, neanche un santino o un souvenir. Un ordine semplice e una corrispondenza tra bellezza degli oggetti e destinazione che definirei perfetta.
Quando questo legame si sia rotto non saprei dire. Ciò che mi sentirei di sostenere è che tra il noto blob televisivo e la taverna di mio cugino esista una relazione neanche tanto segreta, una connessione esplicita. Il che mi fa propendere per l’ipotesi che l’ordine delle cose sia andato in frantumi insieme al racconto.
Se questo è vero, la taverna del portoghese è qualcosa di più di un sogno realizzato da un emigrato. Forse l’Italia è questa taverna postmoderna, una bellezza babelica e caotica, un insieme di culture esposte fianco a fianco senza dialogare.

Agosto 2009

Oggi si vola

di Ezio Partesana

La trama apparente del romanzo è semplice: due uomini, uno scrittore e un fisico, fanno amicizia e condividono alcune esperienze, un prestigioso premio letterario e un esperimento cruciale andato a buon fine. L’ambientazione è tanto precisa quanto rarefatta – Ginevra, strade, campi di volo, abitazioni – e ospita altri uomini e donne che concorrono allo sviluppo della storia. Però non accade quasi nulla. Un amore ha poche immagini e un solo bacio; dell’esperimento si sa tutto tranne in cosa consista; lo scrittore ha smesso di scrivere e medita sopra un manuale a proprio uso e consumo:

Scriverò un Atlante della luce […] lo scriverò soltanto per me, un libretto da portarmi appresso, in tasca. Lo userò come gli ornitologi usano quelli per riconoscere e distinguere gli uccelli, o come i geografi usavano le carte.[1]

I manuali, le carte geografiche, gli atlanti, sono gli unici libri che, anche quando mentono, sono esentati dal dubbio dell’utilità; non c’è nulla da cercare in essi a parte le istruzioni contenute, a questo servono, a imparare. Tutte le altre scritture devono giustificarsi:

… forse alla fine imparerò una geografia diversa, in cui uno, sollevando gli occhi dalla carta che ha in mano, guarda e vede davanti a sé, attorno a sé, un’enorme carta a grandezza naturale, e nonostante questo è capace di mettere il dito in un qualsiasi punto e dire “qui” e dire “io”…[2]

Il termine Atlante non è un sinonimo di manuale, indica sostegno e reggimento, come nel mito greco del titano condannato a portare sulla schiena la terra, e dal XVI secolo i libri dove sono raccolte le informazioni geografiche, soprattutto in forma di disegni.

Il titolo del romanzo del 1985 è Atlante Occidentale, non un manuale dunque né una mappa grande quanto il territorio che vuole rappresentare nel minimo dettaglio, ma pur sempre un “romanzo di formazione”[3], secondo la descrizione che Ira Epstein, il secondo protagonista, ne fa quando spiega come ha imparato a fare questo e quello, perché:

… se posso dubitare dell’intenzione dei romanzi che ho scritto so per certo che il fine di un manuale è uno solo, accrescere la felicità del genere umano.[4]

Un incidente di volo sfiorato è il primo degli avvenimenti che Del Giudice mette in lista, nonché l’occasione di conoscenza tra Ira Epstein, lo scrittore, e Pietro Brahe, ricercatore del Cern. Il tempo della narrazione è il perfetto:

All’inizio del campo d’erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare,[5]

Ma già nella pagina seguente compaiono l’imperfetto narrativo e il presente indicativo, e lo schema si ripete lungo tutto il romanzo. Senza mai violare apertamente le norme della consecutio le proposizioni si mettono sovente in equilibrio opposto, tanto che a volte viene da rileggere il passo per esser certi non ci sia qualche errore:

A Ginevra fermò la macchina in uno dei viali lunghi, […] Cammina su marciapiedi poco affollati,[6]

Ma naturalmente nessun errore, che pure non c’è, potrebbe sospendere la moltiplicazione del narratore: una riga prima è un fedele cronista storico, quella dopo un osservatore casuale alla finestra; ciò che li unifica, in questo caso, sono i fatti – un’automobile si ferma e un uomo cammina – non il tempo della scrittura che appare, sì, ma per dichiarata opposizione: sono io, non sono io, non è questo il problema.

La trama interna del romanzo è molto più complessa: il fisico ha dei colleghi, lo scrittore un editore; un giardiniere compare e scompare come un vecchio saggio; le due donne, entrambe bellissime, sembrano punti cardinali più che motori; il lago, costantemente evocato, non serve a nulla; dello scrittore, che otterrà un prestigioso riconoscimento, apprendiamo un solo titolo, quello del libro che deve ancora scrivere, Atlante della luce.

Seguono descrizioni minuziose, se ne incontrano diverse: aeroplani nella rimessa; collisione di particelle; fuochi d’artificio; prospettive della città. Tutte appaiono rimandare a una necessità di precisione esaustiva, come un catalogo di componenti di ricambio o gli orari della corse da e per Recanati che Leopardi appuntava scrupolosamente nei suoi quaderni. Ma non c’è nessuno che le usi, sono, apparentemente, manuali senza utenti. Qualche spiegazione di questo paradosso, che orienta il contenuto del romanzo, è sparsa tra le pagine.

Per vedere bisogna avere la forza di produrre ciò che si vuole vedere. Lei non crede?[7]

Chiede il premio Nobel Wang a Brahe, nel mezzo di una disputa per pochi centimetri di spazio, e questi risponde,

Sì, certo. Per vedere ci vuole una grande intenzione e una grande energia. Solo così si può produrre quello che si vuole vedere.[8]

Alla rivelazione dell’anziano scienziato, magistrale quanto lo può essere scrivere una frase che resta in equilibrio tra due materie, il protagonista Brahe risponde con una aggiunta di filosofia del Novecento: la tecnica è indispensabile, ma senza intenzione è vuota.

I due scienziati stanno discutendo sopra una qualche sorta di macchina – cosa sia, Del Giudice non lo dice – alla costruzione della quale partecipano entrambi, e ognuno vorrebbe un poco più di spazio per installare i propri elementi. Lo scarto che Del Giudice fa è semplice, eppure convincente: l’acceleratore di particelle e la teoria che sorregge l’esperimento diventano, con sottile maestria, i presupposti trascendentali di ogni vedere; anche dall’aereo, anche in un amore, devi avere la forza e l’intenzione per produrre quello che vuoi vedere, altrimenti non ci sarà nulla.

Eppure non è tutto, non sono solo le condizioni necessarie affinché un’esperienza si dia, o un ricordo, a reggere la scrittura, ma anche una sorta di residuo ultimo non più ulteriormente analizzabile:

Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? E la lettera è irriducibile? No, dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento…[9]

Al ricercatore che lavora per dividere la materia in particelle sempre più piccole, lo scrittore risponde descrivendo la reductio propria della letteratura, e così come in fisica l’oggetto che alla fine si trova non si sa se sia materia o energia, allo stesso modo nella scrittura si scopre un grado zero che “non è ancora forma, ma non è già più sentimento”. E l’analogia prosegue sino in fondo: la realtà fisica, quella che noi percepiamo, è composta da forze in bilico tra essere qualcosa e non essere quasi nulla, il linguaggio dà realtà – una realtà seconda senza la quale non ci sarebbe però neanche una realtà prima – al significato restando sospeso nel mezzo tra ragione e sentimento:

… ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: “Lei mi piace”, e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa.[10]

Mistero o miracolo che sia, accade; e questo è uno degli argomenti, e delle domande, di Atlante Occidentale.

Si comprendono allora meglio le minuziose descrizioni presenti copiose: esperimenti cruciali, non sfoggio di tecnica, verifica e controllo, non estasi contemplativa. La descrizione dei fuochi d’artificio occupa cinque pagine, molte per un puro resoconto, e avviene per sfida, perché il fisico vuole sapere come e cosa veda lo scrittore. E poi si rivela lo scopo della richiesta:

Mentre resta solo, e la luce piano piano ridà spessore alle piante e alle forme del giardino, Brahe cerca di trattenere le forme che ha appena visto, o creduto di vedere; vorrebbe che gli restassero con la limpidezza con cui le ha percepite mentre ascoltava, vorrebbe che avessero la solidità di un punto esterno contro cui rimbalzare, vorrebbe isolarle una per una, disporle in un certo ordine, toccarle…[11]

La divisione temporale tra i fuochi d’artificio mentre si guardano e i fuochi d’artificio percepiti mentre si ascolta il loro racconto, ovvero la distanza tra la semplice esperienza irriflessiva e quella mediata dal linguaggio, l’astuzia narrativa di Del Giudice che separa il momento dello spettacolo pirotecnico dal racconto che lo scrittore ne fa, è il secondo contenuto al quale va incontro il lettore della fenomenologia dell’Atlante: la parola è una delle potenze necessarie a far esistere le cose.

Scarno di personaggi secondari, il romanzo ne mette in luce comunque diversi: Rüdiger, il collega e complice; Mark; Sarad, custode filosofo; il meccanico degli aeroplani; Eileen, la costruttrice di magneti; il collega e rivale asiatico; altri che neppure hanno un nome o un mestiere definito… e Gilda, il capitolo decimo è dedicato alla storia dell’amore tra Pietro Brahe e Gilda. L’intreccio è scandito lungo una sola giornata e si conclude con un bacio, in mezzo, a aprire le danze, il castello che non è un castello e il custode e erede, piccolo “agrimensore” senza il potere inquietante di Klamm, e senza un nome. La ragazza emerge con leggerezza e qualche luogo comune: lo sguardo, i movimenti, l’essere naturalmente parte del tutto. Nel “castello” ovviamente non c’è nulla, e solo il buio protegge le tracce di quel che c’era tempo e che poco alla volta è stato venduto. Il corteggiamento è tutto in mano alla ragazza, Brahe è ridotto a poche frasi, alla fine potrebbe anche non esserci e nulla cambierebbe, e la conclusione è banale:

Brahe si era preparato a sostenere gli occhi di Gilda, ma certe volte il loro movimento era così saldo, e il loro posarsi su di lui così rapido e adesivo che […] doveva cercare riparo… […] per il resto provava ciò che sempre aveva provato in queste circostanze, complicità e tenerezza, un certo senso di responsabilità ai margini del gioco, e soprattutto una fantasia scatenata.[12]

Negli esperimenti e rilevazioni di Del Giudice, una delle due parti che dovrebbe rivelare lo stato dell’esistenza prima che il linguaggio la porti alla luce – “non ancora forma, ma non […] già più sentimento”[13] – fallisce, e dicono che sia una prova scientifica anche questa. La “fantasia scatenata” si riduce a un bacio, la storia d’amore scompare dal romanzo, come Gilda e il castello – erede più di Davanti alla Legge che del romanzo del 1922 – e, andrebbe detto, anche il volo.

La narrazione riesce a descrivere con la forza e l’intenzione necessaria gli esperimenti compiuti, ma si arresta davanti al proprio, ovvero all’attimo della trasformazione dell’atto in potenza; non riesce, insomma, a risalire il tempo quando si tratti di spiegare come un sentimento diventi forma, letteraria in questo caso ma potrebbe anche essere musicale o pittorica, etc. È lo scrittore, Ira Epstein, a spiegarlo, in una lettera al proprio editore Ed, quella nella quale annuncia la decisione di non scrivere più:

Del passato mi interessa come è cambiato di libro in libro il mio rapporto tra etica e forma (non l’avresti detto, tu che hai parlato sempre del mio “cinico candore”). Eppure, dovendo ripensare, ripenserei quello, voglio ripensare a quello per capire che cosa ho fatto.[14]

Accostando questa riflessione con la seguente,

Dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile…[15]

Si nota uno spostamento: prima si parla di rapporto tra etica e forma, dopo dello stato nascente tra sentimento e forma, come se le due cose fossero simili, o potessero almeno mutarsi una nell’altra.

L’etica è già una forma, è una legge non trasgredibile (pena la colpa) che muta un’associazione caotica in una comunità, è una forma che dà forma. Il sentimento, o la tensione – che non si riesce a separare dalla “parola che lo rende visibile” – sono a un grado precedente l’etica ma, in entrambi i casi, si tratta di osservare, se mai possibile, l’attimo nel quale una cosa si rivela, come gli elementi minimi dell’esperimento scientifico all’acceleratore di Ginevra.

A ben vedere neanche il sentimento o l’intenzione, che lo scrittore, vorrebbe poter strappare dalla messa in forma che immediatamente subiscono, sono mera materia. Nell’Atlante Occidentale sono rari i momenti ingenui ma è sempre un soggetto, cioè qualcosa che ha forma, a produrli. C’è la citazione da Manzoni sopra la simmetria e la riflessione di Gilda sul Blues, la battuta un poco sciocca sul carattere femminile e il sipario di Einstein e Kafka che si incontrano a Praga[16]; ma per tutte può valere il finale del romanzo. Qui ha termine, almeno per chi legge, l’amicizia tra Brahe e Epstein, e il tono che adopera Del Giudice conferma che si tratta di un addio, pur senza che si sappia perché: nessuno sta morendo né parte per un mondo lontano, hanno avuto successo e possono, i due amici, rivedersi quando vogliono, eppure è un addio. Brahe corre a grande velocità e imbocca l’ingresso contromano per riuscire a fare in tempo a salutare l’amico che, nel frattempo, indugia in stazione. E mentre indugia riassume tutto quello che è accaduto a se stesso e a Brahe, con un’ultima vista, poco terrena, sul proprio editore, personaggio dello schermo se ce n’è uno:

… vede un editore che sale in macchina per Zurigo, ma al primo motel lungo la strada dice all’autista: “Fermiamoci qui”, e in camera si sfila la cravatta e si stende sul letto senza togliere la coperta e cerca di ricordare, ma proprio bene, ma proprio nei dettagli, il luogo e l’ora e la luce e com’era lui stesso quando un giovane spilungone con gli occhi grigi […] gli ha portato il suo primo manoscritto, e pensa che adesso non ce ne saranno più, e si chiede come mai…[17]

Questa è l’introduzione al congedo, la dimostrazione che la forma, a dispetto del contenuto, determina il sentimento. Tutto va bene, i due amici hanno avuto successo e avranno riconoscimenti, non s’è perso nessuno e, come si deve dire, il sole splenderà alto domani. Eppure qualcosa è finito, e è propria la forma, questa particolare forma di un racconto, che termina. E Gilda non giacerà più con Pietro, Ira non scriverà più, oggi non si vola.

E adesso?
Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.
E questa?
Questa è finita.
Finita finita?
Finita finita.[18]

Con qualche difficoltà leggendo ci si ricorda di attribuire le frasi al giusto personaggio, ma riflettendo non poteva che essere lo scrittore a decretare la fine.

Le tragedie sono sempre chiuse, non perché la vicenda, participio futuro dell’accadere, non possa avere un seguito, sia esaurito il materiale e non ci sia più nulla da dire, ma per la sfrontatezza originaria di voler scrivere, di voler dare forma a qualcosa che non ne ha bisogno e che solo nel pensiero “mi fingo” debba, per sopravvivere, averne una.

Se “esistenzialismo” significa vedere nella singola esperienza una traccia del tutto, Daniele Del Giudice scrive come un esistenzialista. Chi mai potrebbe essere triste perché un racconto, non una vita, è terminato, se non chi pensasse che narrare sia una parte della vita o almeno della sua vita? Atlante Occidentale potrebbe essere riassunto come la storia di un’amicizia, la storia di due teorici che diventano amici perché confrontano le rispettive ricerche e scoprono che hanno qualcosa d’altro in comune oltre alla passione per il volo. A un siffatto riassunto però resterebbe da spiegare non l’amicizia ma il qualcosa d’altro. È un riconoscimento, un comune sentire che va in scena, nella distanza apparentemente siderale tra fisica delle particelle e letteratura contemporanea.

Saresti forse un mio compagno a modo tuo? E ti vergogni perché tutto ti è andato male? Guarda, a me è accaduto lo stesso. Quando sono solo ne piango; vieni, in due è più dolce piangere.[19]

L’inquieto cane di Kafka assomiglia allo scrittore di Del Giudice come una donna al suo ritratto, è vero, ma nei quadri si può cogliere quel che sovente in un volto passa solo di sfuggita. È l’attimo del “sì, è proprio così”, rivelazione di identità e riconoscimento che può esserci solo nonostante la diversità; in geometria i quadrati sono tutti uguali e non parlano tra di loro.

Anche Ira Epstein mette alla prova Brahe, ben prima di mostrargli, con la descrizione dei fuochi d’artificio, cosa significhi vedere, come si debba vedere.

Adesso. Mi dica che cosa vede adesso, in questo istante. Chiuda un attimo gli occhi e li riapra. Se vuole li tenga chiusi finché il nero non le sembra perfetto, senza un’ombra di immagine. Si concentri sul nero fino a farlo diventare più nero che può. Poi apra gli occhi e mi dica cosa vede.[20]

Sembra un rito di iniziazione, con lo scrittore che dà istruzioni e il fisico che prende ordini; poco alla volta Brahe “impara”:

Brahe dice piano ciò che vede, senza voltarsi a controllare le reazioni di Epstein che del resto non lo guarda; non segue un ordine, guarda quello che vede, quello che c’è, passando da una cosa a un’altra…[21],

sino a che la prova di ammissione è superata ma con una riserva, ché il fisico non possiede, o almeno in questo gioco non ha posseduto, la forza necessaria per mettere insieme persone, oggetti e esperienza. Il passaggio è cruciale e Del Giudice non lo salta, anzi spiega nei minimi dettagli quale sia il riconoscimento possibile attraverso il guardare. Epstein è soddisfatto, è diventato amico di Brahe diciamo, ma attraverso quel che non si riesce quasi mai a fare, attraverso un dolore, non una gioia, come i cani pensanti di Kafka. Si parla di un interruttore e di tutto:

“Io l’ho pensato e costruito per te, soltanto per te. Non lo vedi? Non per una mano qualsiasi, ma per la tua mano; non per una storia qualsiasi ma per la tua storia che comincia in questo istante, nell’istante stesso in cui tu apprendi come è fatto”,[22]

E poche righe dopo si spiega come quel modo di vedere sia la vera causa dell’incontro tra i due protagonisti:

Si poteva non essere d’accordo, ma c’era una possibilità di amicizia. Ogni oggetto era comportamento trasformato in cosa, e poi ritrasformato in comportamento…[23]

Come a dire che si conosce l’altro mediante l’esperienza: se è fatta della stessa stoffa si può parlare, si può essere amici. Brahe non ottiene i pieni voti grazie alla sua vista, ma perché scatta fotografie ai “bambini” che corrono lungo l’acceleratore sotterraneo di Ginevra, nel tentativo di catturare la cosa e il comportamento allo stesso tempo. La domanda sul perché esista qualcosa si trasforma nel corrispettivo del come dire quello che esiste?, è in questo territorio che i due si incontrano e riconoscono come facenti parte della stessa specie di “guardanti”. È un esistenzialismo del soggetto e dell’oggetto, quello di Del Giudice, ma sopra tutto della loro reciproca possibilità di congiunzione, o del suo fallimento.

Lei forse pensa che un visionario sia qualcuno che vede mostri, che vede un ponte tendersi ad arco e scoppiare, non uno che sente la porosità del suo cemento senza toccarlo: io sono un visionario di ciò che esiste, un visionario di quello che c’è, e tale visione, per precisione e densità, non è meno sconcertante.[24]

Lo straniamento – fosse tedesco sarebbe Unheimlich – di Del Giudice si inerpica sino alle scelte stilistiche. La grammatica è essenziale, quasi povera, soventi sono i “ciò” e i “cui” al posto del più ricercato pronome dimostrativo “quello”, così come la scelta dell’indicativo dove un congiuntivo sarebbe più elegante. Il lessico segue la grammatica; nonostante gli argomenti trattati, non si trova alcun termine che un lettore scolarizzato non possa comprendere, a meno di non voler considerare “anemometro”, “giroscopio” o “orizzonte artificiale”[25], parole che non appartengono a un gergo ma semplicemente descrivono alcuni strumenti del volo. La imitazione delle cose, l’intenzione a loro rivolta, non implica una selezione di parole, non è questa la strada.

I dialoghi non sono copie della realtà, ma estratti di una osservazione, collegano un gesto al successivo e raramente fanno storia a sé. Rivelano a volte quel che è accaduto ma con un pudore particolare. Brahe sta informando il suo amico Rüdiger che l’esperimento ha rilevato qualcosa di interessante; sono nell’anfiteatro delle conferenze e una ragazza sta suonando un pianoforte:

(Brahe) È sceso in punta di piedi fino alla fila dietro Rüdiger; si è seduto senza fare il minimo rumore. […] Poi si è chinato sulla sua spalla, gli ha detto piano all’orecchio: Noi avevamo un appuntamento, o no?”
Rüdiger ha fatto un sobbalzo. Ha sorriso: “Sì. Ma è bellissima”.
“Sembra anche a me”, ha detto Brahe, osservando con intenzione la ragazza.
“La musica, volevo dire”.
[…]
“Ci pensi a come doveva essere tutto più facile in quell’epoca? Ha detto Rüdiger sottovoce, tirando indietro la testa.“
Per chi?”
“Per tutti”.
“Non credo, - ha detto Brahe. - Ognuno sente che il posto dove bisogna essere è qui, e il tempo è questo”.
“E perché?”
Brahe si è avvicinato ancora di più all’orecchio di Rüdiger: “Se non altro, perché ci sono almeno tre candidati. Molto, molto seri”.[26]

Lo spostamento dalla musica – barocca o ottocentesca che sia – alla fisica è tutta nella frase sul tempo, nell’asserzione secondo la quale “il tempo è questo”, una frase che difficilmente si potrebbe ascoltare in una conversazione registrata sul campo, ma che svolge alla perfezione la funzione di rispondere alla bellezza – della ragazza e della musica – e al tempo stesso introduce la comunicazione cruciale: l’esperimento sta avendo successo. La scena è perfetta; sembra concepita affinché nessuno se ne accorga, la ragazza, il pianoforte e la musica dànno aspettative d’altro genere, ma d’improvviso lo straniero si toglie il mantello e mostra quel che davvero è venuto a fare, e il resto scompare.

Dunque il dialogo, così ben distillato, era un inganno e noi ci siamo caduti. Non è stata la verosimiglianza a sedurci, nonostante l’ironico fraintendimento sulla bellezza, né una progressione drammatica, ma la forma di un incontro apparentemente fortuito dentro il quale si nasconde un avvenimento. Nascosto dentro lo stile apparentemente semplice di Del Giudice si trova la decisione autorale sul quando e come far apparire le cose, un’amicizia, una villa, un laboratorio. Nessuna si offre da sé pronta a essere esperienza ma ognuna deve prima essere ricercata con forza e intenzione – come una frase, come una particella – e solo dopo si lascia vedere. È un romanzo di formazione Atlante Occidentale, dove si apprende quale sia il percorso affinché un oggetto diventi oggetto di esperienza, e dunque si possa finalmente percepire.

Le particelle subatomiche e i fuochi d’artificio hanno bisogno della medesima disposizione da parte del soggetto che vuole osservarli. E per leggere il romanzo si deve seguire la stessa procedura:

“Come mai oggi non lavora?”
“Chi le dice che io abbia un lavoro?” disse Brahe sorridendo.
“Italiano a Ginevra, con una macchina di servizio. Lei non lavora alla giostra?”
Brahe spostò gli occhi dal retrovisore interno a quello esterno, iniziò il sorpasso, disse: “Sì, lavoro alla «giostra»”.
“E cosa fa esattamente?”
“Guardo i bambini, li controllo. Quando passano faccio delle fotografie per dimostrare che sono passati veramente”…[27]

guardare quel che accade e fotografarlo, per essere sicuri sia accaduto veramente. I soggetti, il fisico, lo scrittore, devono volere quel che accade per potere essere certi che sia successo veramente. I bambini si lasciano spiare facilmente, insomma, purché sia importante farlo.

Se esistesse ancora il verismo, Del Giudice, probabilmente, sarebbe stato un verista: la trama è il contenuto del romanzo, la forma la sua coscienza. Chi volesse potrebbe controllare ogni singolo passaggio: come un incontro reagisca di fronte a un dialogo o l’effetto che una battuta scherzosa ha sopra il ritmo della narrazione, e anche questo sarebbe, a suo modo, un esperimento, una “fotografia” del bambino che scrive.

Se il tutto è falso[28], Atlante Occidentale ne fa a meno. Costruito il grande specchio che riflette – in entrambi i significati, duplicare e pensare con intenzione – la realtà, intorno ci sono cose che non si vedono o non si possono vedere allo stesso modo.

Dopo lo sfiorato incidente sul campo di volo, Brahe torna a casa e trova Eileen, “la ragazza inglese che costruiva magneti” e Sarad, l’indiano delle onde gravitazionali[29]. Racconta dell’incontro con l’altro volatore, Epstein, e lo identificano nello “scrittore”; Eileen lo ricorda, Sarad credeva fosse morto. E poi segue una frase che non ha senso:

Sembra che i colpi e le punture tornino a fare male la stessa ora del giorno successivo. Parecchi metri sotto terra, il giorno dopo, mentre spiegava ad altri la traccia di una collisione ad altissime energie, Brahe sentì una fitta all’insellatura delle spalle, un dolore tenue subito riassorbito in pizzicore, col quale il corpo celebrava una sua personale ricorrenza.[30]

Quale sia questa ricorrenza non è dato sapere: lo spavento per la mancata collisione, forse, o il dubbio che lo scrittore appena conosciuto fosse morto. Di questa sorta di sospensioni della ricerca ce ne sono diverse nel romanzo, non proprio divagazioni, piuttosto ricordi involontari, colazioni di prima mattina. Sono passaggi nei quali il rigore dell’«esperimento» sembra venire meno e qualcosa fa irruzione senza che sia cercato e osservato. La spiegazione, poco convincente in verità, è nella righe finali:

“Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”.
“E questa?”
“Questa è finita”.
“Finita finita?”
“Finita finita”.
“La scriverà qualcuno?”
“Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.[31]

Due cose paiono sfuggire alla legge: l’amicizia e l’amore. Non c’è nessun motivo per il quale Epstein e Brahe diventino così intimi né, a parte la bellezza della ragazza, esiste ragione dell’amore tra quest’ultimo e Gilda. A queste adesso, alla fine della scrittura, se ne aggiunge una terza: non era importante scrivere la storia quanto avere un sentimento verso di essa, il minuscolo passaggio che già Epstein aveva ricordato[32] e che Del Giudice pone in calce al suo racconto. E con questo siamo riportati in un mondo due volte interiore: imparare a vedere per poter provare un sentimento mentre si guarda. La realtà è una forma che consente di vivere, un insieme di forme che, una volta apprese, consentono la vita.

Così, se si dovesse scrivere un manuale per il manuale di Atlante Occidentale si dovrebbe cominciare dal volo, attività umana che non si può eseguire senza avere molto studiato ma che, in fin dei conti, si compie per provare un sentimento, non per imparare a essere un uccello.

 

 Note   

[1] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino, 2019, pag. 147.
[2] Ibidem.
[3] Daniele Del Giudice, Op. cit., pag 64.
[4] Ibidem.
[5] Op. cit, pag 3.
[6] Op. cit., pag. 84.
[7] Op. cit., pag. 42.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit., pag. 137.
[10] Op. cit., pagg. 137-38. Corsivi miei.
[11] Op. cit., pagg. 143-44. Corsivi miei.
[12] Op. cit., pag 123. Corsivi miei.
[13] Op. cit., pag. 137.
[14] Op. cit, pag. 31. Corsivo mio.
[15] Op. Cit., pag. 137.
[16] Op. cit., rispettivamente alle pagine 136, 125, 94 e 69-70.
[17] Op. cit., pag. 160.
[18] Op. cit., pag. 161.
[19] Franz Kafka, Indagini di un cane, in Racconti, Mondadori, Milano 1978.
[20] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino, 2019, pag. 58.
[21] Op. cit., pag. 59.
[22] Op. cit., pag. 63.
[23] Ibidem.
[24] Op. cit., pagg. 63-64.
[25] Cfr. Op. cit., pag. 106.
[26] Op. cit., pag. 151.
[27] Op. cit., pagg. 16-17.
[28]Das Ganze ist das Unwahre”. Cfr. Th. W. Adorno, Minima Moralia, Suhrkamp, Frankfurt, 1987, pag. 57.
[29] Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino 2019, pag. 18.
[30] Op. cit., pag. 19.
[31] Op. cit., pag. 161.
[32] Cfr. Op. cit., pag. 137: “E la lettera è irriducibile? È l’«ultimo»? No, dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile”.

La realtà di Artù

Riflessioni sui rapporti tra realtà e immaginario

di Rita Simonitto

Artù guarda fisso e immobile il pavimento. Un pavimento di parquet, di quelli a spina di pesce. Ci si perde sempre in quella geometria di linee che si incrociano, poi si dipartono e poi si incrociano di nuovo. Capisco che si possa essere presi da una sorta di ipnotismo!

La luce del sole vi arriva dopo aver superato, fuori dalla finestra,  una ciocca ribelle dell’alloro che, facendo l’indipendente, ha deciso di uscire dalla potatura che gli era stata imposta “a parallelepipedo”. Dai fasci luminosi che entrano nella stanza, si formano impasti di colori che danno più o meno risalto agli oggetti che toccano. Continua la lettura di La realtà di Artù