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Su “Non c’è niente a Simbari Crichi”

di Angelo Australi

Nel numero 171-172 della rivista Erba d’Arno, diretta da Aldemaro Toni, è stata pubblicata questa mia recensione al libro di Sonia Serazzi, Non c’è niente a Simbari Crichi, che ci tengo in modo particolare a far conoscere ai lettori di Poliscritture. La scrittrice è nata a Napoli nel 1971 e vive in un piccolo paese della Calabria, dove è tornata per scelta dopo essersi laureata a Perugia. Questo è il suo libro di esordio uscito nel 2004, che sempre l’editore Rubettino ha ripubblicato nel 2020. Ne sono arrivato a conoscenza leggendo il saggio La restanza dell’antropologo Vito Teti (Einaudi 2022), dove viene citata insieme ad altri autori per questo loro, non so se chiamarlo desiderio oppure bisogno, così lo chiamo incontro con la realtà dei piccoli paesi dell’entroterra non toccati dal turismo, che vivono il loro lento abbandono e spopolamento in una indolenza che sembra abbia la forza di sospendere il tempo. Oltre al libro interessato da questa recensione la Serazzi ha pubblicato, sempre per Rubettino, il romanzo breve E le ortiche c’hanno sempre ragione (2006) e Il cielo comincia dal basso (2018). Buona lettura… (a. a.) Continua la lettura di Su “Non c’è niente a Simbari Crichi”

Su Daniele Del Giudice

di Angelo Australi

La morte di Daniele Del Giudice non mi ha colto di sorpresa, da anni era affetto da una grave malattia neurologica che non gli permetteva più di scrivere. Di questo grave male, del suo non più scrivere, lo abbiamo saputo dai giornali, più o meno nel 2019, quando Einaudi ha ristampato Atlante occidentale arricchito, rispetto all’edizione del 1985, del diario scritto nei giorni del sopralluogo al Cern di Ginevra, fatto prima di scrivere il romanzo. Ma del resto non ci aveva abituato a uscite troppo frequenti dei suoi libri, è sempre stato uno scrittore molto parsimonioso. Dal 1983 con Lo stadio di Wimbledon, alla raccolta de I racconti, pubblicato nel 2016 (racconti in massima parte già editi), Del Giudice ci lascia in eredità sei/sette libri davvero straordinari, usciti a distanza di anni l’uno dall’altro. E questa parsimonia dice tanto della sua serietà, del suo amore per una letteratura in grado di interpretare le tematiche del reale in anticipo sui tempi, di una narrativa capace di prendere le distanze da certi stereotipi, di stare allo stesso livello delle altre aree del sapere, di tentare una sua originale e sincera forma di ricerca, una sua idea di sperimentazione. Scrive Italo Calvino nella presentazione a Lo stadio di Wimbledon, apparsa nella quarta di copertina della prima edizione (uno dei motivi per il quale fui incuriosito ad acquistare il libro): Dalle domande che egli pone, pare lo interessino le ragioni per cui quell’uomo (Roberto Bazlen), pur avendo una coscienza letteraria molto esigente – anzi, forse proprio per questo, – invece di scrivere preferisce agire direttamente sulla vita delle persone. È la scelta tra « scrivere » e « non scrivere » che il giovane vuol risolvere?  Personalmente, da questo punto di vista, proprio perché si pone un certo tipo di dubbi, penso che Del Giudice sia uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni del Novecento, e non solo per il panorama italiano, uno dei pochi da tornare a leggere più volte, scoprendo nella sua scrittura sempre qualcosa di nuovo del suo mondo, e del mio, del perché nell’uomo ci sia questo bisogno di raccontare delle storie, un bisogno sempre da rimettere in discussione giocando sull’equilibrio tra un metodo imposto dalle regole e la sorpresa dell’imprevisto che può nascere sorprendentemente dalla finzione.

Non voglio e non posso scrivere un saggio, dico solo che tutte le volte che leggo un suo libro, per alcuni giorni sento addosso il peso e l’importanza della scrittura, e per un po’ la bellezza della lettura fa dimenticare anche il bisogno di scrivere. Al mio paese negli ultimi anni abbiamo messo in piedi un gruppo di lettura che si incontra presso il Centro Sociale Il Giardino, dove mi è capitato spesso di proporre una discussione sui suoi libri. Del racconto Nel museo di Reims, per esempio, ne ho parlato e fatto letture pubbliche in svariate occasioni, questa storia che si sviluppa tra un uomo che sta perdendo la vista e una donna che con la sua voce lo guida per le sale del museo, inventando dettagli sensoriali intorno ai colori dei quadri, racchiude in sé il forte potere evocativo della parola sospesa tra capacità creativa e menzogna, racchiude in sé quel misterioso vortice di pensieri e sensazioni che è la letteratura, attiva la discussione sui dettagli e ampia la prospettiva su cosa sia il reale.

Dal 1983, con Lo stadio di Wimbledon, romanzo che si sviluppa come una ricerca sulle tracce del triestino Roberto Bazlen, personaggio quasi da romanzo lui stesso, grande amante della letteratura e consulente di importanti case editrici, che però non ha mai scritto opere creative, passando poi per Atlante occidentale, un romanzo che si misura con le nuove scoperte della fisica per portarci a riflettere su alcune trasformazioni irreversibili del nostro tempo, e poi le raccolte di racconti Staccando l’ombra da terra (1994) e Mania (1997), e lo strano romanzo/diario/documento storico Orizzonte mobile (2009), nel quale Del Giudice, raccontando del proprio viaggio in Antartide sulle tracce scritte di precedenti spedizioni fatte da uomini avventurosi e spesso finite tragicamente, racconta l’urgenza, il dovere che ha uno scrittore di allargare i punti di vista sul limite di una frontiera del reale dove persiste un fondo estremo, crudo, atroce, da guardare in faccia, da toccare, sperando di raggiungere ancora dei segreti da svelare. Sono solo questi i libri che ha scritto, oltre a In questa luce, una raccolta di saggi uscita nel 2013, saggi che poi sono sempre anche un po’ racconti che custodiscono le ossessioni, le manie dell’autore, come quest’ultimi, cioè i suoi racconti, sono sempre anche un po’ dei saggi.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, prima per corrispondenza, a fine agosto 1987, quando con il Circolo Letterario Semmelweis organizzavamo una serie di conferenze dal titolo MOVIMENTI CONTRATTI – Il ruolo dello spazio quotidiano di azione individuale in una società tecnologicamente avanzata. Il mondo negli anni Ottanta stava cambiando drasticamente le sue prospettive sociali, non aveva più nelle città un centro di diramazione propositiva e noi in provincia volevamo capirci qualcosa, raccontare la nostra esperienza in modo autentico proprio con l’aiuto della letteratura che in questo ciclo di conferenze si confrontava ad ogni incontro con una diversa forma espressiva. Daniele Del Giudice accettò volentieri di partecipare al confronto tra letteratura e scienza insieme al fisico fiorentino Giuliano Toraldo di Francia, a me e a Fabrizio Bagatti. Nelle sua lettera di accettazione scriveva: Partecipo volentieri, dato che il tema mi interessa e lo sento abbastanza vicino a quanto cerco di fare con il mio lavoro. Questa comparazione tra scienza e letteratura era stata inserita proprio pensando a lui e al suo libro Atlante Occidentale (era ancora il tempo in cui la presenza di un libro – se importante – sul mercato poteva resistere alcuni anni), dove i protagonisti sono il vecchio scrittore di successo, in odore di Nobel, Ira Epstein, e il giovane fisico italiano Pietro Brahe, che lavora nel grande centro di ricerca di Ginevra, dove si trova l’acceleratore di particelle del Cern.

L’iniziativa si tenne poi il 7 maggio del 1988, presso la Biblioteca Comunale Marsilio Ficino di Figline Valdarno. Del Giudice ci raggiunse in treno arrivando con mezz’ora di ritardo, suscitando un po’ di insofferenza nei partecipanti, ma poi la discussione fu interessante e ricca di spunti di riflessione per tutti, almeno io e gli amici dell’associazione ne parlammo per giorni. Non esistevano ancora i cellulari, sicché aspettavamo impazienti sperando nel suo arrivo. Ricordo che entrando nel salone della biblioteca sorrise timidamente scusandosi, il treno da Venezia era partito in ritardo ed aveva perso la coincidenza alla Stazione di Santa Maria Novella. « Fortuna che nel pomeriggio ci sono molti treni locali per il trasporto dei pendolari che lavorano a Firenze » gli dissi scherzosamente, mentre ci presentavamo. «Australi, … molto bello; un cognome da scrittore ». Lui sorrise di nuovo, e mi strinse la mano.

  

La Letteratura è morta, …ma si può ancora “scrivere”

Alcune riflessioni nate dalla lettura del libro di Ricardo Piglia “Critica e finzione

di Angelo Australi

Se dovessi esprime un giudizio dalla quantità di romanzi pubblicati attualmente in Italia, la letteratura contemporanea sembrerebbe attraversare una stagione feconda, poi entri in libreria e le tue buone intenzioni scemano fin quasi a sparire, le curiosità per l’acquisto si riducono ad un senso di noia perché intuisci subito che qualcosa non funziona. Le novità si avvicendano ad una velocità sconcertante, per soddisfare aspettative in fondo scontate. Si ha quasi l’impressione che ci sia un’invasione di occasioni assolutamente da non perdere, di capolavori che non aspettano altro che di essere letti, mentre se chiedi al commesso un titolo uscito da due o tre anni, che magari ti è sfuggito e non trovi sugli scaffali organizzati in ordine alfabetico sui nomi degli autori, ti senti rispondere che non è più nel circuito della distribuzione e puoi trovarlo solo acquistando online. E’ un dato di fatto, se non pubblichi almeno un libro all’anno, meglio ancora uno ogni sei mesi, sei fuori dal cerchio magico della notorietà. Questo la dice lunga sullo strano modo in cui si è trasformata l’industria del romanzo: il prodotto si vende fresco di stagione, altrimenti resta lì qualche mese e poi sparisce di circolazione, diventa un oggetto da rintracciare curiosando nelle librerie online dell’usato. Un amico, in visita a Firenze con alcuni spagnoli che a Barcellona seguono i suoi corsi sulla letteratura italiana, quando gli ho suggerito di dedicare uno dei suoi incontri a Romano Bilenchi, chiedendo in varie librerie fiorentine non ha trovato disponibile neppure uno dei suoi libri. Spesso mi domando se oggi ci fosse un nuovo Joyce sconosciuto, chi mai avrebbe il coraggio di pubblicarlo?

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Teorizzazione della contraddizione nell’opera di Franco Fortini

di Erminia Passannanti

Con una Nota di Ennio Abate in Appendice

“Credo alla verità di alcune mie poesie
perché ogni loro verso porta
il segno della contraddizione.
(F. Fortini)

Impegnato nei dibattiti tra gli intellettuali della nuova sinistra su Quaderni piacentini, negli anni Sessanta Fortini inizia a sostenere che la lotta di classe non può essere condotta solo con il discorso oppositivo e dialettico, ma dalle trasformazioni determinate dalla rivoluzione culturale a cui pensava Mao Tze Tung, come si evince dal brano “Per la morte di un maestro”, ne L’Ospite ingrato: Continua la lettura di Teorizzazione della contraddizione nell’opera di Franco Fortini

Scena di soffioni

palombaro-poetico

di Donato Salzarulo

Questa riflessione di Donato Salzarulo sui – potremmo dire – dilemmi psichici di uno dei “moltinpoesia” s’appoggia ad una autolettura di “Soffioni boraciferi e altre poesie” (qui). Pur proseguendo il filo dei  commenti sotto quel post e rispondendo ad alcune  mie obiezioni, ha una  sua autonomia e ampiezza che giustificano  la pubblicazione in un post autonomo. [E.A.]

Ogni tanto mi faccio palombaro
di me stesso, do uno sguardo alle correnti
sottomarine, al guizzare di alici,
tonni, scorfani e sardine. M’aggiro
per un po’ tra le barriere delle mie
isole coralline… Continua la lettura di Scena di soffioni

Vero come la finzione

Simonitto film mela
di Rita Simonitto

 (Stranger than Fiction), di Marc Forster, 2006, USA)

Il film

[Partendo da un film, Rita Simonitto compone un piccolo saggio sulla conoscenza e sul divario – acuitosi nella storia umana – tra conoscenza logico-razionale e intuitivo-immaginifica (o, semplificando, tra bisogno di controllare con metodo la realtà esterna e bisogno di ascoltare le passioni che da quella interna o psichica provengono). Le peripezie di Harold Crick, il personaggio del film, sono le stesse dell’uomo novecentesco alle prese con il «disagio della civiltà» (Freud). Ma quanto le due dimensioni (che poi sono anche quelle del mito o del sogno e della storia) possono gradulamente integrarsi o, come troppo ottimisticamente si tende a dire, armonizzarsi? (E.A.]

Harold Crick, ispettore del servizio fiscale americano, ha una vita metodica scandita dal suo orologio digitale. La sua ossessività lo porta a contare tutto: dal numero dei colpi di spazzolino che dà ai denti, ai passi che compie fino alla fermata dell’autobus addentando la quotidiana mela. Ma un giorno, in bagno, durante i suoi maniacali conteggi, inizia a sentire una voce di donna che racconta momento per momento la sua quotidianità e a volte la anticipa con toni salaci e critici: è come una fastidiosa eco, un fantasmatico ‘specchio vocale’ che ‘riflette’ i suoi pensieri più intimi.
L’irruzione di una realtà ignota, una presenza che solo lui percepisce e di cui non capisce l’origine, lo inquieta al punto che non riesce a mantenere la sua abituale concentrazione, cosa che gli è indispensabile per il tipo di lavoro che fa e che assorbe tutte le sue energie. Continua la lettura di Vero come la finzione