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L’errore di Rousseau

Göbeklı Tepe e la via lattea

di  Paolo Di Marco

 

1- per aspera ad astra

Quando abbiamo parlato in ‘ l’invenzione dell’egoismo ’ della conferenza ‘Man, the Hunter’ del ’66 abbiamo visto tre punti focali: la falsificazione dell’assunto della vita arcaica come ‘breve, brutale e battagliera’; il conseguente svuotamento della dicotomia hobbesiani-rousseauiani che aveva polarizzato antropologi ed economisti intorno a due visioni opposte dell’evoluzione: quella di Hobbes del conflitto intorno a risorse scarse come elemento atavico ma sempre fondante della natura umana e quella di Rousseau che parte da un originario giardino dell’Eden per portarci obtorto collo, trascinati dallo sviluppo tecnologico, a capofitto nella società moderna e la sua complessità; e infine i due fuochi correlati di egualitarismo e libertà.
Mentre la base di quel primo saggio era il libro di Suzman, ‘Work’, per andare avanti ci rifacciamo ad un libro appena uscito (per ora solo in inglese, ma da molti acclamato come il nuovo ‘Origine delle specie’) di David Graeber e David Wengrow (antropologo e archeologo), ‘The Dawn od Everything’ (l’alba di tutto’).
E il punto di partenza del libro è proprio questo: il fatto che sia Hobbes che Rousseau condividono una visione lineare del percorso umano, da una fase di raccoglitori-cacciatori primitivi (poveri e litigiosi secondo Hobbes, ugualitari e innocenti secondo Rousseau..ma in entrambe i casi assai meno evoluti e meno intelligenti dell’uomo moderno, ça va sans dire) ad agricoltori che producono il surplus necessario per mantenere principi e sacerdoti e infine all’homus tecnologicus che del progresso è il culmine.
E la cosa buffa è che Rousseau e gli illuministi sviluppano le proprie proposte come risposta alle critiche alla società francese (e occidentale in genere) proprio di uno di quei primitivi, probabilmente ambasciatore della confederazione irochese dei Wendat (in America del nord) nella Francia del ‘600: Kandiaronk.
La Confederazione viveva ancora in una economia di raccoglitori-cacciatori, in un ambiente ricchissimo sia di frutti che di fauna, e alternavano la struttura sociale fra la fase ‘cittadina’ durante l’inverno e quella dispersa l’estate. Senza aristocrazie né leggi né polizia, i capi venivano scelti per la capacità di convinzione e l’eloquenza; Kondiaronk come capo confederato era dunque il risultato di un processo di selezione dove eccellevano i più intelligenti ed eloquenti insieme, e non è un caso che le sue critiche, riportate nel libro del francese Lahontan, facessero tanta impressione. Nelle discussioni quello che gli interlocutori non riuscivano proprio a capire è perché lui insistesse di essero loro più ricchi dei francesi, e schernisse l’elenco di beni materiali e di lusso che loro esibivano, sottolineando la ricchezza degli irochesi non solo in rapporto ai loro reali bisogni ma anche in termini di tempo e di felicità.
Ma la reazione di Rousseau è, se scusate il bisticcio, reazionaria: implicitamente o esplicitamente fa sua la posizione di Turgot e ribadisce che la società del momento è economicamente la fase più avanzata possibile e che il selvaggio che la critica è appunto un selvaggio: felice forse ma un pò tonto.
Ma è proprio l’idea di evoluzione e di progresso di Rousseau, che poi diventa luogo comune, che non funziona (come già ci aveva detto in altri termini Jay Gould).

2- un passaggio di fase lungo tremila anni

La transizione canonica da raccoglitori-cacciatori ad agricoltori non è in realtà esistita, a meno di voler chiamare tale un percorso lungo 3000 anni; ma dove, diversamente dalla vulgata anche recente, non c’è stato alcun avanzamento, per quanto lento, in una direzione. Per chiarire valga l’esempio degli irochesi stessi:
a differenza del Kalahari il Nord America è ricco di frutti e di fauna, e le differenze stagionali favoriscono una organizzazione sociale differente fra estate e inverno: una struttura seminomade e dispersa in estate, una struttura di tipo cittadino in autunno-inverno. Alla vita degli Ju/‘Hoansi si è aggiunta una dimensione.
E questo schema si ripete in Medio Oriente, Asia sudorientale…su scale anche assai ampie (con città di 5000 abitanti come ÇatalÖıük e anche più altrove).
Ma a questo livello se ne sovrappone un altro: nel nord verso il Canada le tribù sono in territori ricchi di pesca, salmoni e simili, e questo porta ad accumulare nella stagione buona il pesce che va lavorato e conservato per l’inverno. Il che porta anche a costruire depositi, e ne consegue la necessità di qualcuno che li protegga. Mentre altrove le razzie e le battaglie sono occasionali, così come sono pochi e temporanei gli schiavi fatti in battaglia (o che lo diventano per meccanismi interni alle tribù), qui i guerrieri diventano casta, poi aristocratici, liberi dal lavoro manuale che viene lasciato ai comuni e agli schiavi (in un circolo di rinforzo continuo, dato che per fare schiavi occorre fare guerre o razzie). Gli aristocratici non accumulano ricchezze o terre ma tutto il loro surplus viene impiegato in feste ed esibizione di spreco (i potlach), con un’elaborazione artistica raffinatissima degli oggetti, sia dell’uso quotidiano sia simbolici.
Nel sud, ed è più evidente nelle zone di confine, si sviluppa invece una struttura sociale egualitaria: i capi vengono eletti senza potere, e devono dirimere controversie e prendere decisioni tattiche e strategiche solo colla convinzione.
Si prendono tutte le misure affinché nessuno possa avere potere su un altro, in voluta e palese contraddizione, in un processo di scismogenesi, coi vicini del nord.
E anche questo processo si ripete altrove, tra l’egualitaria ÇatalÖıük e la Göbeklı Tepe che più a nord sviluppa costruzioni grandiose col lavoro concentrato di migliaia di ore/uomo. Ma anche qui in un processo che varia stagionalmente (così come Stonehenge e i Menhir francesi).
In tutte queste società esiste la domesticazione degli animali, primi i bovini e ovini, come anche l’utilizzo dei semi selvatici (dal frumento al mais agli altri), ma l’agricoltura come domesticazione implica moltissimo lavoro, che viene volutamente evitato. È solo nella Mezzaluna fertile che vediamo l’agricoltura nel senso di domesticazione, ma non a caso nella sola zona dove è la natura ad occuparsi della gran parte del lavoro: sono tutte zone umide dove l’acqua va e viene, lasciando il fango fertile e togliendo i residui. Ma altrove viene scientemente rifiutata.
E qui c’è il punto fondamentale del libro: è bello e affascinante vedere il percorso degli uomini come il cammino lungo una linea di minima resistenza (rispetto a tutti gli elementi materiali in gioco), una geodetica nello spazio non solo geografico ma sociale. E molti antropologi hanno seguito questa via, grazie anche alla quantità di dati che gli strumenti più raffinati di oggi forniscono (dalla datazione radioattiva dei reperti all’analisi del DNA di piccolissimi resti). In questo modo però si sono lasciati trascinare dal determinismo, laddove sarebbe stata più consona la posizione di Marx:’ l’uomo è artefice del proprio destino, all’interno di circostanze che sono fuori dal suo controllo’.
Quello che questa maggiore ricchezza materiale di dati invece non ha fornito è stata la capacità di uscire dai preconcetti, e in particolare da quell’idea lineare di progresso che era ancora di Rousseau e che troviamo in tutti i nostri libri di testo, talmente ovvia da non essere mai messa in discussione.
E qui vediamo piuttosto come nel corso di 3000 anni gli uomini, abili e intelligenti perlomeno come noi, abbiano compiuto delle scelte politiche riguardo al proprio modo di organizzazione, alla forma sociale, al modo di produzione. E come il centro delle loro scelte ruotasse intorno alla libertà (e all’egualitarismo che ne scaturisce) o alla sua mancanza. E questo in cicli e territori sempre più ampi ma dove si riproponevano scelte analoghe. Duemila anni prima di Uruk e Babilonia, coi loro sacerdoti, re, burocrati, e a volte nello stesso posto, oppure in Meso-America a Teotihuacan, in Ucraina a Nebelivka, si erano sviluppate città di decine di migliaia di abitanti senza re nè burocrazia, che usavano l’agricoltura ma non ne erano schiave, che mantenevano l’equilibrio con l’ambiente; mentre poco a fianco, frutto od origine della scismogenesi, prosperavano aristocrazie e clero.

La seconda parte del libro ruota intorno alla domanda che rimane:
come mai, dopo che per 3000 anni l’uomo ha avuto la possibilità di scegliere, e l’ha fatto, siamo poi rimasti incastrati in un sistema che invece ce la toglie?

Qualche piccola deviazione:

En passant si vede anche che il culto dei morti è probabilmente qualcosa di diverso o perlomeno più complicato di come ce lo raccontavamo: i primi monumenti funebri contengono per lo più personaggi deformi (nani, acromegalici, …) che corrispondono però da vicino ai personaggi centrali di una loro festa particolare: i re del carnevale.
E, sempre en passant, si ragiona su come laddove la libertà è negata il punto di partenza non possa essere che la famiglia, col dominio del patriarca su donne e bambini.
Ma nel contempo, riprendendo una distinzione di Levi Strauss tra ‘scienza speculativa’ e ‘scienza concreta’, vede all’origine della scienza le donne, col lavoro femminile (dal cucito all’organizzazione della casa) che si configura come il più distante dalla natura immediata, manipolatore e anticipatore e di logica, geometria, biologia. E quelle figurine di argilla che erano viste come le ‘dee-madri’ diventano le sapienti della città.

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David Graeber e David Wengrow, ‘The Dawn of Everything: A New History of Humanity’ Farrar, Straus and Giroux, 11/21
Louis-Armand de Lom d’Arce, baron de La Hontan, ‘Dialoghi curiosi con un selvaggio di buon senso che ha viaggiato’, 1703
Jean Jacques Rousseau, ‘Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes’, 1755
Stephen Jay Gould, Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori ’97

La liquidazione del timor di Dio

Prontuario tascabile di letteratura francese (2)

di Elena Grammann

LETTERA R

Rousseau, Jean-Jacques

Le Confessioni di Rousseau sono un’opera di cui si può soltanto consigliare la lettura. Difficile immaginare qualcosa di più onesto nelle intenzioni, di più disonesto nella realizzazione e, come risultato di questi due vettori, di più “giusto” e affascinante[1]. Idealmente Le Confessioni, più ancora della Nuova Eloisa, spalancano le porte al romanticismo e all’età contemporanea; ma poiché sono scritte in francese da un autore di lingua francese, mantengono con l’empiria e con l’esposizione circonstanziata dei fatti un legame che l’autentico romanticismo certificato tedesco[2] non ha, non può e non vuole avere. Da un punto di vista didattico, inoltre, sono estremamente pratiche, perché in nemmeno venti righe dell’incipit condensano e esemplificano il passaggio d’epoca. Vediamo queste righe:

  1. Ho concepito un'impresa senza precedenti e la cui esecuzione non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io. 
  2.  Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto. 
  3.  Che la tromba del giudizio finale suoni quando vorrà: Mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani. Dirò fermamente: «Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono, e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche trascurabile ornamento, l'ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l'hai visto. Essere eterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili; ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie. Scopra ciascuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono; e poi che uno solo osi dirti: «Io fui migliore di quell'uomo.»

Esaminiamo la testa e la coda: dapprima viene stabilita l’unicità di Jean-Jacques. Ma poiché l’intenzione di Rousseau non può essere di affermare che Jean-Jacques è un alieno, l’unicità deve essere, in linea di principio, prerogativa di tutti gli individui. Si dirà: che nessun individuo è uguale a un altro è cosa che si sapeva. Certo, ma prima di Rousseau (e del romanticismo) non si sottolineava l’unicità individuale, bensì l’appartenenza a un gruppo: dal più vasto – l’intera umanità contrapposta al suo Creatore – ad altri più ristretti, ad esempio una classe sociale con determinati obblighi, prerogative e funzioni. E parimenti dopo Rousseau, mentre il romanticismo diventa sempre più marginale e malvisto, anche l’individuo in quanto portatore di unicità scivola al margine: un originale appena tollerato, un artista, magari uno scrittore – mentre l’individuo provvisto di senso e significato è di nuovo quello inserito in un gruppo che si profila ormai come una classe in conflitto insanabile con un’altra – conflitto necessario e talmente insanabile che l’identità del singolo non è nemmeno pensabile come indipendente dalle o non totalmente compresa nelle coordinate della classe di appartenenza. La quale classe di appartenenza, qualora sia la classe dominante, fa in modo – viene detto – di plasmare lo Stato a propria immagine; sicché, dall’altra parte, l’unicità dell’individuo assume la forma obbligata, stereotipa e tutta uguale della resistenza allo Stato.

Già nella prima parte del testo Rousseau aveva chiarito che per Jean-Jacques essere unico non significa essere migliore degli altri, e in effetti si accenna poi al male eventualmente fatto, a miserie e indegnità[3]. Ma in chiusura assistiamo a un ribaltamento: l’ammissione (generica) di colpa, il riconoscimento di non essere migliore di un altro si capovolge nella sfida – rivolta a chiunque – ad affermare di essere migliore di lui. Se accostiamo il testo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) noteremo che, benché non affermi apertamente una sua qualità “migliore”, nell’atteggiamento e nella postura Jean-Jacques assomiglia molto di più al fariseo che al pubblicano.

Ma il vero centro dell’argomentazione è il libro. Il libro che Rousseau si accinge a scrivere; e suoni quando vuole la tromba del Giudizio, egli non la teme poiché potrà presentarsi al sommo giudice munito di quel libro. Non come memoria difensiva, si badi, ma proprio in sostituzione dello sguardo giudicante (“ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l’hai visto”). Come titolo per questo articolo avevo pensato, infatti, a “Liber scriptus”; poi ho preferito l’altro perché va subito al punto. Ma è chiaro che, da tuba mirum spargens sonum a liber scriptus proferetur, la scena di giudizio evocata da Rousseau ne richiama un’altra, classica, e ne capovolge le prospettive.

Dicevo prima della fruibilità didattica del brano. Arrivata a questo punto, di solito andavo alla lavagna e scrivevo la strofetta seguente:

Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus iudicetur

(sollievo di scrivere qualcosa in latino, un terreno solido sotto i piedi) e facevo notare come, ormai, il libro fosse passato di mano: mentre nella visione classica chi “apre il libro” è Dio, nella scena prospettata da Rousseau, paradossalmente, è lo iudicandus stesso che presenta il libro, redatto da lui medesimo, in base al quale chiede/propone/impone di essere giudicato. Coerentemente scompare ogni futuro tremor relativamente al tempo quando judex est venturus, / cuncta stricte discussurus; cancellato ogni terrore e tremore, evaporato il timor di Dio. Come si dice: non c’è più religione. Io cancellavo la strofetta e ne scrivevo un’altra:

Quod sum miser tum dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus ?

e invitavo la classe, che una perplessa curiosità, o al più tardi il Dies irae di Verdi, aveva destato dallo stato comatoso, a paragonare il “miser” con Jean-Jacques: forse che quest’ultimo è in imbarazzo su cosa dire? per caso gli mancano le parole? ha bisogno di un difensore? No. Ma andiamo più in là: si confronta, idealmente, con un “iustus”? Nemmeno, poiché, per quanto egli non definisca se stesso “giusto”, nessuno è comunque più giusto di lui.

I ragazzi fissano la lavagna, copiano i versi sul quaderno degli appunti, chiedono delucidazioni sul gerundivo o sulla perifrastica attiva. Qualcosa intravedono. Ma dalla loro propria prassi autogiustificatoria scolastica sono troppo abituati alle balle spaziali che venti secondi dopo essere state proferite diventano verità incrollabili, per apprezzare appieno la portata del cambiamento. Rousseau ha lavorato bene.

 

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[1] Le radici (ben visibili nell’opera) del dissidio fra onestà dell’intenzione e inevitabile disonestà nella realizzazione non devono nemmeno essere cercate molto lontano. Si tratta del conflitto fra una radicale fedeltà a se stessi, e la pretesa che questa radicale fedeltà coincida naturalmente e senza sforzo alcuno (che sarebbe di per sé già un’infedeltà) con il tutto sommato tradizionale bonum. Da questo punto di vista Sade è più onesto; meno didattico però – e assai monotono.

[2] Peraltro il mio preferito.

[3] Ma termini come ‘miserie’ e ‘indegnità’ sembrano fare riferimento più all’aspetto della valutazione sociale che all’ambito propriamente morale.