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Contro il culto del “Divino Proust”

DA UNA VECCHIA DISCUSSIONE [*] SU POLISCRITTURE
A PROPOSITO DELLA LEZIONE DI PROUST

di Ennio Abate

Dedico questo vecchio pezzo del 2015 – per contrasto – ai fanatici del “Divino Proust” che hanno ammorbato la giornata – ieri 18 novembre – del centenario della sua morte.

So di annoiare tirando in ballo sempre Fortini ( e qualcuno me lo continua a  rimproverare…), ma devo riconoscere onestamente che è ancora da due suoi scritti – «Alla ricerca del tempo perduto» ( in «Ventiquattro voci per un dizionario di lettere», Il saggiatore, Milano 1968); «Il controllo dell’oblio» (in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985) – che ho potuto da una parte riordinare le mie confuse impressioni di “provinciale” della lettura giovanile che feci subito dopo il liceo di quasi tutta la «Ricerca»; e dall’altra cogliere le implicazioni problematiche e attualissime – tra il personale e il politico, tra l’io e l’io-noi – della distinzione tra memoria volontaria («ricordo» dice, consapevolmente semplificando, Fortini) e memoria involontaria.
Cosa poteva ricavare il ventenne provinciale che fui a SA agli inizi dei Sessanta dai volumi della «Ricerca» che comprava man mano che uscivano nella Mondadori economica (quella con la costa in tela rossa)? Suggestioni, solo suggestioni. Quella evocazione era grandiosa e coinvolgente, ma riguardava un mondo borghese-aristocratico per lui inarrivabile e ignoto, fatto di personaggi raffinati, spudorati e coltissimi e di modi di sentire e pensare e colloquiare che lo stupivano e forse lo scandalizzavano (data l’educazione cattolica ricevuta).
E però anche un esempio (e forse un modello) di dedizione eroica e caparbia allo scavo nella memoria personale, che incoraggiò una sua predisposizione – allora spontanea e acritica – alla medesima operazione. Perché aveva già avviato per conto suo e in segreto (sotto lo stimolo della passione per la letteratura, ma anche per lo stacco subìto dal mondo paesano dell’infanzia con il trasferimento in città e una scolarizzazione penosa che chiedeva risarcimenti..) una raccolta di ricordi, appunti, esplorazioni riguardanti quel suo pezzo di esperienza campagnola, che, scrivendone, si colorava di mito. E che poi è continuata e continua ma in condizioni diverse, precarie e tra mille interruzioni (di cui tra l’altro nei suoi scritti Fortini spiega le radici materiali e storiche) .
Fortini (nei due brani citati, ma soprattutto nel secondo), mi ha fatto capire meglio la complessità letteraria del lavoro di Proust (il suo legame con «due fonti di tradizione francese: – la prima che va da Montaigne a Laclos, a Bergson,[…]); – la seconda «della memorialistica e saggistica di costume, di Saint-Simon come di tanti autori del Seicento e del Settecento, presente anche nella «Commedia» balzacchiana») e il suo intento “enciclopedico” («”Romanzo annegato in un trattato”, è stato detto: ed infatti allo sforzo continuo di dedurre leggi generali dalle osservazioni particolari si aggiungono innumerevoli paragrafi su argomenti specifici, dall’araldica alla linguistica, dalla recitazione teatrale all’arte militare. Ma soprattutto la “Ricerca” contiene una estetica, una morale e una fenomenologia della conoscenza; per non dire una storia di buona parte della letteratura francese, una somma di giudizi su molti autori stranieri, osservazioni penetranti sull’arte del medioevo gotico, del rinascimento italiano ,della pittura olandese e dell’impressionismo francese. Proust vi ha gettato tutto il suo bagaglio di conoscenze, per farne un “tesoro”, nel senso medievale della parola»).
Ma è sul contrasto tra memoria volontaria e involontaria che Fortini diceva (negli anni Ottanta!) qualcosa degna di discussione, perché misura tutta la distanza nostra da Proust e contestualizza *politicamente* la questione della memoria volontaria e involontaria, riportandola ai nodi irrisolti della nostra esistenza individuale e politica tuttora irrisolti. Riporto perciò un lungo brano dal secondo scritto:

È risaputo che dopo i primi vent’anni del nostro secolo l’opera di Proust propose ai propri lettori una pratica di ascesi, di conoscenza e di redenzione fondata sul recupero di particolari esperienze trascorse. «Le verità che l’intelligenza afferra direttamente nel mondo della piena luce hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quel che la vita ci ha comunicato nostro malgrado in una impressione; che è materiale perché ne siamo stati penetrati per la via dei sensi ma della quale noi possiamo *dégager l’esprit*, liberare, e svolgere, l’essenza spirituale».
Nulla di troppo nuovo, in questa proposta; analoghe discipline sappiamo essere state sempre vigenti in società o gruppi umani di forte vita religiosa; dove si è sempre insegnato come disporsi a ricevere la Grazia o a salire i gradini dell’estasi. La novità era semmai questa: Proust constatava che il recupero salvifico era possibile solo convertendo l’esperienza «richiamata» dalla memoria in un equivalente spirituale che definiva «opera d’arte». Vedremo che questa, a prima vista bizzarra pretesa di trasformare tutti gli uomini in artisti, può aiutare a chiarire alcuni aspetti della nostra realtà contemporanea.
Proust distingue fra una memoria volontaria, che egli tende a vedere come già formulata in pensiero verbale (e che, per semplificare, possiamo chiamare «ricordo») e una involontaria, che ci riporta invece una totalità di esperienze, concentrate in un punto del tempo che è passato e che torna presente. Decostruire le totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone, per crearne un equivalente metaforico: questo ne consente la riappropriazione e in tale riappropriazione è la sola nostra possibile compiutezza umana.
Per quanto questo itinerario si proponesse a tutti in realtà esso opponeva ancora una volta – in analogia con numerose formulazioni elitarie apparse fin dall’alta età del romanticismo tedesco – una capacità di separazione dal volgare «ricordo» che è di tutti, non senza colpire le pretese della storiografia positivista, con la sua sottintesa o esplicita nozione di tempo quale continuità o flusso senza cesure. Ebbene, quel che qui posso enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare, è che il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi della emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo».
Invece di ricordare, si gestiscono episodi di memoria involontana preconsci o subliminali (come li chiamava Joyce; che parlava anche di «epifanìe»). Essi vengono così adibiti ai piccoli cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione, a delizie coatte, a forme degradate di mistica. Brodo di coltura delle nevrosi, consolazioni di melodie private.
Lo sviluppo contemporaneo non si è davvero limitato ad attrezzare un diverso paesaggio (come, un po’ ingenuamente, avevano previsto i futuristi) e neanche a diminuire (come avevano voluto i surrealisti) la distanza fra universo della coscienza e zone del preconscio. Con tutto questo si restava ancora sulla solida, diurna terra; e i «viaggi» delle esperienze erotiche, oniriche o mistiche, con o senza l’aiuto di droghe, avrebbero continuato a essere forniti di biglietto di ritorno. Si era ancora ben lontani da quella giustapposizione schizoide fra universo del «ricordo» (ossia della razionalità e della prestazione) e universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno). O, per meglio dire, tale giustapposizione, sempre presente, non era diventata, come oggi è, costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata.
È quasi inutile rammentare che questo processo – altra volta ebbi a chiamarlo «surrealismo di massa» – ha una sua sorgente nei modo produzione della fabbrica moderna (si vedano e pagine di Braverman) che le successive «generazioni» elettroniche stanno bensì alterando ma forse non diminuendo; anzi aggravando. Non sarà (già non è) più la ripetitività del lavoro al pezzo a indurre lo stato di diminuita lucidità e l’emersione di episodi di memoria involontaria di cui hanno scritto non pochi psicologi della vita di fabbrica; ma semmai la sempre più irrecuperabile distanza tra l’operatore e l’esito degli automatismi, con la scomparsa – al limite – di ogni «materialità» ossia di ogni esperienza sensibile insieme ad ogni vera attività intellettuale.
Ridicolo pensare di sfuggirvi passando dal tempo coatto, iscritto in un fatale «software» (sequenze audiovisive o della pubblicità o dei pubblici trasporti o dell’auto) a quello privato della contemplazione o della meditazione. È proprio quest’ultimo ad essere definitivamente imbevuto dai «tempi» forniti dalla fabbrica, dal mercato e dalle fabbriche di consenso. Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la capacità di attenzione sostenuta? Non paradossalmente, quanto più si rinuncia a «ricordare» ossia a formulare verbalmente la storia che conosciamo, di noi e degli altri, tanto più la congerie dei frammenti memoriali emergenti da esperienze scomparse diventa medium delle nostre giornate, un glutine attraversato da pulsazioni e da soprassalti. Quando ci illudessimo di poterne elaborare un frammento, interrogarlo (come Proust ha fatto) fino in fondo, ci dovremmo accorgere che il tempo di contemplazione di cui si dispone si esaurisce rapidamente, come in certe affollate esposizioni o nei dibattiti televisivi dove, ben presto, «il tempo sta per scadere». Nella cella dove credevamo, attardati seguaci di Teresa di Avila e di Marcel Proust, di poter conversare con le intatte vergini della memoria profonda o involontaria, appaiono invece le oscene meretrici mondane che ossessionarono gli antichi monaci penitenti. E la maggioranza dei nostri pari ci grida che va bene così. Per di più, tutto questo, oggi e nel nostro paese, appare non come un processo in corso ma come alcunché di stabile e di solido e di cui ormai nessuno più si accorge. Questa è la «modernizzazione», lungo più di un secolo auspicata da intellettuali e politici. Penso all’ultimo Vittorini, ai suoi scritti sulle *Due tensioni,* di recente ristampati; e a come si fosse sbagliato. Penso ai politici, all’arco amplissimo che va dagli uomini della destra tecnologica e laica a quelli della sinistra operaista: oggi sposi.
Quei desideri sono adempiuti. L’Italia è un paese «moderno» con qualche trascurabile ritardo. Se fra il grado di informazione dei gruppi dirigenti e quello delle masse dirette ci sono ancora delle «discrasìe», come non senza eleganza ha detto giorni fa uno specialista in «ricordi» cioè uno storico (Paolo Spriano), discorrendo delle vicende del suo partito; se cioè i meno hanno sistematicamente mentito ai più per vent’anni, nulla di male; un po’ di pazienza e il progresso (o un congresso) metterà tutto a posto.
Le conseguenze di tutto questo non però sono state quelle che erano temute dai deprecatori del tecnologismo e dai nostalgici dell’umanesimo; e neanche quelle auspicate dagli apologeti della «rnodernizzazione» che ho sopra nominati. O meglio: si sono avute queste e quelle ma le une e le altre sono state, e di molto, oltrepassate dalle conseguenze della situazione economica e, ancor più, di quella politica. Con brutalità, gli anni del «miracolo» avevano «modernizzata» tanta parte della penisola; quelli della fine del decennio Sessanta avevano, con altretanta brutalità, alterato gli equilibri fra società e ceto politico.
Con l’inflazione, vale a dire con l’impossibilità di risparmio equivalente a impossibilità di «ricordo» e di «previsione», con la disoccupazione e la sottoccupazione e, finalmente, con la liquidazione d’ogni possibile prospettiva politica, l’ultimo decennio ha avuto bisogno di produrre una gran e quantità di tranquillanti e di analgesici che abbassassero la soglia della coscienza; l’oblio omerico, quello che toglie ogni ricordo della patria e ogni nostalgia è diventato un bisogno collettivo. Alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti.
Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora. Di questa permanente produzione di effimeri psichismi in sospensione aveva già profetizzato e forniti esempi la grande letteratura europea fra il 1915 e il 1935. Quel ventennio aveva così anticipa to modi di esistenza che oggi sono cibo e escremento quotidiano di masse enormi. Di qui si può vedere che il presente ragionamento si ricollega al tema delle adolescenze prolungate e del sarcasmo come cultura del nullismo, dunque, della assenza di «ricordo», e quindi di storia, per chi vuole sapere qualcosa del proprio passato e di quello del proprio padre. Il gesto di chi si droga è simbolico di noi tutti, lo sappiamo da un decennio. Chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di servi) vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del «ricordo» cioè della tra dizione è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in definitiva, sto parlando. Su questo tema Simone Weil ha scritto parole indelebili.
So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immagi-aria pienezza della memoria «profonda», di scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Manon si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori. Non si può, come dice il poeta, nutrirsi dei «sogni giocondi d’error». I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione degradata, dell’«estetico».
E quando si è afferrati dall’angoscia di morte, entro di noi non sappiamo trovare se non feticci di figurazioni culturali o frustoli di poesia. Il «ricordo» invece, nella sua definitività narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e degli inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di una temporalità non individuale. Esige il patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto.

( da F. Fortini, «Insistenze» pagg. 133-137)

*La discussione si svolse il 24 ottobre 2015 e si legge per intero qui 

 

Riordinadiario 6-14 settembre 2021

di Ennio Abate

6 settembre 2021

Cercando Gilbert Simondon

Il monumentale lavoro di Simondon può essere letto come un tentativo di sovvertimento radicale del concetto di individuo, inteso come elemento di base del cosiddetto principio di individuazione. Questo principio è stato infatti principalmente declinato, lungo il corso della storia del pensiero occidentale, in due maniere, al contempo opposte e consonanti. Da un lato, infatti, esiste la tradizione sostanzialista (o atomista) – che, risalendo fino a Democrito e Leucippo, prosegue carsicamente il proprio corso fino alle soglie della fisica moderna, passando per la monade leibiniziana; dall’altro lato, invece, troviamo la tradizione che potremmo definire ilomorfica, di provenienza aristotelica, che si pone a fondamento di ogni filosofia dualista. In quest’ultima tradizione di pensiero, infatti, l’individuo rappresenta una sorta di complemento o, per meglio dire, una sorta di compromesso tra forma e materia.

Simondon ha tentato di aggirare entrambi questi approcci, provando a sovrapporre al concetto di forma il concetto d’informazione, non inteso meramente come messaggio differenziale in un sistema comunicativo, bensì letteralmente come in-formante, cioè come ciò che si forma, si produce e si rigenera deformandosi. Il concetto d’informazione ha permesso così al filosofo francese di penetrare nei meandri delle più diverse branche del sapere, muovendosi trasversalmente dal “mondo” fisico e biologico a quello psichico. Essendo alla ricerca del principio d’individuazione (che, come vedremo, è tutto fuorché un principio), Simondon ha cercato di indagarlo in tutta la sua complessità, affrontandolo simultaneamente da un punto di vista fisico, biologico e psichico.

A questo scopo Simondon ha elaborato una nozione d’individuo radicalmente in contrasto con quella delle due “scuole” atomista e ilomorfica, le quali – pur trovandosi apparentemente agli antipodi – non hanno mai cessato di declinare in maniere differenti l’idea che l’individuo (sia esso atomo o complesso materia-forma) sia il principio fondamentale – ovvero il termine radicale e ultimo, condizione e scopo finale – della relazione globale di cui esso partecipa. Mentre, per Simondon, l’individuo non è che una fase dell’individuazione, cioè momento di un processo di trasformazione che attraversa diversi stadi e differenti cariche di “potenziali”. Questi ultimi – concetti mutuati da alcuni tardi riferimenti del suo “maestro” Merleau-Ponty (a cui è dedicata l’opera) – vengono concepiti da Simondon come elementi preindividuali.

Per Simondon l’errore principale delle filosofie sostanzialiste e/o dualiste è stato infatti, da sempre, quello di considerare l’individuo come un principio, come un quid da cui si può partire per comprendere la realtà. Ma questa è per Simondon un’idea statica del mondo, che concepisce la realtà come un gigantesco paradosso di Zenone, in cui gli stati sono separati nel tempo e non comunicanti. Simondon si fa beffe del principio di equilibrio stabile e, appoggiandosi alle scoperte della fisica quantistica e della termodinamica, elabora una teoria in cui ogni stato che possieda ancora dell’energia residua – e che non sia quindi morto – si trova in un equilibrio detto metastabile, perché comunque carico di potenziali.

Una concezione così radicale e innovativa non poteva non includere anche una diversa concezione dell’essere, e sarà proprio in questo ambito che Simondon effettuerà un vero e proprio ribaltamento. Scrive:

L’essere non possiede un’unità d’identità, come nel caso dello stato stabile, nel quale non si possono verificare trasformazioni; al contrario, l’essere possiede un’unità trasduttiva: in altre parole, esso può sfasarsi in rapporto a se stesso e può straripare da una parte e dall’altra del centro. Ciò che si concepisce nei termini di relazione o dualità dei principi, consiste, in verità, nel dispiegamento dell’essere, che si configura, a sua volta, come più che unità e più che identità. Il divenire costituisce una dimensione dell’essere e non può essere concepito come ciò che gli accade sulla base di una successione cui sarebbe soggetto in quanto essere originariamente dato e sostanziale

L’operazione d’individuazione, dunque, “produce” l’essere individuale – non ne è la logica emanazione. L’individuo è una “fase” di quell’essere la cui dimensione è il divenire e il cui stato è in tensione metastabile, perché carico di potenziali. L’informazione è il mezzo attraverso cui le fasi si producono all’esterno e all’interno dell’individuo in base al suo essere fisico, biologico o psichico. Mentre la trasduzione è il processo attraverso cui l’essere si dispiega nelle sue dimensioni. Si tratta qui, per Simondon, di elaborare la possibilità teorica di un processo che sia allo stesso tempo al di là della logica e al di là della dialettica: un movimento analogico, né deduttivo, né induttivo.

(da Gilbert Simondon, il filosofo dell’avvenire? di Cristiano Carchidi 12 Dicembre 2016 http://www.chartasporca.it/gilbert-simondon-il-filosofo-dellavvenire/

 

13 settembre 2021

Memoria: Proust/Fortini

Oggi come oggi non c’è quasi quarta di copertina, articolo di webzine, pronunciamento intellettuale di piccolo o medio cabotaggio che non contenga la parola ‘memoria’. Segno che il fenomeno ha perso rilevanza.

Si può stare abbastanza sicuri che se qualcuno parla di memoria, nelle due o tre righe seguenti salterà fuori Proust. A un più attento esame, si scoprirà che il qualcuno o non ha mai letto Proust, o, se l’ha letto, se lo è dimenticato.

In Proust l’unica memoria che conta, la memoria involontaria, non ha quasi nulla a che fare con la memoria quale la si intende generalmente. A propriamente parlare, non è nemmeno un fatto di memoria ma di sensazione. È il ripresentarsi, in due momenti distinti del tempo (che chiameremo A e B), di una stessa sensazione (la sensazione deve essere abbastanza rara per non confondersi nella routine dell’abitudine, essere ad esempio una sensazione dell’olfatto o del tatto) che l’io percepisce come identica, cioè indistinguibile, nei due momenti; che è di fatto indistinguibile; per cui l’io percipiente non ha, a partire dalla sensazione, alcun appiglio per sapere in quale dei due momenti del tempo si trova, il che significa letteralmente che il tempo trascorso fra A e B è abolito, che l’io percipiente si trova fuori dallo scorrere del tempo, e che dunque tutto ciò che il tempo, nel suo scorrere, ha precipitato nell’oblio è di nuovo presente e fruibile. Seguono numerosi e importantissimi corollari. È chiaro che qui il senso di ‘memoria’ è un senso molto particolare. A rigore, non posso nemmeno dire che sono io che mi ricordo.

Il passaggio funambolico che i cultori della memoria non tentano neanche, ma danno per acquisito, è quello da “la memoria” a “Le Mie Memorie”, cioè da una facoltà che rimane per moltissimi versi oscura, alla parte interessante in cui porca miseria posso parlare di me e delle mie succosissime esperienze, ne posso fare un bel racconto, cioè precisamente quello che Proust aborriva e alla cui fattibilità in determinatissime circostanze tutte da esaminare è arrivato dopo un percorso lungo e travagliato.

Dopo aver assicurato, ai pilastri della memoria involontaria e a un paio di altre cosine su cui ora non ci soffermiamo, la struttura della sua cattedrale (gotica), Proust può applicarsi alle “parti di riempimento”, cioè ai muri non portanti fra un pilastro e l’altro. Quando la gente parla di Proust e di memoria, normalmente è di questo che parla: del “riempimento”, che è importantissimo, certo, e in un certo senso il midollo da succhiare della Recherche, ma che cos’è? L’idea è che il narratore racconti la sua vita (a quello gli serve, no, la scoperta della memoria involontaria) articolata grosso modo in sette parti che corrispondono ai sette volumi della Recherche. Nel corso della vita il narratore ha inoltre incrociato un gran numero di “personaggi” che, com’è ovvio, ora popolano il romanzo. Ma è proprio così? Se il narratore raccontasse la sua vita il lettore avrebbe fondati motivi di lamentarsi: un racconto sconclusionato, pieno di buchi e in certi punti apparentemente contraddittorio, cronologia non lineare e anche all’interno dello stesso “nucleo” narrativo assai incerta: se in una pagina il narratore appare come un bambinetto di otto o nove anni, ecco che alla pagina seguente gliene daresti quindici. Biografia per nuclei tematici allora? Se si vuole; ma anche lì il narratore è tutto fuorché sempre in primo piano, spesso e volentieri cede la ribalta ad altri, è ridotto al ruolo di osservatore, di narratore della storia altrui, storia che eventualmente si è svolta prima della sua nascita, per cui non si può nemmeno parlare di memoria. Certo, la famosa madeleine è il “clic” che mette in moto tutto ciò che si trova fra il momento in cui il dolcetto tocca il palato del narratore, nel primo volume, e la fine del romanzo. Ma è la storia di una vita? O non è piuttosto, fra un pilastro e l’altro, l’analisi ironica, profonda, geniale e puntuale, secondo il modello dei classici francesi del XVII secolo (les moralistes, che non sarebbe da tradurre ‘i moralisti’, ma ‘gli psicologi’), della psicologia umana nei vari personaggi e nel narratore stesso? Non è il tema il funzionamento della coscienza e dunque anche della memoria? Un romanzo che tematizza se stesso; così in ogni caso lo intende il narratore. E l’articolazione che collega la teoria della memoria (pilastro) ai portati dell’analisi psicologica (riempimento) è ben salda, e comporta lo sbriciolamento di quello che generalmente si intende per “io”. Cioè il contrario dell’intenzione dei memorialisti, che è ricostituire, arrivare a una verità identitaria.

Proust però, alla fine, è uno scrittore per letterati e decadenti. La salvezza che propone è esoterica: per pochi eletti. Non è democratica. Anzi no, è troppo democratica. In un articolo del 1982 (vedi nota in basso), come dice egli stesso enunciando in modo assertivo senza dimostrare, Fortini compie in non più di otto righe il rimarcabile tour de force di passare da quella che egli chiama la “formulazione elitaria” di Proust alla sorprendente affermazione che “il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi di emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo» [si intende il ricordo consapevole e volontario].” Se lo dice lui. È il processo, dice, che altrove ha chiamato “surrealismo di massa” e che consiste appunto nell’ipertrofica e generale proliferazione dell’”universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno)“. Ora, Fortini può giocare coi termini come gli pare – e a me sembra che almeno della memoria involontaria si sia fatto un’idea tutta sua -, ma memoria involontaria e surrealtà, se pure hanno dei legami, da precisare, col piacere, certamente nell’intenzione dei loro scopritori non sono “sogno”, anzi esattamente il contrario: sono l’unica realtà veramente vera, e se non marciano al suono del piffero marxista, non mi pare però corretto stravolgerle per arruolarle a forza. Ma per Fortini il punto non è né Proust né tantomeno i surrealisti. Quello che gli interessa è rivalutare il “ricordo”: la memoria discorsiva e facilmente trasmissibile di un passato collettivo, senza tante fisime di opere d’arte o stati psichici strani, e non importa se, non essendo ancorato nella verità della memoria involontaria o della surrealtà, il discorso collettivo è sempre tendenzialmente retorico, quindi falso, manipolabile, manipolato, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Questo non conta. L’importante è che abbia una “sua definitività narrativa“, che “già in sé [contenga] giudizio e scelta” – che sia cioè arbitrario, rispecchi una cocciutaggine, e che la sua definitività sia sufficientemente definitiva per passarlo di mano in mano nei secoli.
(da  SULLA MEMORIA di Elena Grammann, https://dallamiatazzadite.com/2021/09/08/sulla-memoria/)

 

13 settembre 2021

Ma noi discutiamo di…

Non so se nel frastuono che tutto copre delle polemiche su Green Pass e vaccini ci sia un’astuzia del potere, o se, semplicemente è l’effetto di una banale dinamica autorafforzante del mercato delle ‘notizie’ (il tema ‘vende’), unito alla lotta partitica feroce in corso sottotraccia, entro l’artificiale perimetro governativo (per cui si provoca la Lega, per danneggiarne il leader rispetto ai competitori esterni -Meloni- ed interni -Giorgietti-, e, d’altra parte se ne subiscono i veti, da cui la politica vorrei-ma-non-posso del GP), ma l’effetto oggettivo è quello di una nuvola nerastra e polverosa di polemiche vacue e urlate che nascondono completamente le tantissime cose serie, importanti, persino epocali che stanno accadendo (entro e soprattutto fuori del paese).

La dinamica dei prezzi e della sconnessione delle supply chain mondiali mostra l’avvio di un passaggio tra il modo di produzione neoliberista mondializzato e qualcosa di diverso (quanto, come e quando, nonché dove lo potremo misurare in qualche anno); la ritirata anglosassone prelude ad una avanzata del ‘mondo multipolare’ (che ha molto a che fare con il punto precedente); il lavoro potrebbe cambiare, tornando ad una qualche forma di potere e, al contempo trascinando modifiche della forma territoriale; la risposta politica a queste tensioni di trasformazione potrebbe prendere la forma di un attivismo statalista di nuovo conio. Nessuna di queste cose è già formata, sono tutti piani di conflitto intrecciati e possono andare in direzioni diverse.

Ma noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi. Se uno insiste a sottoporre un tema ciò che bisognerebbe chiedersi non è se è giusto o sbagliato, ma quale altro nasconde. Ovvero, di cosa non si deve parlare.

( da Alessandro Visalli https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9/posts/10219403875584090)

14 settembre 2021

 Fernando Savater su malattia mentale

 Savater sollecita l’attenzione di chi intende venire a capo della sofferenza comunicativa sopra il contesto in cui chi soffre è preso e si muove. Non tuttavia allo scopo di addebitare al contesto la responsabilità della sofferenza, perché alla determinazione del contesto di vita di chi soffre partecipa il soggetto stesso, qualora commetta l’errore di regolare le forme comunicative a modalità che egli trasferisce da alcune infelici forme comunicative in cui si era ritrovato in precedenza. I difetti di comunicazione – scrive Savater – possono essere messi in conto sia al «contesto in cui il soggetto si muove, sia ai […] principi applicati dal soggetto stesso»; dipendono, cioè, tanto «dall’incomprensione ostile dei destinatari del messaggio»,quanto«dalla perdita di autonomia che la sua accettazione positiva comporterebbe per il soggetto».[6]

A volte sono le forme comunicative presenti che non danno modo alcuno agli interlocutori di riconoscersi in una veste umana. A volte, non è tanto la relazione presente ad imbalsamare la comunicazione, ad afferrare in una morsa alienante il soggetto: in qualche caso è la parte che giuocano gli altri attori della comunicazione, quando il volto dell’incomprensione è necessario all’interlocutore per mantenere ruoli di potere e di prestigio; altre volte è lo stesso soggetto a porre la relazione comunicativa in una impasse: o perché giuoca il ruolo di partecipante passivo, secondo esperienze comunicative precedenti, o perché se ne sta chiuso in un mondo proprio, in cui rintanarsi, diffidente, se non chiaramente ostile, verso ogni interlocutore; oppure perché assume atteggiamenti camaleontici, disposizioni adattive ed imitative che evitano qualunque tensione tra gli interlocutori, assumendo condotte che, annullando il giuoco delle parti, vanificano la comunicazione.

In sintesi, Savater sostiene che il disagio e la sofferenza psichica possono esser accostati analogicamente alla malattia, perché accadono quando “cadono malate” le forme comunicative alle quali determinati individui affidano la funzione di riflessione della propria identità e di messa a punto della propria soggettività. Cioè, la comunicazione può essere definita, oltre che difettosa, come quasi sempre è, anche “malata” quando il difetto riguarda la possibilità concessa ai suoi interlocutori di rimanervi presenti nel ruolo di soggetti, i quali patiscono l’eventuale dislocazione dal piano delle affermazioni e dei riconoscimenti della propria soggettività.

 (da Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (prima parte) – di Piernicola Marasco https://www.altraparolarivista.it/2021/09/12/riflessioni-di-savater-sopra-la-nozione-di-malattia-mentale-e-le-relative-sue-concezioni-di-piernicola-marasco/ )

 

  • L’immagine di copertina è ripresa dalla rivista “altraparola”

Il tempo in Proust

di Gianfranco La Grassa

E’ intuitivo il fatto che la linea di scorrimento temporale avviene sempre in un unico senso, è irreversibile. Come si dice, la freccia del tempo è sem­pre rivolta in avanti; gli avvenimenti si snodano sempre dal passato verso il presente, dal presente verso il futuro, e mai in direzione contraria. Come di­ceva Era­clito, non ci si bagna due volte nello stesso fiume (cioè nella stessa acqua di quel dato fiume), poiché quest’acqua, proprio come il tempo, non può mai scorrere a ritroso, dalla foce alla sorgente. Continua la lettura di Il tempo in Proust

Li Yu e il tempo (della vita)

Lu hsun

di Giulio Toffoli

I tag (parole chiave) che ho segnalato per questo post indicano i temi principali su cui questo apologo dialogante dal tono brechtiano di Toffoli si sofferma. Il confronto in modi espliciti, pacati ma anche polemici («la vita viene risolta in un puro atto di memorizzazione individuale, viene vista come liberata di ogni sua asperità, da ogni contraddizione e si risolve in una vera e propria rarefazione degli avvenimenti»), è con le «Considerazioni sul tempo (di vita)» di Franco Nova (qui). [E. A.]

Una sera d’autunno, il sole era ormai già calato all’orizzonte e le prime brune della sera si erano allargate fino a coprire con la loro coltre la cittadina, Li Yu aveva invitato a casa l’amico Ming Lang.

Avevano gustato un piatto di zuppa d’anatra e una insalata di pollo con germogli di soia, carote tagliate a striscioline, pannocchiette affettate, erba cipollina sminuzzata e un peperone rosso affettato fine. Una vera delizia che avevano assaporato parlando degli ultimi avvenimenti senza un filo conduttore, lasciandosi trascinare dai giochi della memoria.

Alla fine della cena si erano alzati ed erano andati a sedere nello studio. Tenevano fra le mani una ciotola di pere affogate al pimento e la canonica tazza di tè. Continua la lettura di Li Yu e il tempo (della vita)

Considerazioni sul tempo (di vita)

Escher a

di Franco Nova

Sembra intuitivo il fatto che la linea di scorrimento temporale avvenga sempre in un unico senso, sia irreversibile. Come si dice, la freccia del tempo sarebbe costantemente rivolta in avanti; gli avvenimenti si snoderebbero insomma dal passato verso il presente, dal presente verso il futuro, e mai in direzione contraria. “Non ci si bagna due volte nello stesso fiume” (cioè nella stessa acqua di quel dato fiume), poiché quest’acqua, proprio come il tempo, non può mai scorrere a ritroso, dalla foce alla sorgente. Continua la lettura di Considerazioni sul tempo (di vita)