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Contro l’invenzione

Prontuario tascabile di letteratura francese (3)

di Elena Grammann

LETTERA B

Breton, André

Recentemente, a proposito del romanzo di Maylis de Kerangal Riparare i viventi (qui), dicevo che in esso “l’ambito dell’emotività, con relativi personaggi, è ambito di invenzione”. Ora, l’attributo “di invenzione”, se si applica a romanzi scritti negli ultimi centoventi, centotrent’anni e, come questo, più o meno ingenuamente realistici, fatica a liberarsi da una connotazione negativa o quantomeno dubbia. Da una parte, all’invenzione – alla favola – aderisce da sempre qualcosa dell’infanzia, del gioco, del divertimento. Non è una cosa seria. Malvista dalla religione, è permessa solo quando sia edificante. La si direbbe una cosa per spiriti oziosi o per donne; al limite, per queste ultime, da consumare di nascosto[1]. Ma soprattutto inventare, la grande prerogativa dei poeti (poi nella categoria si comprenderà anche la prosa), diventa fra Otto e Novecento una faccenda delle più spinose. Il presunto “inventore” si trova nella necessità di rinunciare all’invenzione di un mondo esterno e di ritirarsi nell’unico ambito che gli offra qualche sicurezza, un minimo di cognizione di causa: l’osservazione del proprio sé e dell’esterno attraverso il sé. Se infatti l’arte, e dunque la letteratura, ha a che fare con la verità, con che coscienza lo scrittore “inventerà” dei personaggi distinti da sé, li provvederà di determinate qualità fisiche e psichiche, li farà muovere in questa o in quella direzione? Se lo facesse abbandonerebbe il dominio della verità e della necessità e finirebbe in quello del falso e dell’arbitrario.

André Breton (1896-1966), il caposcuola del surrealismo, è particolarmente sensibile all’indifferenza, alla falsità e all’arbitrio, che sono le caratteristiche generali della realtà apparente, cioè la realtà come siamo stati addestrati a percepirla dai nostri educatori: genitori, preti, insegnanti. Tutto deve essere invece ricolmo di senso e la realtà autentica – la surrealtà –, a saperla indagare, è precisamente dispensatrice di senso: a ciascuno il suo, speciale e particolare[2]. Tanto speciale e particolare da non poter essere legato a nulla di generico, di sovraindividuale, di astratto; a nulla che non abbia la sua scaturigine nel qui ed ora[3]; tanto speciale e particolare che il “senso”, così compreso, è tutt’uno con l’identità vera e unica di ciascuno.

Naturalmente, dispensatrice di senso la surrealtà può esserlo perché è l’ultimo avatar della “ténébreuse et profonde unité, / vaste comme la nuit et comme la clarté”, che ci guarda “avec des regards familiers” e si prende cura di noi; l’ultimo avatar dell’Uno mistico dei neoplatonici e dei romantici. Il merito di Breton è aver legato l’Uno non a una specie – la specie umana – , e nemmeno a una classe, ma a ogni singolo individuo in quanto singolo, con la sua speciale epifania e la sua speciale salvezza, qui ed ora. Il surrealismo di Breton infatti non si concepisce tanto come movimento letterario o artistico, quanto come una vera e propria rivoluzione che riguarda in primo luogo l’esistenza. Purtroppo, dal momento che questa rivoluzione deve incominciare dalle abitudini percettive e di pensiero del singolo, e solo in seguito – e non si sa bene come – riguardare le strutture della società, si capisce che, come rivoluzione, abbia le gambe corte. E tuttavia ha esercitato un’influenza duratura e profonda sulla letteratura e sull’arte di tutto il secolo e oltre. Ha contribuito in modo decisivo a togliere la terra sotto i piedi al realismo, a relegarlo in un ambito di dubbio – cosa stiamo facendo? facciamo sul serio o stiamo giocando a fare finta che? –, a spruzzare un po’ di sano scetticismo intorno a certe manovre percepite sempre più come vuote e arbitrarie: inventare una trama, uno scenario, delineare dei personaggi – il camper des personnages di zoliana memoria! –, insomma a mettere in crisi, soprattutto, la narrazione realista.

Il carattere circostanziale, inutilmente particolare, di ognuna delle loro [dei romanzieri realisti] notazioni, mi fa pensare che si divertano alle mie spalle. Non mi fanno grazia della minima esitazione del personaggio: sarà biondo, come si chiamerà, l’incontreremo per la prima volta d’estate? Tutte questioni risolte una volta per tutte, a casaccio.(Manifesto del surrealismo, 1924)

Dei romanzieri ottocenteschi, Breton salva Huysmans – non però lo Huysmans “a tesi” di À rebours, bensì quello, intimista, di En rade e Là-bas:

Quanto gli sono grato di informarmi, senza preoccuparsi di produrre un effetto, di tutto ciò che lo riguarda, di ciò che lo occupa, nelle sue ore di più nero sconforto, di esterno al suo sconforto, di non fare come troppi poeti, che “cantano” assurdamente la loro disperazione, ma di elencarmi pazientemente, nell’ombra, le minime ragioni del tutto involontarie che si trova ancora per essere, e  non sa nemmeno bene per chi, colui che parla! Anch’egli è investito da una di quelle continue sollecitazioni che sembrano venire dall’esterno, e ci immobilizzano qualche secondo davanti a una disposizione fortuita delle cose, di carattere più o meno nuovo, di cui ci sembra che, a esaminarci bene, troveremmo in noi il segreto. Come lo separo, nemmeno bisogno di dirlo, da tutti i praticoni del romanzo che hanno la pretesa di mettere in scena dei personaggi distinti da loro stessi e li delineano fisicamente, moralmente, a modo loro, per i bisogni di quale causa preferiamo non sapere. Di un personaggio reale, del quale credono di avere una qualche idea, fanno due personaggi della loro storia; di due, senza maggior imbarazzo, ne fanno uno. E stiamo qui a discutere! Qualcuno suggeriva a un autore di mia conoscenza, a proposito di una sua opera che stava per uscire e la cui protagonista poteva facilmente essere riconosciuta, di cambiarle almeno il colore dei capelli. L’avesse fatta bionda, sarebbe stato meno probabile, pareva, che smascherasse una donna bruna. Ebbene, io questo non lo trovo infantile, lo trovo scandaloso. (Nadja, 1928)

‘Scandaloso’ non fa riferimento all’ambito estetico bensì a quello morale. Scandalosa, quindi immorale, è per Breton l’invenzione romanzesca nella misura in cui ripete, elevandolo al quadrato, il gesto dispotico e arbitrario con cui la tradizione (genitori, preti, insegnanti – e relative istituzioni) istituisce, appunto, la realtà apparente: falsa e bugiarda[4]. E questo non nel senso che la narrazione realista necessariamente ne riproponga i valori, ma proprio come gesto di base che oggettivizza, scompone, soppesa, valuta, misura, falsifica; che dell’Uno mistico fa il molteplice asservito all’uso e all’utile – mercantile, commerciale; il gesto, dicevamo, che dispone, mentre l’atteggiamento corretto è l’essere disposti: l’apertura, la diponibilità a recuperare un modo percettivo originario – storpiato e forse annientato a cura dei dresseurs. E poiché è copia di un falso, la narrazione realista sarà doppiamente falsa.

Naturalmente, lo slancio con cui Breton butta a mare il romanzo realista dell’Ottocento è lo slancio radicale e eccessivo dell’avanguardia; tuttavia, se dopo aver letto qualcosa di suo, ad esempio il Manifesto del surrealismo o Nadja, si legge o soltanto si ripensa a uno di quei romanzi contemporanei come ce ne sono tanti, che partono da un’ovvietà anche solo fisica del mondo, un romanzo i cui personaggi si muovono e si comportano come siamo abituati a muoverci e a comportarci, e poi c’è una storia, magari rispettabilissima – se li si legge o ci si ripensa dopo aver letto Breton, li si vede diversamente.

Per tutto il Novecento – e non fu solo effetto del surrealismo, tutto concorreva a quel risultato – la narrazione prese strade opposte al realismo: in direzione del fantastico, che mette fra parentesi la realtà e le sue condizioni di producibilità; ma anche di una ridefinizione dei processi percettivi, delle narrazioni di narrazioni, dei trascendentali della narrabilità o, unico racconto “in presa diretta”, del racconto di se stessi: l’autofiction. Anche al livello minimo, c’era comunque un effetto di rifrazione che indicava l’incertezza, la problematicità dell’operazione che si stava effettuando. Erano opere spesso bellissime ma anche difficili, insolite, richiedevano concentrazione. Verso la fine del secolo il pubblico si stancò. Chiese di nuovo delle storie “semplici”: storie di primo grado; i lettori volevano essere implicati in una finzione, volevano di nuovo la favola – preferibilmente impegnata, termine che sostituì il vecchio ‘edificante’ – così da mettersi a posto la coscienza. Della solidità del palcoscenico non gliene fregava niente; non ci badavano neanche, guardavano le figure. Di conseguenza gli editor delle case editrici sollecitarono i giovani scrittori e le giovani scrittrici a produrre storie impegnate che raccontassero “questo nostro tempo”[5] e contribuissero a migliorarlo secondo valori prestabiliti e condivisi. E i giovani scrittori e le giovani scrittrici si misero d’impegno a inventarle.

Ma non vorrei passare per una nostalgica, non sono certo qua a chiedere un’eternizzazione del Novecento. Né vorrei dare l’impressione di criticare. Se il pubblico vuole questo, il pubblico vuole questo. Se la moda è questa, la moda è questa. Da un certo punto di vista, il pubblico e la moda sono come il cliente: hanno sempre ragione. Può ben darsi che il romanzo come ricerca e rappresentazione disinteressata[6] di una verità non abbia più ragione di esistere: non sarà certo una tragedia. Come dice qualcuno, le storie ci saranno sempre. E fra un po’ nessuno si accorgerà più di niente.

 

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[1] La Prefazione di Rousseau alla Nuova Eloisa (1761) contiene sia l’idea che il romanzo è adatto alle donne, che l’avvertimento circa il pericolo di corruzione: “Questa raccolta [scil. di lettere: la Nuova Eloisa è un romanzo epistolare], col suo tono gotico, è più adatta alle donne dei libri di filosofia. Può perfino essere utile a quelle che, in una vita sregolata, hanno conservato un po’ d’amore per l’onestà. Quanto alle fanciulle, è un altro paio di maniche. Mai fanciulla casta lesse romanzi; e ho messo a questo un titolo abbastanza chiaro perché, aprendolo, si sapesse cosa aspettarsi. Colei che, malgrado il titolo, oserà leggerne una sola pagina è una fanciulla perduta: ma che non imputi la sua rovina a questo libro; il male era già fatto prima. Dal momento che ha cominciato, finisca pure di leggere: non ha più niente da perdere.” (Con l’ultima osservazione si intende che, poiché l’ipotetica fanciulla era già così corrotta da cominciare a leggere malgrado il titolo, il prosieguo della lettura non aggiungerà nulla alla corruzione preesistente). Gli fa eco, nel 1777, Pietro Verri, che nei Ricordi a mia figlia Teresa approva per la figlia la lettura di “tutte le Commedie e tutte le Tragedie possibili”, ma sui romanzi fa un distinguo: “Anche i Romanzi scritti con decenza e con grazia gli approvo, escludo soltanto i troppo libertini i quali se avete l’anima delicata vi stomacano e se disgraziatamente l’aveste poco ferma vi prostituiscono alla dissolutezza.” Fra i quali romanzi “troppo libertini” il fratello Alessandro annovera precisamente La Nuova Eloisa. (Cfr. Salvatore Silvano Nigro, La tabacchiera di don Lisander, Einaudi 1996, p.13s, da cui è presa anche la citazione). Ancora un secolo più tardi, sia Balzac (Le Curé de village, 1841) che Flaubert in Madame Bovary legano, più o meno esplicitamente, il destino tragico delle eroine a certe letture romanzesche fatte durante l’adolescenza. (E, si parva licet, nel 1972 o ’73, un prete a cui avevo esposto alcune perplessità subodorò la deriva estetica e mi disse che leggevo troppi romanzi).

[2] Si pensi, per brevità, al sogno.

[3] Ė l’illuminazione dell’istante: l’istante epifanico che caratterizza la prima metà del secolo e si ritrova in autori e movimenti apparentemente lontani fra loro come il surrealismo, Proust, Joyce, Woolf, Musil.

[4] La mia esperienza scolastica dell’obbligo è stata un po’ diversa da quella di Donato Salzarulo. Tuttavia, scrivendo queste cose di Breton, non posso fare a meno di pensare al suo racconto, e anche, comunque, ai miei anni di scuola.

[5] Che è precisamente quello che deve fare la letteratura. Ma non come pensano loro.

[6] “disinteressata” andrebbe precisato. Non possiamo farlo qui.

La disgrazia dell’espressionismo

Intervista di Ezio Partesana a Tiziano Marasco sopra il romanzo di Vladislav Vančura Campi di grano e campi di battaglia

Pubblico questa bella intervista che rafforza l’attenzione verso un autore importante e dimenticato sul cui nome, grazie ad Antonio Sagredo, anche Poliscritture ha cominciato (qui) a togliere la polvere. [E. A.]

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Sulla poesia di Eugenio Grandinetti

marino marini

di Luciano Aguzzi

Pubblico, come anticipato, questo articolato intervento di Luciano Aguzzi sulla poesia di Eugenio Grandinetti. Era stato inviato in un primo momento come semplice commento al post La storia/le storie (qui) ma i temi affrontati (pessimismo, nichilismo, rapporto  tra poesia e prosa,  memoria) meritano tutto il rilievo che un blog di ricerca critica può offrire. [E.A.]

L’amico e collega Eugenio Grandinetti (Belsito, Cosenza, 20 marzo 1931) è sulla breccia letteraria da parecchi decenni e autore di circa quaranta raccolte, solo in minima parte edite. E anche delle edite, solo due sono in commercio, mentre le altre sono edizioni fuori commercio e introvabili. Per darne un giudizio complessivo sarebbe necessaria una lunga riflessione sulla qualità e sulle forme letterarie, sulle tematiche affrontate, sulle ragioni (se esistono, come io credo) della sua prolificità che, con l’età e i molti problemi di salute, non si è attenuata, quasi ad esprimere un desiderio, forse una vera ansia, di dire tutto finché ha tempo, in una condizione in cui il tempo – per lui – sembra ormai identificarsi proprio con lo scrivere e l’esprimersi in versi. Nella sua poesia si avverte la sua concezione naturalistica – materialista – atea e il non credere a qualche tipo di sopravvivenza oltre la morte. Da questa concezione filosofica deriva un tormentato pessimismo che, a differenza del naturalismo ateo e materialistico classico al quale pure Grandinetti si rifà, non trova quiete nella contemplazione della natura e nella considerazione della necessità delle cose e del destino, ma anzi tende a interpretare il ciclo della natura come metafora di un eterno ripetersi senza scopo del mondo e della vita umana. Ripetersi aggravato, non arricchito, dalla consapevolezza (dai desideri, dalle passioni, dalle illusioni) da cui deriva la sofferenza che la natura inconsapevole, almeno, evita. C’è però, implicita e per me evidente, una sensibilità che presuppone il cristianesimo, o almeno la sensibilità religiosa post-classica. Continua la lettura di Sulla poesia di Eugenio Grandinetti