Archivi tag: nebbia

Vagando e divagando

(versi del 2013 e del 2014)

di Eugenio Grandinetti

L’autopresentazione  e una raccolta intitolata “Vagando e divagando” con 15 poesie  del 2013-2014. E’ quanto l’amico Eugenio Grandinetti aveva conservato nel suo PC ma  alla data della sua morte (3 febbraio 2019) non aveva ancora pubblicato.  Il file da cui questi inediti sono tratti presentava molti inghippi tecnici. Ho cercato di risolverli al meglio. Non so, però, se l’ordine cronologico dei componimenti, che ho semplicemente numerato, sia quello previsto da Eugenio. A una prima lettura  ho ritrovato i temi a lui cari: il tempo che passa estraneo; la vita come «meccanismo autonomo»,  che  – «partecipi o renitenti» – ci domina e tormenta gli uomini che «cercano di comprender[ne] il perché»; i «paraocchi» dei doveri e delle abitudini sociali;  la sessualità, alludente all’umano, ma osservata qui esclusivamente nel mondo animale e vegetale (Volo nuziale, L’ornitogallo); i fenomeni fuggevoli di una natura antropomorfizzata (Nebbia, La candela, Luci incerte, Il cielo di marzo, Nuvole, Pulviscolo, La notte) e di un pensiero sempre inquieto e smarrito (I giorni che passano, Memorie, Ambiguità). Darei per acquisito il suo pessimismo senza più farne il problema centrale per i lettori; e mi soffermerei sul perché  nel momento della scrittura poetica questo innegabile fondamento di pensiero – con toni qui alla Schopenauer (Volo nuziale) o alla Pirandello (I paraocchi) –  spingeva Eugenio a scegliere ritmi e immagini così lievi e pacati. Infine, guardando con rassegnata indignazione al  caos sempre più febbrile e competitivo degli ambienti poetici e parapoetici (milnesi in particolare) che Eugenio  pur un po’ frequentò,  mi ha fatto  sorridere la sua preoccupazione di non aver presentato le sue “creature” (i suoi versi) alle «persone giuste che avrebbero dovuto capire e valutar[ne] le doti». [E. A.] Continua la lettura di Vagando e divagando

Addii

di Cristiana Fischer

Ci si innamora del corpo della figura della voce del brillio degli occhi e delle pieghe del sorriso prima di tutto, dei colori, del tessuto muscolare, dello scatto degli arti, dell’andatura e delle posture di riposo. Attira il corpo che traspare dalla maschera sociale.

Non è vero che lei mescoli tutto nella piazza memoriale, che non attribuisca a ognuno il suo incarnato specifico. Piccola e calda, anche il suo ultimo frutto è perfetta. Si ferma a  osservarla ancora un poco. La ha nutrita per l’ultima volta prima di affidarla alla sorella,  (matertera, l’altra madre) per la festa. Pare che la piccola sorrida, un “sorriso del latte”che manifesta il suo benessere. Esplora il colore e la consistenza della pelle, la sfumatura cupa che si alleggerisce in un tenue rosato sulle tempie. Altre volte, per i figli precedenti, è stata la voce che la ha riportata indietro con un balzo, a un fratello proprio e a quaranta anni in precedenza.
Come discriminare le differenze nella eredità dei doppi patrimoni genetici che ogni volta producono la creatura unica?
– Ti ho portato la bambina in tempo per la festa. [1]
– Verrà con me anche la tua prima figlia. Porterà il figlio del proprio fratello, il ragazzo che hai partorito tre anni dopo di lei.
“Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” [2] le ha detto la dea e la ha colmata di figli e benedizioni in abbondanza. Come se l’umanità femminile dovesse insegnare la creaturalità prima di tutto, con la sua fragilità mortale. E quindi, in quella bellezza musicale e armonica, trovare una pace che tutti ci conforti.
– Non ricordo più niente di lei né dei figli successivi.
Ora dimenticherà anche questo ultimo corpicino caldo di femmina, che sa destinata a partorire generazioni successive.

Stamattina la valle era colma di nebbia ed emergevano solo i cocuzzoli e qualche cresta con la doppia fila di case sui bordi della vecchia mulattiera. L’isolamento era cominciato dalla strada che saliva verso le valli interne. Successe dopo le piogge di novembre, era franato un pezzo di monte sulla strada che collegava il paese a quello dopo, che rimase collegato alla costa solo attraverso un percorso più lungo, tra due valloni infestati di canne e ginestre, che ogni estate prendevano fuoco.
La strada ostruita si inerpicava tra un antico rimboschimento e arrivava a un altopiano di piccoli colli verso rilievi più alti, che man mano si spogliavano di vegetazione fin che si restava davanti a una ritta parete di roccia, con alcune creste isolate. La frana era consistente, ragione per cui occorrevano mezzi e numerosi uomini, prima per spostarla e poi per imbragare con reti di acciaio il fianco a spuntoni del monte, addossando intanto in basso cassoni di pietre.
Arrivò presto la neve e l’anno finì con le notizie precise arrivate dalla Provincia. Dopo Capodanno si cominciarono a cercare le coperture per finanziare i lavori dato che le province, cui spettava l’esecuzione, erano state abolite ma gli uffici per sostituirle non erano ancora stati incardinati. La primavera successiva non iniziarono i lavori perché non si doveva turbare la nidificazione dei nibbi che allevavano la loro prole. Intanto i finanziamenti erano stati dirottati su impegni più urgenti. Poi si smise di pensarci.
Quando si fonderanno i ghiacci dei poli e si alzerà anche di poco il livello dei mari i paesi arroccati emergeranno come isole in un lago, e il medico di base, che si sta attrezzando per raggiungere le sue località di servizio con un cavallo, dovrà ricorrere a una barca sperando che intanto abbia imparato a destreggiarsi.

Tutto precipitò quando furono proclamate, dopo molti anni, finalmente le elezioni. Già allora i circa mille abitanti di ciascun paese si erano abituati alla immobilità. Erano ormai quasi tutti vecchi, i pochi giovani si muovevano improvvisando percorsi erratici con i trattori lungo i costoni o sulle banchine naturali di pietre deposte dalle piene lungo i torrenti.
I vecchi erano divisi, molti erano ridiventati come l’avaro di Molière o sior Todaro di Goldoni: padroni avari e comandoni, non accettavano niente del nuovo mondo che sfilava in TV davanti ai loro occhi catarattici, in tutto era peggiore di quello che avevano combattuto o sfruttato da giovani. Disprezzo apocalittico verso il presente.
Le donne vecchie e giovani lavoravano con le mani, il cibo le vesti gli oggetti utili ogni giorno, e chiacchieravano insieme. Alla stupidità dei mariti appena se ne accennava, per condividere qualche risata che era amarezza in quella solitudine.
Ai partiti nuovi e vecchi non parve vero di avere circoscrizioni di vecchi immobilizzati da visitare con l’elicottero, rapidamente e con parsimonia. Promettere qualche sollievo: una futura riparazione del ponte, il riempimento di una voragine, una deviazione per la strada crollata.

Il medico arriva a cavallo attraverso le frane e i boschi. Quando il corpo attivo e sano comincia a presentare qualche smagliatura allora si corrono seri rischi. Non di ammalarsi (precipitando lungo un tobòga di crescenti infermità di debolezze e inabilità a provvedere a sostenersi in proprio) ma il rischio di entrare in un cannocchiale che si snoda in differenti stadi successivi di osservazioni esami accertamenti approfonditi e in cui la vita sarà istradata tra sponde estranee ai percorsi scelti fino ad allora. Come rispose  Socrate al tribunale che gli chiedeva come si autovalutasse? “Che cosa merito di patire perché sono così? Qualcosa di buono, cittadini ateniesi, se in verità si deve ricompensare secondo il merito; e qualcosa di buono che mi si addica. Che cosa si addice a un uomo povero che vi ha fatto del bene e che ha bisogno di tempo libero per la vostra istruzione? Non c’è nulla che si addica di più, cittadini ateniesi, di una pensione nel Pritaneo”.[3]
Nel grande ciclo della vegetazione che risorge dal fuoco solare solo i semi sopravvivono nella terra scura. Bruciano le erbe secche, le foglie appassiscono e diventano una grigia rete di polvere.
La dea assicura alla sterilità raggiunta una natura rocciosa e consistente come nodi vegetali millenari e sepolti. Lontani rifioriranno germogli tenerissimi e lucenti. Altra vita bagnata, anche immersa in acque scure e profonde, incurante delle vigili attenzioni predatorie dei nostri discendenti, ondeggerà sinuosa come il fresco spirito leggero saprà ristorarla o saprà nutrirsi del minuscolo plancton.


NOTE

[1] “Il rito de I Matralia, celebrato nell’antica Roma l’11 giugno, era riservato alle donne libere, sposate una sola volta, le matrone, che in processione si recavano al tempio della Mater Matuta, portando in braccio i figli dei fratelli e delle sorelle. In tal modo, assicuravano ai nipoti tutela e affetto nel caso di dipartita dei loro genitori.” http://www.capuanova.it/adottaunamadre/matralia/
In Lucrezio, che è la fonte più antica,  Matuta è dea dell’aurora. Dei Matralia scrivono anche Ovidio e Plutarco.
Nella cultura matrilineare dei Mosuo, gli uomini sono responsabili dei figli delle sorelle, zie e nipoti, e gli viene assegnato un ruolo che devono svolgere con grande responsabilità.

[2] Genesi, 22, 17.

[3]Platone, Apologia di Socrate, 26
Treccani, Pritaneo  “Cuore della città, penetrale urbis, il pritaneo dovette esistere in ogni città greca e custodire fra le sue mura il focolare comune e il fuoco sacro divinizzato sotto il nome della dea Estia […] in esso sono nutriti a spese pubbliche quanti Atene reputi degni di tanto onore.”

Sanguina Giove

 

 di Alessandra Pavani

 

      Sotto l’arcata l’alba era nera. Il bestiame era stato decimato; su di loro era sceso il ragno con le fauci spalancate, e per tutta la notte avevano appeso carcasse alla luna. Era arrivato a bordo delle navi straniere, come i folli del villaggio di Gheel. Ora, sulla porta della canonica, il boia mormorava come un fiume, e davanti al duomo sfilavano i cavalli; suonavano le campane al loro passaggio.
Lungo gli sporchi corridoi della città, le donne rumoreggiavano con le braccia cariche di lenzuola da lavare, mentre sui ciottoli rilucenti di lacrime i gatti inseguivano gli ultimi sogni della notte. Era la città che si risvegliava, ma si risvegliava nel buio. Continua la lettura di Sanguina Giove

Poesie inedite

Scimmia e bimba per poesie Locatelli

di Annamaria Locatelli

Questa pubblicazione di alcune poesie inedite di Annamaria Locatelli non è solo un omaggio ad una delle commentatrici più assidue e cordiali di Poliscritture, ma un invito a riflettere, a partire dal suo caso concreto, sulla tenacia con la quale una donna, senza lasciarsi intimidire dai tanti e contraddittori e quasi sempre inconcludenti discorsi che si fanno sulla poesia d’oggi, continua – schiva ma decisa – a coltivarla per suo conto. Annamaria cerca la sua poesia nel fiabesco, dove i fiumi che scorrono non possono essere che pigri e le pecore bianche non possono che brucare. E lì però non dimentica la paura dell’animale selvatico (la piccola volpe smarrita) costretta a nascondersi «in anfratti solitari». Domina nella sua ricerca la nostalgia di un mondo primitivo (quasi di una Rousseau al femminile invaghita di «Lucy l’antenata»?). La spinta  più sentita è quella di sfuggire al mondo delle merci per rinascere, cancellando il presente abitato da uomini ammaliati e ammalati di nuove tecnologie, e ritrovarsi all’unisono con una natura intatta e rassicurante. Si può o si deve recuperare il gesto antico e semplice dell’impastare il pane e tornare pronti a spartirlo con i bisognosi? Non si finirà malcapitati a imprecare cercando «un appiglio/ in coda all’ultimo tram»? Eppure questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta. E che ai più scettici pone una domanda ineludibile: perché esso persiste in tanti/e? [E. A.] Continua la lettura di Poesie inedite

Scusi, posso protestare anch’io?

Ricotta poesie

di Angelo Ricotta

Nero

Di una nuova luce oggi mi vesto
nera come il fondo del buio
aspetterete invano il mio ritorno
Sono occupato ad arginare il nulla Continua la lettura di Scusi, posso protestare anch’io?

Quattro poesie

bar periferia

 

di Roberto Marzano

Il mondo  emotivo e visivo  di cui si nutre la poesia di Roberto Marzano è solo un calco di quello reale dei quartieri popolari dov’è vissuto. E i suoi luoghi appaiono svuotati dall’effervescenza effimera di cui sempre la folla li riempie. I quattro testi che ho scelto danno conto di un’ansia repressa di chi li osserva. Le immagini, esterne e interiori, sono convulse, lampeggianti, rabbiose e rassegnate al contempo. Interlocutori veri qui mancano. E il poeta però testardo insiste a spiegare «la nebbia ai privi di vista / ai tavoli inclinati dei bar di terza fila /dai flipper assordanti di luci fioche».  [E. A.]

Continua la lettura di Quattro poesie

L’alba

 ninfeo 2

di Eugenio Grandinetti

Questa è la seconda parte de “Lo scorrere della sabbia” (pubblicata qui). [E.A.]

L’alba

L‘alba ha gli occhi di sonno: un velo lieve
ricopre le pupille e tutto pare
non avere confini. Eppure
occorre andar oltre, attraversare
orizzonti d’abbaglio, non fermarsi
alle prime apparenze ed aspettare
la luce senza palpiti del giorno.

Continua la lettura di L’alba

La nebbia

nebbia a

di Franco Nova

I vetri sembravano sporchi. X si avvicinò alla finestra e si accorse che era nebbia; un nebbione fitto fitto che non lasciava intravedere praticamente nulla, essendo anche calata la notte. X fu meravigliato perché in quella zona non si era quasi mai vista nebbia; e poi così spessa, proprio mai. Era infastidito. Non doveva uscire quella sera, aveva già progettato di darsi alla lettura sul comodo divano davanti alla TV, rigorosamente spenta. Adesso, però, i suoi programmi erano disturbati dal nebbione. Certo, era già deciso che sarebbe rimasto a casa; ma senza nebbia avrebbe avuto la piena consapevolezza che fuori c’era un paesaggio, c’erano edifici, auto che passavano, gente sul marciapiedi un po’ più in fondo. Continua la lettura di La nebbia