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La libertà di coscienza e il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche

di Donato Salzarulo

Non ho visto a reti unificate i funerali di stato di Silvio Berlusconi. Non ho ascoltato neanche l’omelia del cardinale Delpini. Mi è capitato di leggere sul Manifesto del 16 giugno una lettera rivolta da Roberta De Monticelli a sua Eminenza.
La sua omelia aveva suscitato nella filosofa «una tristezza che non è solo tale – ma è anche mortificazione e sentimento di profanazione». Partendo dal presupposto che il Duomo ha un senso anche per chi non va a messa e che la parola dell’officiante «si suppone aspiri al vero, che è uno dei nomi di Dio», De Monticelli, dopo aver riassunto i punti salienti dell’omelia aggiungendovi alcune sue domande, sostiene che le parole del cardinale le «paiono blasfeme», proprio perché dimenticano o omettono la verità sulla storia di Berlusconi.
«Ebbene: se pure la verità non fosse uno dei nomi del Dio che lei serve, a noi non è permesso, quaggiù, disonorare il precetto dei filosofi: se cerchi la verità, cercala tutta. “Una mezza verità è la più vile di tutte le menzogne”».
Lo stesso giorno, Isaia Sales, in un passaggio di un interessantissimo articolo di bilancio su ciò che ha significato Berlusconi per la storia d’Italia, scrive: «E resterà scolpita nella storia della Chiesa italiana l’omelia del cardinale di Milano, l’omaggio umano a un grande peccatore, a un potente dei nostri tempi, quasi a legittimare il convincimento che non si può servire la religione cristiana senza tradirne i suoi principi. Una specie di inno alla simpatia amorale, fino al punto di ignorare completamente la concezione mercantile del corpo femminile ammantata da amore per la bellezza».
Sottolineo: non si può servire la religione cristiana senza tradirne i suoi principi…
Mi sono ricordato allora che nel 2009 scrissi per il n. 6 di Poliscritture (qui) un articolo sul nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche. Lo ripropongo perché le argomentazioni di fondo mi sembrano tutt’ora valide ed attuali. (D.S.)

1. Non sono un esperto né di scienze né di storia delle religioni. Non sono un credente, ma il problema è che milioni di persone mostrano di esserlo con maggiore o minore convinzione; e vanno in chiese, vivono in comunità religiose, frequentano associazioni e organizzazioni che non celebrano soltanto culti o riti cerimoniali, non amministrano soltanto sacramenti privati. Il problema è che sono presenti nella società, influenzano direttamente o indirettamente la mia vita e quella di tanti altri diversamente credenti o non credenti come me. Quando la Chiesa cattolica fa una campagna contro il divorzio o l’aborto, quando si propaganda l’astensione sul referendum relativo alla procreazione assistita, quando migliaia di persone chiamano “assassino” Beppe Englaro, non si sta colloquiando con Dio o con lo Spirito Santo. Non si sta professando liberamente la propria fede religiosa in forma individuale o associata, come recita l’art. 19 della nostra Costituzione. Si sta intervenendo direttamente sulle piazze pubbliche e mediatiche per cercare di persuadere le menti sulla bontà o giustezza delle proprie ragioni etiche e/o morali. Non si sta pregando nei luoghi consacrati né celebrando una messa. Si sta facendo politica. É questo il dato di fondo da cui partire per qualsiasi ragionamento.

2. Da qui una prima serie di interrogativi: quale politica? Su quali contenuti? Per soddisfare quali bisogni? Fin dai tempi del referendum sul divorzio non ho dubbi. É una politica contro le persone, contro le singole persone. É un’imposizione autoritaria e oppressiva di una gerarchia sull’intero corpo sociale. Nel merito: io non penso che il matrimonio sia un sacramento. Credo che sia un evento importante della vita, che riguardi soltanto le persone coinvolte nella loro scelta. Per quale ragione, il Parlamento italiano dovrebbe votare una legge che obblighi qualcuno a diventare credente e quindi a ritenere che l’uomo non debba separare ciò che “Dio unì”? Innanzi tutto non è stato Dio che li ha uniti. Sono stati i due sposi a decidere di unirsi, in un modo che dovrebbe riguardare soltanto loro e non il Vaticano o il Parlamento italiano. Al Parlamento può riguardare nella misura in cui la loro libertà non leda quella degli altri. Capisco che ci sia un diritto di famiglia. Capisco che i genitori abbiano nei confronti dei figli degli obblighi. Capisco tutto questo. Ma perché se un matrimonio è andato a rotoli, uno Stato dovrebbe obbligare due persone a convivere, dal momento che sono diventate reciprocamente sempre più estranee? Il fatto che più non digerisco è proprio questo: il Vaticano con la sua discutibile etica e morale vorrebbe OBBLIGARE a credere nel sacramento del matrimonio, mentre la legge sul divorzio NON OBBLIGA nessuno a divorziare. É soltanto una possibilità. Insomma, fin dal 1974, ho capito che come cittadino italiano oltre ad avere a che fare con il mio Stato repubblicano, tutt’altro che capace di rispondere ai miei bisogni, dovevo vedermela con un altro Stato che, con la scusa della religione e del Magistero morale, interferiva pesantemente sulla vita quotidiana mia e di tutti gli altri.

3. Il sentimento e il pensiero di avere a che fare con una politica e una morale forcaiola, oppressiva e autoritaria, hanno trovato nuova conferma in occasione della legge sull’aborto e del relativo referendum, della legge sulla procreazione assistita, della questione delle coppie di fatto, della vicenda tragica di Welby e di Eluana, ecc. ecc. Il discorso è sempre lo stesso: il Papa e i vari vescovi e cardinali dicono la loro. E per carità, la dicano pure!… Siamo in democrazia! (In verità, sempre meno…ma, facciamo finta). Quello che non capisco è perché, dopo aver dichiarato ai quattro venti la loro rispettabilissima opinione, ci si organizza per imporla. O meglio, lo capisco. Il Vaticano non è espressione soltanto di un “potere spirituale”, ma anche, e forse con più insistenza, tenacia e accanimento, di un “potere temporale” e, come tale, si organizza per imporre le proprie leggi e norme. Conosco l’art. 7 della Costituzione: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Ho l’impressione, tuttavia, che la Chiesa sia più indipendente e sovrana della nostra sconquassata Repubblica. A questo punto, però devo capire di quale Stato sono cittadino e come devo organizzarmi per manifestare liberamente il mio pensiero: io sono una persona capace di pensare, giudicare, ragionare, immaginare, fantasticare, ecc. ecc. Sono una persona capace di scegliere, di valutare il bene e il male, il bello e il brutto, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. Accetto volentieri il confronto, la discussione, il dialogo. Ma non accetto che un altro scelga al posto mio. Che sia Papa o Presidente della Repubblica, Concilio dei Vescovi o Parlamento. Io obbedisco alle leggi dello Stato di cui sono cittadino, ma vorrei che esse non avessero a che fare con le mie scelte morali ed etiche. Spero che non sia una legge a dirmi come quando, chi e cosa amare; cosa è giusto e cosa non è giusto per me; cosa è bene che io faccia e cosa non lo è. Non sono un minus habens né un minorenne. Ho raggiunto la maggiore età da molto tempo e se commetto un peccato (morale) o un reato (diritto penale e/o civile), so assumermi la mia responsabilità. Non sono un credente. E allora? Per questo non ragiono? Per questo vado messo sotto tutela?

4. Scrivo questi pensieri e mi pongo queste domande perché sono rimasto sconcertato da un fatto. L’anno scorso ho letto un articolo di una persona che considero stupenda: è la filosofa Roberta De Monticelli. Il 2 Ottobre 2008 pubblicò sul Foglio il suo doloroso «addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana». Motivo scatenante, la dichiarazione di Mons. Betori, riportata su Repubblica, secondo cui «non deve spettare alla persona» malata la decisione relativa alla fine della propria vita, anche quando è in condizione di poter manifestare la propria volontà. «Questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale», scrive la filosofa. Diversa dal diritto, infatti, la morale può fondarsi soltanto sulla coscienza e la sua libertà. Perciò, «quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona». Lo Stato con le sue leggi non può sostituirsi alla coscienza morale del singolo che deve poterla esercitare senza ledere diritti altrui. Non si può far finta che non ci siano stati Kant e l’Illuminismo. Non si può tornare indietro rispetto alla nostra «maggiore età morale», al principio, cioè, che non riconosce un’autorità morale a nessuna istituzione come tale, che si chiami Papa, vescovo, medico, Governo o Parlamento. «’Non siamo per il principio di autodeterminazione’, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? É possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai – lo dico con dolore – infamia.»

5. Parole pesanti e per persone come me allarmanti. Dette da una filosofa cattolica, poi; da una studiosa che sicuramente conosce meglio di me il linguaggio delle gerarchie. Santo cielo!, ma questo Vaticano mi considera una pecorella smarrita da riportare all’ovile, pensai. Il Buon Pastore, dunque, vuole essere qualcosa di più. Oltre che avere relazioni col Sacro e amministrare riti, vuole essere anche il direttore della mia coscienza. Non un Super-Io interiorizzato da consultare all’occasione, ma un Padre severo sempre pronto a dare regole e a fissare norme, a chiedere il sacrificio dei figli, della loro umana dignità. Non so perché, ma mi venne in mente Stalin. Anche a lui si rivolgevano affettuosamente con l’appellativo di “piccolo Padre”. Oh, signori miei, ma io sono già padre e nonno!… Scherzai un po’ tra me e me. Ma c’era poco da scherzare.

6. Per la cronaca, il Monsignore rispose a De Monticelli il giorno dopo, su Avvenire. Ecco, per punti, i nuclei argomentativi: A) «Nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere»; quindi, quando si parla di autodeterminazione, si vorrebbe fare a meno di questa evidenza. B) “Non spetta alla persona decidere” non significa negare la coscienza e la sua libertà, ma semmai negarne l’autosufficienza. C) «Non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare», possibilità che, secondo il ragionamento di mons. Betori sarebbe contenuta nel principio di autodeterminazione. L’esempio addotto, infatti, è illuminante: «Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna». Vorrei far notare che questo esempio non viene portato a caso. Ricordiamo tutti l’accusa di “assassinio” rivolta al padre di Eluana Englaro, i cartelli dei manifestanti, ecc. D) Dopo aver distinto e opposto libertà di coscienza e principio di autodeterminazione, che, precisa il Monsignore, «non è mai stato un caposaldo della dottrina della chiesa», si afferma a chiare lettere la tesi che «La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta». Il criterio è esterno, non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, allo stesso modo della vita che ci viene donata. «Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.» La vita è frutto di relazioni. Non si può essere buoni in astratto come vorrebbe il principio di autodeterminazione. Nelle circostanze date, bisogna cercare di essere “il più buoni possibile”. Realismo è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica. A De Monticelli, che nelle sue sofferte domande finali aveva tirato in ballo il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche, mons. Betori risponde che «nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine.»

7. Ho voluto riportare ampiamente le argomentazioni del Monsignore per evidenziarne la capziosità e il pericolo. É chiaro che ognuno di noi non è una monade senza porte né finestre; che la nostra identità è prismatica e relazionale. Gregory Bateson direbbe che siamo dei “sistemi aperti”. Ma scegliamo si o no? Ci capita o no di essere posti di fronte a degli aut-aut? Betori mi riconosce, bontà sua, libertà di coscienza, ma che senso ha riconoscermi questa libertà e poi sostenere che non posso autodeterminarmi? É vero che l’Io, a parere di Freud, è un “lumicino” e che forse la coscienza è soltanto un iceberg fra le varie funzioni mentali, ma questo lumicino e questo iceberg mi appartengono o no? Quando si sostiene che la “piena libertà dell’assassino” è il presupposto che serve alla Corte per attribuirgli la responsabilità e condannarlo, perché a chi si macchia di un delitto gli si riconosce “piena libertà” (compresa l’autodeterminazione, altrimenti non capisco come abbia scelto, sia pure con tutte le attenuanti, di uccidere una persona) e non la si riconosce a chi, di fronte ad una malattia irreversibile, come nel caso di Welby, manifesta la volontà di farla finita con dolori e sofferenze? E quella storia che la morale ha un “criterio esterno” alla coscienza, detta da un Monsignore, non è davvero incredibile? L’uomo non è a “immagine di Dio”? E un famoso Padre della Chiesa come sant’Agostino non invitava a rientrare in sé stessi perché «in interiore homine habitat veritas»?… Mettetevi d’accordo Padri della Chiesa e Monsignori. Io ho sempre pensato che il diventare persona, il farsi persona fosse un processo importante per questa Confessione religiosa; scopro, invece, che non lo è. O, per lo meno, che non lo è pienamente. Seguendo i distingui e le false opposizioni di Mons. Betori fra libertà di coscienza e autodeterminazione, fra libero arbitrio e arbitrio soggettivo, posso tranquillamente mettermi sotto i piedi l’epitaffio kantiano del “cielo stellato sopra di me” e della “legge morale dentro di me”. Grazie al papà, alla mamma, agli amici, agli insegnanti e a Monsignore ho la coscienza come “luogo” e “sede”, ma dentro di me non ho né la “verità” che mi garantiva Sant’Agostino, né la “legge morale” che mi donava Kant. Sono messo male, non c’è che dire!… A scanso di equivoci io non sono un individualista. Penso, però, che un individuo, figlio di una donna e di un uomo, avendo a disposizione un’unica vita, abbia il diritto a una biografia e a considerarsi “assoluto” almeno quanto un Papa, un Re o un Presidente della Repubblica.

8. Qualche giorno dopo, giro per blog e capito su quello di Micromega. Vorrei dire che questo blog e la relativa rivista cartacea conducono in Italia una battaglia laica e anticlericale per molti versi ammirevole. So che le posizioni di Paolo Flores D’Arcais e di tanti altri collaboratori sarebbero per alcuni “laiciste” o affette da una laicità “non sana”. Ma io le trovo interessanti e ciò che più conta aperte al dibattito. Ebbene sul blog leggo una lunga intervista di Emilio Carnevali a Roberta De Monticelli. Gli argomenti sono quelli affrontati nel confronto serrato con mons. Giuseppe Betori. Titolo: «Il nichilismo della Chiesa cattolica». Interessante. Il Papa predica contro il nichilismo degli altri e non presta attenzione a quello presente nella sua ecclesia.

9. Non intendo riassumere, punto per punto, il contributo della filosofa; penso che sia più importante e proficuo concentrare l’attenzione sulla critica, piuttosto inconsueta, di nichilismo rivolta alle gerarchie cattoliche. In che senso si è o non si è nichilista? Per mons. Betori, e forse per tanti altri, nichilista è chi crede che non ci sia nulla oltre l’individuo. Lo è, quindi, quasi per definizione, chi non crede in Dio e nei valori tradizionali della Chiesa; chi non crede in Allah e nelle parole del suo profeta Maometto, e così via. Non è questo il nichilismo, mi sembra di capire, dalle argomentazioni della De Monticelli. Credere o non credere in Dio è un problema di fede. Invece, scelte e comportamenti nichilisti hanno a che vedere con problemi di cuore e di ragione, di sensibilità morale e di giudizio, di percezione dei valori e dei relativi ragionamenti. Insomma, con questioni di logica e di etica per le quali l’essere credenti o il non esserlo è ininfluente. Così, alla filosofa appare un esempio di nichilismo il ragionamento di Mons. Betori che, nella replica su Avvenire, mette sullo stesso piano il comportamento di un assassino e quello di una persona che, dopo aver esaminato fino in fondo la propria coscienza morale, decide di porre fine alla sua vita. In ambedue i casi siamo di fronte a manifestazioni di libertà di coscienza, ma fra i due c’è un abisso, una “differenza essenziale” che non si può non cogliere. A meno che non si voglia cadere nel nichilismo. “Nichilismo pietoso”, incalza la filosofa, ma nichilismo. Simile a quello sostenuto dal protagonista della Leggenda dostoevskiana del Grande Inquisitore che tende la mano agli uomini-bambini, incapaci di distinguere il bene dal male e di sopportare il peso delle proprie scelte.

10. Il “principio di autodeterminazione”, aveva precisato nella sua replica Mons. Betori, non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa. Se è per questo, sostiene De Monticelli, le cose «non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza» e la maturità morale dell’uomo, riconosciute soltanto nel 1965, in chiusura del Concilio Vaticano II, nel documento Dignitatis humanae. Il tutto con un paio di secoli di ritardo dalla «dolce luce dei Lumi» e da Kant!… Si sa, l’antimodernismo è posizione culturale, filosofica e religiosa tradizionale della Chiesa. Ma, ecco la novità, quello odierno appare alla nostra filosofa «molto più avvolgente e sinuoso, molto più…avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo.»

11.  Le azioni morali positive sono quelle dovute a scelte assunte con convinzione, non perché costretti dalla forza o per rispettare una legge. É necessaria una “libera decisione del cuore” perché un atto abbia valore morale positivo. Ebbene, come viene interpretata questa “libera decisione” dalle gerarchie ecclesiastiche? Esattamente come fa il Grande Inquisitore, come la pretesa di creare, con la propria decisione il bene e il male. Posizione volontaristica, scrive la De Monticelli, contraria a quello che ci fa intendere Gesù, quando chiede all’anima-fanciulla di risvegliarsi, «di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (“Chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello Stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa.»

12. Conosco la critica che potrebbe essere mossa a questa tesi di De Monticelli. É la stessa che le muove Mons. Betori: soggettivismo, mancanza di realismo. Ogni persona è immersa in una rete di relazioni sociali. Il giudizio di valore viene formulato all’interno di dinamiche intersoggettive che “premiano” certe azioni e “puniscono” certe altre. Il capitalista giudica positive e conformi allo scopo tutte quelle azioni che legittimamente gli consentono di raggiungere il massimo profitto. Sull’altare di questa finalità ritenuta sociale, i lavoratori dipendenti, a tempo determinato o indeterminato, precari, flessibili o col “posto fisso”, vengono trattati come mezzi, risorse di cui all’occorrenza disfarsi. Capitale variabile, avrebbe detto Marx. Vero. Ma il bene/male, il giusto/l’ingiusto, la virtù e il vizio, i valori/disvalori non si addensano tutti in un rapporto, in una relazione sociale. Il rifiuto di farsi ridurre a rotelle di un meccanismo impersonale germoglia anche all’interno di una lotta intima che ciascuno di noi conduce nel suo foro interiore. Non si pensa da soli. Ma si sceglie da soli, autonomamente, con maggiore o minore convinzione, se stare o no dentro una decisione collettiva. Chiedere alla propria anima, che si spera non rimanga sempre fanciulla, di svegliarsi, di sentire e vedere quanto male possono produrre certe relazioni sociali oppressive e schiavizzanti, è compito forse soprattutto individuale. Un Io che impari a valutare criticamente l’autorità, che impari a ribellarsi alle ingiustizie e alle menzogne sociali che lo attraversano e lo colpiscono, direttamente o indirettamente, è un Io che può sperare di contribuire a costruire un Noi collettivo in cui ricevere riconoscimento e risposte solidali. Un Noi che liberi e arricchisca l’espressività e la realizzazione dei singoli. In caso contrario, subirà l’autorità più o meno legittima, più o meno buona, giusta, ecc. Impossibile sfuggire alla dialettica libertà-autorità vissuta quotidianamente da tutti noi. In sostanza, fondare la “norma morale su un vederci chiaro del cuore e della mente” da parte di ciascuno, fondarla rispondendo singolarmente alla domanda sul perché è giusto compiere quest’azione piuttosto che quest’altra, mi sembra un modo per giudicare e, se necessario, combattere Autorità personali e impersonali diventate, magari, autoritarie e oppressive. Autorità sono pure leggi, norme e forze politico-sociali che incatenano la soggettività. Autorità sono le idee dominanti prodotte inevitabilmente dalle classi e dai gruppi dominanti. Si pensi, tanto per dirne una, al complesso d’idee diffuse oggi dall’apparato mass-mediale che “comunica” con noi, ma ci soffoca anche: esisti se appari in Tv, nella vita più di tutto conta il successo, ecc. ecc. La democrazia è confronto e, al tempo stesso, conflitto.

13. De Monticelli denuncia anche l’alleanza tra gli uomini di Chiesa e il conservatorismo di Odo Marquard. Questo filosofo tedesco sostiene che se ci riconosciamo come esseri umani libertà di coscienza e di autodeterminazione morale, ciò equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte. Sostituiremmo il nostro arbitrio soggettivo a Dio. Il filosofo confonde volutamente “autonomia morale” e “arbitrio soggettivo”. Questa tesi, sostiene De Monticelli, è storicamente e filosoficamente falsa. Al contrario, proprio «per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale…abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: “perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci né dell’una né dall’altra?»

14. “Se Dio non c’è tutto è permesso”. Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva proprio su questa premessa nichilista del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, chiarisce la nostra filosofa, «non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbe da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale.» Da qui l’esigenza di andare fino in fondo al significato di questa tesi, di capirne bene il senso e le conseguenze che se ne traggono. Tre sono le versioni in campo: a) quella di Comunione e Liberazione; b) quella delle gerarchie ecclesiastiche e degli atei devoti alla Ferrara; c) quella di chi si chiede perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso.

15.  “Se Dio non c’è tutto è permesso” nella brutale e persino sincera versione ciellina diventa: siccome tu non sei credente (anzi cattolico), sei moralmente incompetente e, allora, sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai la legge morale, chiederò allo Stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza…Conseguenza: le crociate per i ciellini non sono mai finite. Ogni giorno bisogna organizzarne una. Non ci sono terre sante da salvare, ci sono solo dei “primitivi” da sottomettere. Perché un credente (cattolico) dovrebbe godere del privilegio d’essere moralmente competente, un don Giussani redivivo dovrebbe spiegarcelo terra-terra; capisco che forse molti ciellini non amino essere convocati dall’illuministico tribunale della ragione, ma qui si tratta solo di rispondere alla semplice domandina “perché?” Oltre che nichilista, a me questa versione sembra francamente insultante e prepotente.

16. “Se Dio non c’è tutto è permesso” sulle labbra di gerarchie ecclesiastiche e atei devoti si trasforma nella proposizione che “Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo, sostiene De Monticelli, appare improvvisamente chiaro. L’auto-deificazione che veniva attribuita all’uomo moderno e che invece «l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica […] ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa.» Atei devoti e gerarchie vanno in giro allora a sostenere che bisogna fare “come se Dio ci fosse”. Esattamente il contrario del suggerimento laico a organizzare la società aperta “come se Dio non ci fosse”, unica condizione perché, si evitino guerre di religioni, violenze e sopraffazioni.  

17. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Si può affermare una cosa del genere solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo, scrive De Monticelli, «è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure. […] Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene». La tesi qui enunciata è fondamentale. Il bene sta dentro e fuori di noi. E così la verità e il bello. Pensare che un Soggetto con la maiuscola (Dio, Stato, Partito, ecc.) possa crearli è volontarismo. Il Bene c’è, esiste. Continuare a scoprirlo è il compito dei nostri “risvegli di coscienza” e della nostra ricerca conoscitiva. Coscienza e conoscenza sono luoghi e funzioni soggettive e intersoggettive. La fonte di questa posizione della nostra filosofa è Platone, il quale già nell’Eutifrone mostra con chiarezza che l’alternativa, successivamente definita “volontaristica”, conduce al nichilismo. É questa alternativa la rovina dell’etica che, secondo De Monticelli, «è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione.»

18.  De Monticelli, a questo punto, ricorda i pochi filosofi del Novecento che seguirono questa tesi platonica: Moritz Schlick, Husserl, Scheler, gli altri fenomenologi e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer, mentre tutti gli altri presero l’altra via e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. «Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umana, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore.»

19. Ho voluto riportare ampiamente le parole della nostra filosofa perché questo è un punto decisivo. É una questione che ci riguarda. I traffici col Sacro e le teologie politiche non sono stati praticati e pensati soltanto dalla Chiesa cattolica. La sacralizzazione della politica non è stato un tratto solo del totalitarismo nazista e fascista. É nota quanta sacralizzazione ci fosse nella “chiesa comunista”. I confini mobili della coppia sacro-profano e la definizione delle modalità di rapporto col sacro, tipologia e caratteristiche della religione conseguente, relazione col potere temporale, ecc. ecc. sono problemi che riguardano credenti e non credenti. Alle spalle della decisione di De Monticelli di congedarsi da qualsiasi forma di relazione con la Chiesa cattolica c’è un grande travaglio intellettuale ed emotivo documentato dal libro «Sullo spirito e l’ideologia» (Baldini Castoldi, 2007), una vera e propria Lettera ai cristiani pubblicata nell’inverno del caso Welby. In questo libro, in cui la filosofa cattolica manifestava i suoi dubbi e le sue perplessità, l’ideologia appare come «l’antitesi dello spirito, e insieme come la sua contraffazione diabolica», una contraffazione che minaccia dall’interno «ogni fede che si fa istituzione terrena». La parola «’chiesa’ ha assunto nel linguaggio comune anche il senso di ‘setta’ o ‘partito’». Non credo abbia torto. Oggi la Chiesa appare soprattutto, e non soltanto a me, come forza sociale e culturale che vuole imporre la sua teologia politica, che fa un uso «sfacciatamente ideologico e politico del nome di Dio». Non è cattivo laicismo questo. É semplicemente osservare con spirito di verità ciò che accade.

20. «Quando Dio entra in politica» (Fazi Editore, 2008) è il titolo di un libro di Michele Martelli, professore di filosofia morale all’Università di Urbino. Più di duecento pagine appassionate e ben argomentate che offrono il quadro presente e passato della questione. Primo capitolo: Ratzinger e la “rivincita di Dio”. Il nostro filosofo illustra con efficacia i Nuovi Dieci Comandamenti che ispirano le scelte etico-politiche della Chiesa cattolica (“Non escludere Dio dalla sfera pubblica”, “La Chiesa non è democratica”, “Non uccidere, a meno che Dio non lo comandi”, ecc.). La Chiesa non è democratica, non è una definizione polemica inventata dal professor Martelli. É una citazione dell’attuale Papa: «La Chiesa non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica; l’autorità, qui, non si basa su votazioni a maggioranza; si basa sull’autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rappresentanti sino al suo ritorno definitivo. » (in Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede. Intervista con Joseph Ratzinger”, pag. 49). Il secondo capitolo del libro è relativo alla “storia politica di Dio”, una storia, cioè, dell’uso che i suoi rappresentanti hanno fatto del potere o che i detentori del potere hanno fatto di Dio. Legittimazione e strumentalizzazione reciproca; il sintetico excursus comincia con l’imperatore Costantino, “tredicesimo apostolo”, va avanti con la nascita dei Papa-Re e si concretizza in Crociate, guerre sante e genocidi vari: dei catari, dei dolciniani, dei valdesi di Calabria, ecc. ecc. A leggerle queste pagine c’è da restare inorriditi. Fanno capire il costo umano di “lacrime e sangue” pagato al dogmatismo teocratico di chi, in nome del possesso monopolistico della Verità e ispirandosi a Mosè, si arroga un potere assoluto. Martelli dedica il terzo capitolo del suo lavoro a “Teocon e dintorni”, esaminando le posizioni dei cosiddetti “atei devoti” come Giuliano Ferrara e l’ex Presidente del Senato Marcello Pera. Ultimo capitolo: “Il Dio dei poveri e il Dio del potere.”  Perché non c’è un solo modo di intendere Dio e di parlare in suo nome. Così accanto al Dio del potere illimitato e incontrollato, c’è «il Dio interiore del monachesimo e dell’ascetismo, il Dio nascosto, abissale, ineffabile dell’esperienza spirituale dei mistici. E c’è il Dio consolatorio e misericordioso delle piccole sette religiose, come le comunità cristiane evangeliche delle origini, perseguitate e represse dal potere imperiale romano. O il ‘Dio malato’, fragile e impotente di tante odierne comunità di base e di tanta parte del volontariato sociale cattolico, che della politica hanno un’idea completamente diversa e opposta a quella di tipo mosaico-ratzingeriano.» (pag. 49) Conclusione: è necessario criticare apertamente i discorsi del Papa e delle gerarchie ecclesiastiche, conoscere le loro argomentazioni, valutarle, coglierne le contraddizioni e smontarle. Dico “argomentazioni”, anche se, purtroppo, il più delle volte, si tratta di dogmi o di principi applicati secondo convenienza. Si prenda, tanto per fare un esempio, il principio della sacralità della vita. Un principio “assoluto”, “non negoziabile”, quando si tratta di scendere in piazza contro quel famoso “assassino” che è il padre di Eluana Englaro o contro l’”olocausto” degli embrioni-persona. La pena di morte, però, può continuare ad essere applicata da tanti Stati senza che la Chiesa senta il dovere di pronunciare parole chiare e ferme di condanna.  D’altronde, perché dovrebbe?… I tribunali ecclesiastici storicamente ne hanno fatto largo uso contro eretici, dissidenti, oppositori e infedeli. Uccidere l’infedele per San Bernardo di Chiaravalle non era un crimine, ma un “malicidio”. Non solo. In Africa, decine di migliaia di malati di AIDS potrebbero salvarsi da morte sicura se, insieme ad una buona educazione sessuale, si diffondesse l’uso di profilattici e anticoncezionali contro cui si proclamano Papi, vescovi e, in questo caso, anche Imam. Così la vita appare sacra a seconda dei giorni e delle convenienze politiche. Se non è nichilismo questo!…

21. La Chiesa non è democratica ci assicura il Papa. I principi su cui si regge sono teocratici, esattamente opposti a quelli di uno Stato democratico. La sovranità non appartiene al popolo, ma a Dio; il governo è monocratico, nel senso che il Papa è il monarca assoluto della Chiesa e del Vaticano; il potere è indivisibile ed è nelle sue sole mani; Vaticano e Chiesa, autorità politica e autorità religiosa sono detenute dalla stessa persona che, per quanto infallibile, è un essere umano. La Chiesa non è democratica, però è diversa dalle teocrazie islamiche perché avrebbe accettato le celebri parole di Gesù, date in risposta ai farisei e ai seguaci di Erode. Il passo evangelico è noto: costoro, volendo trarre in inganno il Messia per accusarlo gli uni di disobbedienza (i seguaci di Erode), gli altri di idolatria (i farisei), gli avevano chiesto se era lecito o no versare il tributo a Cesare. Chiese allora che gli portassero una moneta e, avendo fatto constatare ai suoi interlocutori che sopra c’era l’immagine dell’imperatore, Gesù disse: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Questa formula conterrebbe il principio dualistico della separazione del “potere temporale” da quello “spirituale” e sarebbe una caratteristica fondamentale della Chiesa cattolica d’Occidente. Ma è proprio così? Siamo sicuri?  Giovanni Filoramo, professore di storia del cristianesimo all’Università di Torino, ha recentemente scritto un libro su questa questione: «Il sacro e il potere. Il caso cristiano» (Einaudi, 2009). A leggerlo con attenzione, si impara parecchio. Si impara, ad esempio, che già in Gesù la formula conteneva implicitamente un’antitesi. Il pagamento del tributo non rappresentava, ai suoi occhi, un atto idolatrico, ma di lealismo. E, però, essere leali con i rappresentanti dell’Impero romano, non significava rinunciare alla sovranità di Dio sull’uomo. «Il detto, insomma, più che la separazione delle due sfere, vuole sottolineare il primato della signoria di Dio, secondo un’ottica tradizionalmente teocratica, implicita in quello che è il cuore dell’annuncio gesuano: appunto, l’imminenza dell’avvento del regno di Dio.» (pag. 36). Se da Gesù si passa a San Paolo e alle sue due Lettere ai Romani e ai Filippesi, la vocazione teologico-politica del rapporto tra sacro e potere appare accentuata. Tre sono gli elementi che caratterizzano la sua posizione: a) una scelta di lealismo nei confronti dell’autorità politica, tipica del fariseismo per il quale ogni autorità politica va rispettata perché proveniente da Dio ; b) un’attività strettamente politica di promozione e organizzazione di comunità di fedeli, uniti non su base etnico-religiosa (com’era il caso del giudaismo), ma sulla fede nel Cristo risorto e nel suo messaggio salvezza; c) la “doppia cittadinanza” caratteristica di queste nuove comunità, che stanno nel mondo, ma non sono del mondo, perché sono tenute insieme dal vincolo sacro della città celeste: “la nostra cittadinanza è però nei cieli, da dove attendiamo anche come salvatore, il Signore Gesù Cristo.”

22. Lealismo e, nello stesso tempo, proselitismo, evangelizzazione. Doppia cittadinanza paolina e agostiniana. Religione con un Papa-Re che potrebbe amministrare e governare potenzialmente la Terra, sia sul versante “spirituale” (rapporto col Sacro) che “temporale” (rapporto col Potere); versanti che non vengono giudicati in contraddizione e/o antagonisti. Oggi le funzioni di Sovrano temporale del Papa sono esercitate all’interno dello Stato Vaticano, ma sappiamo dalla storia italiana ed europea che non sempre è stato così. Comunque, quando non è esercitato in proprio da un Sacerdote-Faraone, da un Papa-Re, ecc. non vengono meno le funzioni di “fondamento” e/o “legittimazione” che, di solito, le religioni svolgono nei confronti del “potere temporale”. Il fondamento del nostro Stato repubblicano è la sovranità popolare, ma quello di Carlo Magno, dopo le sue campagne militari, lo ricavò da Dio, la notte di Natale dell’Ottocento, nel momento in cui il Papa Leone III lo incoronò imperatore. Sulla funzione di “legittimazione” è inutile dire: ancora oggi decine di Capi di Stato fanno la fila per essere ricevuti dal Santo Padre. Per non dire dei nostri onorevoli, teocon o teodem che siano, pronti a genuflettersi per ricevere la benedizione e far valere norme e dottrine cattoliche contro gli infedeli nei palazzi del potere, nelle piazze e nei salotti televisivi. Nelle prime pagine del suo libro, Giovanni Filoramo propone un triangolo che vede il Sacro al vertice, in alto; e in basso, da un lato la Religione, dall’altro la Politica. Mi sembra un ottimo modello per comprendere la maggiore o minore intensità delle relazioni reciproche, a quanto pare antropologicamente inevitabili, tra questi tre poli. É indubbio, ad esempio, che la Federazione delle Chiese Evangeliche si rapporti allo Stato e alla Politica con minore invadenza delle chiese cattoliche. Ci sono parrocchie talmente politicizzate da designare il candidato sindaco di una città. D’altra parte il vescovo capo della CEI – prima Ruini, felice di essere definito durante un dibattito “abile politico”, ora Bagnasco – viene intervistato dai giornali come se fosse il segretario di un partito. Ho sotto gli occhi il Corriere della Sera del 18 ottobre 2009, con il titolo gridato in prima pagina dell’ultima intervista ad Angelo Bagnasco: «Lo scontro danneggia l’Italia» «Liti alimentate ad arte, ora coesione nazionale». Vado a pagina 5 e leggo. Poi rileggo. Sarà che io non capisca cosa sia “spirituale” e cosa non lo sia (eppure qualche poesia mi capita di scriverla!); ma a lettura ultimata la mia insoddisfazione è totale. Il cardinale non mi ha aperto nessuna finestra spirituale, non mi ha risvegliato nessuna coscienza. Sarà che la mia non è “retta e formata” come la vorrebbe lui!… Sarà che sono preda dell’individualismo!…Sarà quel che sarà, ma…

23. Viviamo “giorni cattivi”, sostiene Enzo Bianchi nel suo ultimo libro, «Per un’etica condivisa» (Einaudi, 2009). Le fede cristiana non viene proposta con la necessaria mitezza e rispettando gli altri, diversamente credenti e/o non credenti. C’è arroganza e intransigenza in tante associazioni cattoliche, più simili a lobby e a gruppi di pressione che a comunità dello Spirito. L’altro, colui che non ha la coscienza “retta e formata”, è per definizione individualista, solitario e amante di monologhi o soliloqui. Situazione ideale, mi verrebbe voglia di dire, perché soffi nella coscienza il famoso Vento. Invece, no. Costui viene ritenuto incapace di etica; gli viene negato, in modo abbastanza contraddittorio, di essere a “immagine e somiglianza di Dio”, cristiano o non cristiano che sia. Il fondatore e priore della comunità monastica di Bose, si sforza di individuare alcune regole per un dialogo fruttuoso fra credenti e non credenti, gli uni e gli altri in transito in questo mondo diventato un “villaggio globale”. Sforzo encomiabile e per tanti versi condivisibile. Ma quanti cattolici leggono Enzo Bianchi? Quanti di loro sono convinti che «il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato»? Non è convinto sicuramente il Sindaco della città in cui risiedo. E con lui chissà quanti altri. Uomo di parrocchia e cattolico fervente, a luglio, appena eletto, uno dei primi gesti che ha compiuto è stato quello di rimuovere la bandiera della pace dall’aula del Consiglio per esporre, al suo posto, il crocifisso. Perfetto. Ha reso così esplicito il suo rapporto con la Croce. É quello che abbiamo imparato sui libri di storia, quello dell’imperatore Costantino che l’avrebbe fatta mettere sul labaro imperiale per vincere contro Massenzio: In hoc signo vinces. La religione come strumento della politica; così la Croce, da simbolo universale della sofferenza umana e della speranza di resurrezione, viene sbandierata come vessillo di guerra, come segno di appartenenza, ideologia, falsa coscienza di una parte della città che sarebbe attenta alle “radici cristiane” della nostra società contro un’altra che non lo sarebbe. L’esperienza religiosa, quindi, ridotta a strumento della politica, insegna di forza, potere. Pensavamo che il crocifisso avesse ben altro da insegnare: la fede, la grazia, l’Essere che ci trascende da non nominare invano, il cuore di un mondo senza cuore. Un’esperienza, comunque, totalmente altra rispetto alla normale attività di un Consiglio Comunale. “La fede opaca di che vivo / è solo mia” come recitano i versi di un poeta che quando parlava di cristianesimo sapeva di che parlava. Questo lo capiranno mai tutti questi cattolici pronti a trasformare i crocifissi in simboli culturali di una “religione civile”? Ovviamente non ho fatto la guerra al Sindaco sul crocifisso. Nessuno di noi l’ha fatto. Chi come me ama la bandiera della pace, non cade in questa trappola. L’uomo buono, pio, caritatevole, cattolico fedele e ottimo “soldato di Cristo” – questa è l’aurea di cui si ammanta questo Sindaco – non ha desistito, però, dall’appendere al muro il vessillo crociato. Non sono un soldato dell’esercito di Massenzio. Sono un cittadino capace di distinguere la religione dalla politica, gli spazi in cui quella Croce merita doverosamente di stare, da quelli in cui non è opportuno. Non perché offenda la mia vista. Anzi, tutt’altro. Semplicemente perché in questo gesto non c’è mitezza. C’è, invece, arroganza, invadenza. Per me un Sindaco è soltanto un primo cittadino, da giudicare non per quante mani stringe o per quante volte s’inginocchia o si confessa. Non è autorità religiosa, né siede sugli scranni consiliari perché cattolico praticante. É organo responsabile dell’amministrazione di un Comune con chiare e definite competenze. Intendo valutarlo soltanto per come affronterà e cercherà di risolvere i tanti problemi della città in cui vivo. Anche questa è cultura della responsabilità.

20 Ottobre 2009

Su “Delitto e castigo” di Fëodor M. Dostoevskij

di Giorgio Riolo

Questa nota introduttiva a «Delitto e castigo» di Fëodor M. Dostoevskij è un esempio del lavoro di lettura guidata  di opere di narrativa e di poesia, che Giorgio Riolo svolge  in cicli annuali presso la Libera Università Popolare di Milano. Le conferenze e le discussioni non presuppongono nei partecipanti una formazione specifica o specialistica ma il sincero desiderio di  accostarsi al patrimonio letterario dell’umanità. La lettura  dell’opera di volta in volta  affrontata non mira solo  al piacere e al divertimento, ma diventa momento di formazione etica, culturale e politica dei partecipanti. [E. A.] Continua la lettura di Su “Delitto e castigo” di Fëodor M. Dostoevskij

Ma la follia è vita?

di Ennio Abate

Nella nostra silenziosa, poco trattabile follia, vorremmo essere identici a noi stessi, e non riusciamo a capire che nel momento in cui lo diventassimo veramente, noi saremmo morti. Proprio finiti. Senza volerlo sapere, parliamo attraversati da questo lutto, perché siamo anticipati dall’idea che invece essere non identici a noi stessi, essere altro, avere degli spigoli che non controlliamo, in noi o nel simile, sia un male.

(Alberto Zino, Che pesti, ALTRAPAROLA)

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La recita o la vita

di Lorenzo Merlo

“Gli era chiaro come uscire dalla storia” afferma la voce parlante di questo racconto. Oh, fosse possibile dirlo non solo a singoli più o meno eccezionali che, “osservando se stessi”, sperimentano “ciò che alcuni chiamano risveglio”! Ho letto con divertito scetticismo (anche per i riferimenti ad autori – Watzlawick, Jung, Castaneda – che mi sono rimasti abbastanza estranei) questo racconto di Lorenzo Merlo, ma lo propongo all’attenzione di altri lettori più sensibili a quelle che a me paiono soltanto vie di fuga spirituali impraticabili dai milioni di viventi costretti in condizioni di precarietà o schiacciati dalle emergenze (questa del coronavirus è solo una delle tante) o dalla povertà. A loro – lo dico amaramente – toccano purtroppo ben altri risvegli. [E. A.]

Può capitare, osservando se stessi, di avvertire ciò che alcuni chiamano risveglio. La magia che si compie comporta di vedere il reale diverso da come era prima, pur essendo lui, sempre identico. È una magia a più livelli, prospettive o combinazioni. Essa include infatti anche la chiara comprensione che la realtà esce – e non, entra – dai nostri occhi. Include che non ci si senta più monadi separate dall´universo; che l´infinito che siamo è sempre mortificato da quello che crediamo; che l´energia compone il cosmo, tra cui noi stessi. 

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Sulla violenza nella storia

La questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico. All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]

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Ricordando Eugenio Grandinetti

di Giorgio Mannacio

Ho chiesto a varie persone che hanno conosciuto Eugenio Grandinetti un ricordo o una riflessione sulla sua figura o sulla sua poesia. Ecco il primo contributo arrivato. [E. A.]

1.

Ho conosciuto Eugenio Grandinetti, recentemente scomparso attraverso la rivista Poliscritture ma ci siamo visti solo un paio di volte, credo. Nacque tra di noi una simpatia fondata su elementi poco significativi: seppi che era calabrese (come me) e, successivamente, che era cugino di un mio collega di lavoro. Nel contesto della rivista che ho ricordato ebbi modo di leggere alcune sue poesie che suscitarono un certo dibattito intorno all’argomento nichilismo/pessimismo. Ad esso ho partecipato anch’io. Posto che non posso e non devo ostentare una amicizia in senso stretto ma certamente una comunanza di esperienze poetiche e una partecipazione ad una sorte che accomuna tutti noi uomini, ho creduto di ricordarlo intitolando al suo nome le osservazioni sul tema che quella sua esperienza ha suscitato in me.

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Ricordo di Sandro Penna

di Marco Gaetani

1. «Il 21 gennaio 1977 morì a Roma Sandro Penna». Dopo quarant’anni esatti, la sua figura e la sua opera restano l’unico vero hàpax della poesia italiana contemporanea. Un poeta, Penna, radicalmente diverso da tutti gli altri del nostro Novecento, e ciò a prescindere dalla vita ‘irregolare’ e dalle considerazioni critiche che, prendendo atto di un’evidenza, ne escludono il profilo dall’orizzonte in senso stretto modernista. Perché non è poi agevole far rientrare Penna neppure nella linea poetica alternativa – quella che, almeno in certi non proprio aggiornatissimi manuali scolastici, si è soliti intitolare al primo mentore del poeta perugino, Umberto Saba. Continua la lettura di Ricordo di Sandro Penna

Una poesia mostruosa?

Frankesteindi Ennio Abate

Note a margine di alcuni commenti a “Poesie dall’anno zero” di Antonio Sagredo (qui)

La poesia di Sagredo, come quella di tanti altri poeti che compaiono qui su Poliscritture o in genere nel Web, avrebbe bisogno di un certosino e non compiacente lavoro critico. Sarebbe bello smuovere questo poeta dalla sua autoclausura disdegnosa e spesso irritante, che alle legittime richieste di spiegazioni dei suoi lettori si limita a rispondere con altri suoi versi e troppo laconiche affermazioni oracolari, rifiutando di fatto la ricerca più paritaria (in teoria) attraverso il dialogo. Ma Sagredo ha la sua personalità.  Non vuole, come chiedeva affettuosamente Cristiana Fischer collocarsi «in mezzo agli altri, a noi». E allora continuo a interrogare i suoi versi come  so fare. In questo articolo,  accanto al riconoscimento pieno per il loro vigore, ragiono sulla sua poetica che non mi convince. Mi chiedo in sostanza due cose: – sono davvero «mostruose» queste sue ultime prove poetiche? ed è buona cosa proporsi di «costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda».  Ho già espresso in proposito le mie riserve (26 agosto 2015 alle 10:19 ).  Ora l’impegnativo commento di Rita Simonitto (28 agosto 2015 alle 20:29 ) mi offre l’occasione di approfondire il discorso. Vado schematicamente per punti: Continua la lettura di Una poesia mostruosa?

Sulla poesia di Eugenio Grandinetti

marino marini

di Luciano Aguzzi

Pubblico, come anticipato, questo articolato intervento di Luciano Aguzzi sulla poesia di Eugenio Grandinetti. Era stato inviato in un primo momento come semplice commento al post La storia/le storie (qui) ma i temi affrontati (pessimismo, nichilismo, rapporto  tra poesia e prosa,  memoria) meritano tutto il rilievo che un blog di ricerca critica può offrire. [E.A.]

L’amico e collega Eugenio Grandinetti (Belsito, Cosenza, 20 marzo 1931) è sulla breccia letteraria da parecchi decenni e autore di circa quaranta raccolte, solo in minima parte edite. E anche delle edite, solo due sono in commercio, mentre le altre sono edizioni fuori commercio e introvabili. Per darne un giudizio complessivo sarebbe necessaria una lunga riflessione sulla qualità e sulle forme letterarie, sulle tematiche affrontate, sulle ragioni (se esistono, come io credo) della sua prolificità che, con l’età e i molti problemi di salute, non si è attenuata, quasi ad esprimere un desiderio, forse una vera ansia, di dire tutto finché ha tempo, in una condizione in cui il tempo – per lui – sembra ormai identificarsi proprio con lo scrivere e l’esprimersi in versi. Nella sua poesia si avverte la sua concezione naturalistica – materialista – atea e il non credere a qualche tipo di sopravvivenza oltre la morte. Da questa concezione filosofica deriva un tormentato pessimismo che, a differenza del naturalismo ateo e materialistico classico al quale pure Grandinetti si rifà, non trova quiete nella contemplazione della natura e nella considerazione della necessità delle cose e del destino, ma anzi tende a interpretare il ciclo della natura come metafora di un eterno ripetersi senza scopo del mondo e della vita umana. Ripetersi aggravato, non arricchito, dalla consapevolezza (dai desideri, dalle passioni, dalle illusioni) da cui deriva la sofferenza che la natura inconsapevole, almeno, evita. C’è però, implicita e per me evidente, una sensibilità che presuppone il cristianesimo, o almeno la sensibilità religiosa post-classica. Continua la lettura di Sulla poesia di Eugenio Grandinetti

Appunti su «Viaggi» di Eugenio Grandinetti

itaca 1

di Ennio Abate

1.
«Viaggi» è smentita e critica indiretta del viaggiare reale (e dell’ideologia del “nuovo” che al viaggio spesso s’accompagna). L’io poetante che parla in questi versi, infatti, dichiara subito d’essere stato uno scrittore sedentario e offre un bilancio dei viaggi mentali da lui compiuti sul «foglio bianco di carta». Di altri possibili viaggi, non avvenuti e per giunta imprecisati, apparentemente si rammarica. Accampando ragioni alquanto generiche («Ci sarebbero stati altri percorsi,/ ma infermo era il proposito/ e la meta era incerta» (13), che paiono in contrasto con la ragione profonda (e filosofica) della sua scelta sedentaria desumibile dal senso generale della sua stessa poesia. Continua la lettura di Appunti su «Viaggi» di Eugenio Grandinetti