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Una sera di primavera

Anche questo articolo di Velio Abati era comparso sul vecchio sito (2010 – 2013) non più accessibile di Poliscritture. Fu pubblicato sul n. 10 cartaceo del  dicembre 2013. [E. A.]

di Velio Abati

a Giulia, Ilaria e Stefania

Azione in sei scene

Personaggi

Una ragazza giovane
Una donna, la madre
Vittorio
Il dirigente, un capo
Vari giovani, uomini e donne
Anna, che, con chissà quanti altri, meriterebbe di esserci

Scena prima

Interno, pomeriggio, ora indefinita. Un divano anonimo. Di lato, a sinistra, un frigorifero. Non c’è nessuno.

Alla quinta di destra si scorge una finestra. Entra una luce pallida, insieme con il rumore discreto e costante di pioggia. In sottofondo, gorgoglii di rigagnoli.

Per un tempo discretamente lungo, non accade alcunché.

Entra dal fondo una ragazza minuta, i capelli sciolti tenuti in parte da una pinza, in abbigliamento comodo. Cammina e si muove leggera, silenziosissima, sovrappensiero. Indugia, va poi al frigorifero.

Quando apre distratta lo sportello, giunge, registrata, la voce di lei. Legge con il tono di chi ripassa. Pronuncia meditando le parole.

Voce. «O Tosco che per la città del foco

vivo ten vai così parlando onesto».

Il tono, fino a qui sostenuto della declamazione, si abbassa, rallenta, fino a sillabare, a ripetere, come a provare e riprovare le sonorità.

V. «PIaccIaTI DI resTare In quesTo loco

Con diversa intonazione.

V. «piAcciAti di restAre in questO lOcO».

La ragazza scuote dubbiosa la testa. Toglie dal frigorifero una busta di latte. Chiude lo sportello e si erge, cerca intorno con la busta in mano. Alla fine si decide a bere un sorso direttamente dalla busta.

La declamazione riprende spedita.

V. «La tua loquela ti fa manifesto

di quella nobil patria natio

alla quale forse fui troppo molesto.

Subitamente questo suono uscìo…».

S’interrompe come in un inciampo. La ragazza si avvia verso la finestra, sempre tenendo la busta del latte in mano.

Ragazza. Loquela (meditativa, si ferma) eloquio, eloquente (riprende a camminare) loquor, loqueris, locutus sum…

Arrivata alla finestra, si mette ad ascoltare il rumore della pioggia. Guarda fuori dai vetri, senza guardare.

Voce. «Loquela: modo di parlare, parlata ».

La ragazza controlla l’orologio al polso, come chi si accorge di un ritardo. È preoccupata.

Ragazza. S’infradicerà.

Rimane immobile a guardare attenta lo scroscio uguale della pioggia.

La registrazione riprende, come elencando.

V. «Uscìo… Uscìo, venìo, seguìo, patìo…»

La ragazza si avvicina alla quinta opposta, come in ascolto di qualche possibile passo. Poi va a riporre la busta nel frigorifero.

Torna alla finestra. Scruta in basso da una parte, poi dall’altra. Tira fuori dalla tasca un cellulare, inizia a comporre il numero. Interrompe, lo ripone in tasca.

Rag. Si arrabbierebbe, come sempre.

Scruta ancora. Si stizzisce.

Rag. Non sapere mai quando torna (si morde le labbra; il tono si vela di rammarico; si stringe le braccia come in un brivido) è tornato freddo.

La ragazza rimane immobile. Il rumore della pioggia sembra farsi più alto.

Scena seconda

Luce d’interno, piuttosto fioca. Non ci sono finestre. Un brano percussivo degli Stomp a tutto volume riempie la scena. Al centro, una scrivania. Dietro, seduto, un uomo maturo lavora nervoso a un portatile, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un cellulare. Il brano percussivo impedisce di distinguere alcun altro rumore.

Dopo una manciata di secondi, entra da destra la ragazza. La musica tace di colpo. L’uomo, che ha smesso di telefonare, continua a lavorare al computer senza dar segno di accorgersi. La ragazza, vestita in modo sportivo, porta sulle spalle uno zaino. Attraversa l’intera scena e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie e depone in terra lo zaino. Rimane in attesa. La musica riprende identica. L’uomo seguita il suo lavoro.

A un certo punto, si affaccia dal fondo un uomo di mezza età, alto, nelle cui fattezze s’intravede una bellezza ora spenta. Entra incerto, con in mano un cappelletto, un po’ curvo in avanti. Si guarda intorno, fino a che avvista la scrivania. Forse saluta, ma le percussioni impediscono di udire.

Vittorio. Buon giorno.

Fa un cenno discreto con la testa. Ma non accade nulla. Ci riprova, con voce più forte.

Vitt. Buon giorno (alza questa volta la mano) buon giorno, signore.

Dalla scrivania sembra finalmente essersi accorto dell’arrivato. Le percussioni si abbassano di colpo, rimangono un suono di fondo, che malgrado tutto permette la conversazione.

Dirigente. Finalmente! (con aria di rimprovero).

L’uomo in piedi cerca di dire qualcosa, farfuglia, muove la mano con il cappelletto.

L’uomo dietro la scrivania si è già dimenticato di lui. Gesticola, mugugna al cellulare. Poi prende a scartabellare nei fogli. Parla fra sé.

Dir. Vediamo (controlla in un’agenda) sì, alle 11.

L’uomo in piedi, rimasto immobile in attesa, si agita, incerto ne tentativi di domandare e di ascoltare.

Dir. Dunque (prende una penna, sfoglia l’agenda da tavolo fino ad arrivare al giorno; scorre con il dito) alle 11. Colloquio (scrive, sillabando ad alta voce) con Anna e con la sua amica.

L’uomo con il cappelletto in mano è intimorito.

Dir. Guarderò anche queste. Parlerò chiaro. Ascolterò.

Vitt. Signor dirigente…(si trattiene) non volendo ho sentito… (riprende forza) non vorrà mica…

Dir. Vittorio! Mi hanno già detto tutto.

Vitt. Che le hanno detto?(Si agita) Non ho firmato.

Dir. Quindi avevi intenzione addirittura di firmare la richiesta?

Vitt. No! (Alza anche la testa) È una calunnia, un’offesa. (China di nuovo la testa) Lo sa, che oramai ho capito (le percussioni hanno un improvviso balzo di tono) non posso negare che qualcuno…

Ma il crescendo del brano si mangia le parole. La luce si fa livida. Lo si vede sforzarsi, tormenta il suo cappelletto. Cede, ci riprova.

L’uomo dietro la scrivania si alza d’un tratto. Il tono delle percussioni torna accettabile.

Dir. Ricordatelo! (Troneggia dietro la scrivania) Io so sempre, immediatamente tutto (la voce si fa veemente) so che tre di voi hanno preso a incontrarsi. Ma non mi conoscono. Ehi, guardami, pezzo di merda! Non vi darò requie. Vi farò cacare addosso, altro che riunioni, altro che risatine. Guardami, non vi farò dormire la notte!

La ragazza, che era stata per tutto il tempo immobile, prende da terra il suo zaino. La musica cessa di colpo. I due rimangono immobili nella posizione assunta.

La ragazza avanza con lenta attenzione, guarda in faccia prima l’uomo dietro la scrivania poi l’altro. Si mette a una certa distanza dai due, per guardarli insieme. Riflette.

Quindi si porta di nuovo di fronte all’uomo con il cappelletto in mano.

La registrazione scandisce:

Voce. «Io avea già il mio viso nel suo fitto».

La luce, rimasta fioca e livida, diventa rapidamente chiara e intensa, illumina distintamente ogni angolo, fruga nei volti e nei corpi. La ragazza parla con suono alto e limpido. Lo sguardo diretto, il tono di chi non concede sotterfugi: pretende una risposta.

Rag. Com’io al piè della sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,

mi dimandò: – Chi fuor li maggior tui?

Scena terza

Scena uguale alla prima. Luce, rumore di pioggia e posizione della ragazza identici alla chiusura della scena prima. Dopo alcuni secondi d’immobilità, si sente alla quinta di sinistra uno schiaviccìo. La ragazza si scuote, accorre sollevata.

Rag. Finalmente!

Aiuta ad aprire; il rumore di pioggia si rafforza.

Entra una donna di mezza età, un po’ affannata. Ha i capelli bagnati, scrolla un ombrelletto troppo piccolo. È vestita in modo povero, ma non trasandato. Scuote scarpe e piedi, si spazzola con la mano i panni per sgrondare l’acqua.

Madre. Sei stata in pensiero? (sorride, con affetto).

Rag. Questo pomeriggio (premurosa, cerca di aiutarla; le prende l’ombrello, la borsa) ti hanno trattenuto più a lungo.

M. No, anzi, a mezzogiorno il lavoro era già finito (si strizza i capelli, la bacia, attenta a non bagnarla). Il fatto è che le vie erano bloccate.

Rag. L’acqua è alzata di nuovo?

Un lampo illividisce la stanza. Immediatamente dopo, i chiocchi secchi della grandine sbattono sui vetri. Il rumore assale dall’esterno.

Le due donne corrono alla finestra. Fissano fuori.

Ragazza e madre. Appena in tempo!

M. Non era ancora accaduto (deve alzare la voce) ormai è il terzo giorno.

Rimangono sospese alla finestra, impaurite. Dopo qualche folata, il rumore s’attenua di colpo. Riprende a piovere forte e regolare.

M. I sottopassaggi sono diventati laghi (scuote la testa) ho dovuto fermarmi. E per fortuna! Appena sono scesa, mi sono accorta che una macchina s’era incastrata, o fermata, non so. C’era una coppia di anziani. Ho fatto appena in tempo ad aprire la portiera, a trascinarli su.

La ragazza l’ascolta spaventata.

M. Stai tranquilla. Qui siamo al sicuro.

Si toglie il giaccone. La figlia glielo prende, con la borsa e l’ombrello. Li porta dietro la quinta di fondo.

Rimasta sola, si lascia andare sul divano. Per la prima volta, si sente stanca.

Nella stanza c’è solo il rumore della pioggia. Chiude gli occhi e chinando la nuca si raccoglie i capelli con un asciugamano trovato nel divano, ma non è sopraffatta. Appare solo svagata, trasognata.

Anche la ragazza rientra quasi allegra. Si butta a sedere, si accoccola accanto a lei.

Rag. Raccontami (le passa le mani dietro la testa, sorride), devo sapere tutto.

M. Oh (si schernisce, sorride), che vuoi che abbia di allegro o d’interessante una mamma che viene dal lavoro. Tu, piuttosto. Dimmi della scuola.

Rag. Ah, questa è una mossa scorrettissima (ride, di cuore; poi si ricompone in una serietà appena affettata). La solita noia, la solita fatica.

M. Ho capito.

Guarda anche lei da un’altra parte, come pensasse ad altro.

Bada solo ad asciugarsi i capelli. Poi riprende, quasi parlasse solo a sé.

M. Mario oggi non c’era?

Rag. Sono affari miei (asciutta).

M. Come siamo sospettosi (sbircia con la coda dell’occhio). Dicevo così, tanto per dire. (Si gira allegra, le dà un colpetto con la mano) Dai, che domani cambia tutto!

Rag. Sai (è pensierosa) stamattina un gatto nero mi è schizzato proprio davanti, così ho dovuto fare il giro più lungo…

La madre ride di cuore e se l’abbraccia.

Rag. Davvero! E poi, quando la mia amica di banco mi diceva brava, mi sono attaccata al ferro.

Ridono.

M. Tranquilla, il colloquio è confermato.

La ragazza si alza, in uno slancio di gioia. Fa qualche passo di danza, batte le mani.

M. Saremo lì, alle undici esatte (sospira, alleggerita) questi due benedetti posti di lavoro.

Rag. Sono in pensiero per Anna (guarda verso la finestra) perché non è venuta prima, in mattinata?

M. I treni viaggiano regolari.

Guarda davanti a sé. È serena.

M. Mi sono informata bene, le notizie sono certe. Il posto è sicuro. Sono esigenti.

Rag. No, è proprio un aguzzino.

M. Oh (sorride) quale capo non lo è? Ma il nostro lavoro lo sappiamo fare. La fatica, gli orari non ci danno pensiero.

La ragazza corre a stringerla.

Poi si alza, di nuovo allegra.

Rag. In questi giorni penso spesso a quando sarò nella nuova città.

Il rumore della pioggia, subito dopo che la ragazza ha ripreso a parlare, ha cessato di colpo. Si muove leggera, davanti alla madre.

Rag. Penso alle compagne di camera, alle ore che staremo insieme. Io farò i dolcetti che mi hai insegnato. Chiacchiereremo fino a notte fonda, discuteremo di tutto, anche del mondo, anche delle stelle e degli oceani che nessuno ha ancora conosciuto.

La madre, che la guardava incantata, apre le braccia. La ragazza vi corre ridendo.

Scena quarta

Interno. Non ci sono finestre. Al centro, una scrivania, la stessa della scena seconda. La luce è però chiara, come di pieno giorno. Dietro, seduto, un uomo maturo: il medesimo, con gli stessi vestiti. Lavora nervoso, ha in mano una penna stilografica, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un apparecchio telefonico anni Sessanta. Sul davanti, lo stesso uomo della scena seconda, ma giovane. Indossa uno spolverino grigio, capelli e barba neri, incolti. Ha in mano una scopa, da una tasca gli esce un cencio per spolverare, più di lato un secchio con lo spazzolone dentro. Lavora sodo, muovendo ritmicamente la testa e il corpo, come se stesse ascoltando musica rock.

Dirigente. Vittorio! (il tono è aggressivo, lo stesso della seconda scena).

L’uomo non sembra sentire.

Dir. Vittorio! (grida forte, assai irato).

Vittorio.(alza la testa, risponde tranquillo, come se nulla fosse).

Dir. Per l’ultima volta: è vietato ascoltare musica, mentre lavori.

Vitt. Veramente…

Intanto che i due parlano, entra da destra la ragazza vestita in modo sportivo, porta sulle spalle lo zaino. Attraversa l’intera scena, passa tra i due come un fantasma e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie lo zaino, lo depone ai propri piedi. Rimane in attesa.

Dir. Mi pigli per il culo? Perdi tempo, ti dico.

L’uomo con lo spolverino rimane immobile.

Dir. La paga che incassi è moneta sonante!

Vitt. Io penso…

Dir. Tu non devi pensare! Devi lavorare, capito? Questo, devi fare.

L’uomo con lo spolverino prova a parlare.

Dir. Non interrompermi. Fammi parlare. C’è un altro problema. Il lavoro dev’essere finito (scandisce le sillabe) finito, quando arrivo.

Vitt. Il tempo è troppo poco, signore.

Dir. Ma quale poco, ma quale poco (si alza in piedi) tu sei incapace, sei scansafatiche (quasi urla) mangi le nostre ricchezze. Ma se guadagnarti il pane ti fa schifo, ce ne sono altri cento che …

L’uomo con lo spolverino fischia improvviso. Nella quinta di fondo, fino ad allora buia, appare una porta. Si spalanca. Entrano ridendo e urlando ragazzi e ragazze, vestiti con jeans, eskimo, barbe e capelli anni Settanta. Alcuni agitano cartelli in una lingua inesistente. Contemporaneamente s’è levata fragorosa una musica rock. Tutti festeggiano l’uomo, che getta via lo spolverino e la scopa, poi va a prendere il secchio con l’acqua e la scaglia verso la scrivania. Il dirigente rimane in piedi, immobile, come senza vita.

Dopo poco, da vari punti tra gli spettatori, salgono altri giovani.

Voci. È ora, è ora. Liberi tutti. La piazza. Le strade (con gesti e parole ci si rivolge in ogni direzione, alcuni sollecitano gli spettatori) prendiamoci la parola.

I gruppi cominciano a ballare. Brani musicali si accavallano, rock e tarantelle. Si distribuiscono volantini che volano sul palco, sugli spettatori. La scrivania e il dirigente, che è rimasto immobile, vengono completamente nascosti dai gruppi di giovani in scena. Coppie amoreggiano.

La ragazza, che fino ad allora era rimasta a guardare, prende lo zaino per tornare indietro, verso la quinta di destra da dove era entrata. Verso il centro, è afferrata dalla festa. Getta via lo zaino, si toglie il giacchetto. Altri giovani la imitano, si levano panni. Delle ragazze si cambiano in scena, alcune s’indossano gonne lunghe a fiori, altre corte minigonne. Musica, balli e vocio continuano.

Un gruppo si separa e corre verso la quinta di fondo, che questa volta s’illumina completamente. La porta di prima mostra ora d’essere solo una cornice. Oltre, la vista si apre su palazzi, cielo e alberi. La luce è del pieno mezzogiorno.

Un gruppo di giovani si allontana dalla scrivania, che in questo modo diventa di nuovo visibile. È vuota. I giovani, ancora ballando e cantando, inalberano il dirigente. Ma è un pupazzo che ne ha gli abiti e le sembianze. Ridono, scherzano con quell’oggetto, leggero come una palla di gomma piuma. Qualcuno ci balla, altri lo lanciano in alto, sopra la testa, come si fa con i bambini.

Grande è la festa. Più musiche, rock anni sessanta e tarantelle, si mescolano, si rincorrono, s’accavallano, come i gruppi sulla scena. La ragazza, rossa di gioia, si scioglie e si unisce a tutti i gruppi.

Ad un certo punto, alcuni giovani si avvicinano alla scrivania, rimasta vuota e isolata. Nell’euforia cercano di spostarla, di rovesciarla. La ragazza se ne accorge e si avvicina. È di nuovo vestita come quando è entrata. Indossa lo zaino. Rimane in piedi, di lato e sul davanti, ben visibile, con le spalle agli spettatori. Osserva attenta l’azione.

I giovani si sforzano, provano varie manovre, si consigliano, ma la scrivania rimane inamovibile. Chiamano allora gli altri, con la voce che viene soffocata dal tripudio, con i gesti. Inutilmente. Riprovano allora da soli. Coordinano gli sforzi con la voce. La scrivania è come murata.

Intorno, la festa, la musica, gli amori, i balli continuano.

Scena quinta

Interno. Notte, luce fioca. Identico rumore di pioggia. Il medesimo frigorifero di lato. Sul divano, semisdraiata con un plaid sulle ginocchia, la madre. Alle spalle, più distante, sulla destra, è comparso un lettino. Sotto le coperte, la ragazza con un libro.

La madre è sveglia, ma quasi immobile. Sembra ascoltare il rumore uguale della pioggia. La ragazza è inquieta. Si gira, interrompe la lettura, ascolta la pioggia, tende l’orecchio, sospira. Riprende la lettura.

Nella stanza, un rumore affannoso di respiro soffocato sovrasta d’un tratto lo scroscio della pioggia, lo sciacquìo dei rigagnoli. La ragazza si alza di scatto, getta via libro e coperte. Corre al divano.

La madre, che era rimasta tranquilla, l’accoglie sorpresa.

Madre. Perché (sorride) ti sei alzata?

Ragazza. Niente (si passa una mano sulla fronte, per allontanare una ciocca di capelli biondi; prova, anche lei, a sorridere). Non è ancora arrivata? (si guarda intorno).

M. Stai tranquilla, trottolina.

La ragazza, scalza, sente freddo ai piedi. Si stringe addosso il pigiama. La madre se la tira sotto il plaid. L’abbraccia.

Il rumore della pioggia continua regolare, sembra tranquillo. Nient’altro si muove.

M. È solo un ritardo (sorride di nuovo) è normale, con questo tempo.

L’accarezza.

M. L’appuntamento è alle undici. Abbiamo tutto il tempo.

La ragazza continua a stringerla. La madre solleva un braccio in un gesto largo.

M. Ho voglia di cambiare (sorride) quando tu sarai andata a spassartela…

Rag. Mamma, sai che non è così (imbronciata; poi maliziosa) mica mi farai la gelosa, ora?

M. Quando sarai a spassartela, lontano dalla tua mamma, rimasta sola e abbandonata, voglio spendere tutti i soldini che mi guadagnerò con il nuovo lavoro, per far entrare qui dentro aria fresca.

Si alza, sospira sollevata, si guarda intorno. La figlia sorride.

M. Intanto, via quel cassone insopportabile (indica il frigorifero, poi corre alla finestra) qua (guarda la figlia con aria di sfida) – ora che sarai fuori dai piedi, non potrai impedirmelo – una magnifica tenda.

Va muovendo le mani come se ne sentisse la morbidezza.

M. La voglio leggerissima, morbida. A fiori. Sì, teneri fiori di mandorlo e di pesco.

Corre a sinistra.

M. Il portoncino, lo voglio rosso passione!

La figlia ride divertita, forse imbarazzata.

M. Ah, sì! E le pareti (riflette) una carta. Una carta da parati che metta allegria, con i colori della primavera.

S’interrompe. Si ferma.

Si guardano immobili, distanti.

La pioggia cade sempre uguale. Ora non ci sono né tuoni, né lampi. Nessun rumore di macchine, come se la stanza fosse sola al mondo.

La madre si avvicina premurosa alla figlia, che è rimasta silenziosa. L’abbraccia.

M. Ora torna a letto, topino. È davvero tardi.

La ragazza sbadiglia, ma resiste. Poi la madre riesce a farla camminare. Piano, piano l’accompagna di nuovo verso il letto. La ragazza le si appoggia al fianco.

M. Rimango io ad aspettarla. Vedrai, Anna ormai sarà qui tra poco. Dormi tranquilla, che hai bisogno. Domani (sorride, la bacia) sarà per tutte una giornata importante.

Scena sesta

Interno precedente. Luce minima, a indicare il sonno. La ragazza è nel letto, la madre sul divano. Dormono. Il rumore della pioggia è cessato. Il silenzio è completo.

La poca luce artificiale lascia lentamente il posto a quella, più chiara e più alta, che penetra dalla finestra. La ragazza si risveglia. Ha un’aria sonnacchiosa, ma serena. Gode l’albore.

Guarda soddisfatta il soffitto e la luce. Sente con la mano il libro che ha dimenticato sotto le coperte. Lo guarda come chi rammenti.

Rag. È oggi l’appuntamento.

Si alza lieta dal letto. Avanza fino alla finestra nella quinta di destra. La apre. La luce ambrata dell’alba entra più intensa. La ragazza allarga le braccia, sorride.

Rag. Ha smesso.

Respira l’odore dell’alba. Contempla.

Si volta verso l’interno, con la voglia di mangiare. La madre è ancora immobile sul divano. La ragazza scuote la testa con affetto.

Rag. Come i bambini (si rammenta). E Anna?

Si avvicina.

Rag. Anna non è arrivata? (la chiama sottovoce) mamma (la tocca delicata sulla spalla) ti sarai presa freddo. Mamma.

La scuote. Una mano, inerte, scivola giù, distante dal corpo.

Rag. Nooo! (grida piegandosi in ginocchio sul corpo della madre) nooo!

Il grido lungo, acuto della ragazza lacera disperato.

La quinta di fondo scompare. Al suo posto i palazzi, il cielo e gli alberi già visti. La luce è tenue, verde e rosa del primo mattino. L’aria è tersa. La ragazza rimane nella stessa posizione, inginocchiata, immobile. Profondo è il silenzio.

Non accade nulla.

Nell’aria si leva un singhiozzo sommesso. Come una preghiera, lenisce l’immobilità.

A poco, a poco al posto della finestra, appare una splendida, candidissima chioma di mandorlo in fiore.

La ragazza si scuote. Si alza lentamente. Il singhiozzo sfinito continua sommesso.

Si avvicina stupita. Il richiamo dell’usignolo inizia tenue gli avvii lenti e lunghi. Guarda ammirata.

Quasi senza avvertirlo, il singhiozzo si smorza. Il canto si fa più alto, più ricco, nei languori e poi nelle impennate, nei gorgheggi. Il singhiozzo è scomparso. La ragazza ascolta. Riesce a piangere, in silenzio. Mentre si asciuga pacata gli occhi, sorride.

La luce, nella stanza e all’orizzonte, è ora quasi chiara.

Nota al testo

C’è qui la sofferenza per lo sperpero della devastazione di energie e di vite umane consumata intorno a noi, ad opera di altri uomini. C’è anche amarezza per la mia generazione, che tante colpe porta. C’è lo sbigottimento per le scelte di volta in volta da noi insegnanti compiute, quanto incredibilmente ipocrite, meschine e distanti dalle necessità, dalla funzione alta e insostituibile che la società, anche a nostra e sua insaputa, ci assegna.

Vista da questa parte, dal verso del foglio, la poesia, la letteratura ha una misteriosa necessità e insieme una non meno imprevedibile casualità: tutto è determinato, nulla lo è. Si tratta di un tratto per cui essa somiglia davvero, sfrondate le tentazioni imbonitorie del decadentismo, alla vita. Che cosa c’è infatti di più terribilmente ingovernabile della vita, almeno nelle nostre società? Ingovernabile perché imprevedibile; ma ingovernabile anche perché sovradeterminata rispetto alla nostra capacità di scegliere, tanto che più d’uno ha detto alienata la nostra condizione. Per questo, malgrado tutto, resta insopprimibile l’impulso a conseguire una società, un sistema di relazioni di sé con gli altri, con la natura, una vita quotidiana, ove ciascuno possa davvero comprendere e decidere il destino comune, almeno quel tanto umanamente possibile.

Per me – ma forse anche per altri, meglio: forse per l’arte dell’epoca moderna – la scrittura nasce da una impotenza. È un grido di dolore, di rabbia, di speranza malgrado tutto, certo di piacere; e anche di colpa, perché non mi scordo che il tesoro, con cui posso pensare e scrivere queste stesse parole, si regge sull’afasia di moltissimi altri. L’accumulo di cultura non è affatto diverso da quello della ricchezza (non si chiamano entrambi patrimonio?): chi possiede tanto capitale, lo ha solo per averlo sottratto a chi ne è privo. La produzione di ricchezza e di cultura è sempre più collettiva, la loro appropriazione rimane invece privata. So bene che negli ultimi trent’anni è stato fatto di tutto per nascondere l’uno e l’altro punto, come se tutti, più o meno, si fosse ricchi, tutti, più o meno, si fosse colti. Ma vedo che la crisi mondiale in cui il trentennio triste si decompone porta di nuovo a nudo quello strazio, ineliminabile in ogni società classista. Lo fa anzi con tale violenza rinnovata, con siffatta insistenza da fa dire ai più attenti di essere a un passaggio d’epoca. Gli eventi ci chiariranno se e come l’umanità (il 99%, dice Occupy Wall Street) intenderà affrontarlo, diversamente dal secolo scorso. Per me scrivere, nel modo assai ambiguo precipuo dell’arte, è sempre un gesto di condivisione, di denuncia – io non ci sto! -, d’investimento libidico, di scommessa per il futuro.

Fiaba verde con intrigo internazionale

di Annamaria Locatelli

Il vecchio si ferma impietrito appena la vede comparire: una ragazza così bella, così fine, ma dallo sguardo decisamente sprezzante. La conosce soltanto da un mese ed è riuscita a sconvolgere la sua esistenza: deve far leva su tutto il suo sangue freddo per affrontarla. L’uomo in tasca tiene un’arma, ma è solo un giocattolo, una pistola ad acqua per spruzzare i ciclamini d’estate; nel caso la situazione precipitasse, solo allora sarebbe pronto a puntargliela contro. Che stress! Neanche da bambino amava giocare ai soldatini, preferendo unirsi ai giochi tranquilli e fantasiosi della bambine. E ancora molto giovane aveva scelto di occuparsi di fiori e di piante: una vera passione! Così aveva messo in piedi il suo vivaio, la sua serra, il suo giardino! Un paradiso verde dove dimenticare il mondo intero…Ma poi era arrivata lei, quella rompiscatole, in seguito ad una inserzione sul giornale in cui il vecchio, dopo molti ripensamenti, si era deciso ad offrire un lavoro, solo per i mesi estivi, ad un giovane volonteroso e preparato sul mondo delle piante. Si era presentata lei, aveva tutte le credenziali in regola: era iscritta al terzo anno di Botanica presso l’Università di Genova, aveva sostenuto parecchi esami, inoltre era carina e con un volto pulito. Particolare importante: aveva le mani curate, ma prive di smalto. L’aveva assunta. Ma ora, tornando al presente, bisognava dare prova di decisione, ora che aveva avuto modo di aprire bene gli occhi e che il sogno di aver trovato un’aiutante capace si era trasformato in un incubo!..

Il vecchio si arresta davanti alla donna, divaricando le gambe e così rimane per qualche istante senza fiatare e poi urla: “Dove sono spariti i miei gerani? E l’intero sottobosco di rosmarino? E le palme nane? E le azalee? ”.

E lei, di rimando: “Ma cosa sta farneticando? Non ho sottratto proprio niente! Se si riferisce alle fotografie che ho scattato ai suoi beniamini con la mia antiquata macchina fotografica, di mio nonno per la precisione, solo per conservare un ricordo di questa estate, ecco qua il corpo del reato!”. Ed estrae dalla tasca dei jeans un mazzo di fotografie, ficcandoglielo in mano con una certa rabbia, “Qua ci sono anche i negativi. E non mi dica che è un episodio di pirateria botanica: mi facci il piacere, direbbe Totò! Era il caso di convocarmi qui, in cima alla collina, al solleone di mezzogiorno per una fandonia simile? Cosa sarei io? Una ladra di immagini vegetali per conto della CIA? Suvvia, rinsavisca, qui tra un po’ arrostiamo come capponi di natale”.

“Mi passi in fretta quel materiale e non alzi troppo la voce con me, un po’ di rispetto per gli anziani!” “E lei rispetti i giovani: non siamo tutti approfittatori!”. Ma poi guarda l’orologio e, con un tono più conciliante, “A proposito, è l’ora di pranzo e lei, con le sue fantasie, mi ha fatto venire appetito. Che ne dice di andare a mangiare un boccone insieme? Accetterò volentieri il suo invito, anche se ho preso io l’iniziativa”.

“Furba la signorina! Così vuole anche scroccarmi un pranzo: accetto per poter mettere in chiaro alcune cosette con lei, ma da buon genovese paghiamo alla romana”. “Anche tirchio!!”.

La tempesta sembra essere finita in un bicchiere d’acqua e i due si apprestano a ridiscendere il tortuoso sentiero tracciato tra le terrazze, senza incontrare anima viva, muti come pesci di quel mare che da lontano sembra una distesa di verdi brillanti. Sul loro cammino affrontano dapprima una secca radura assolata, poi oliveti ed alberi da frutta, infine un tratto boschivo di lecci, castani, con sottobosco di ginestre, eriche e corbezzoli finché raggiungono le prime case del borgo ligure.

Si siedono immusoniti all’unico tavolino ancora libero della trattoria “Cuore Matto”, dove si può consumare un discreto menù a €10, insomma il più economico della piazza, e nel giardino esterno, sotto a un pergolato di glicine.  Il mare non perde di vista i due “sorvegliati speciali” col suo occhio verde smeraldo!

Arriva la sciura Nana, la proprietaria, e raccoglie gli ordinativi: farfalle al pesto e frittata di verdure per lei che si è convertita alla cucina vegetariana e pasta al pomodoro e platessa per lui. Sono d’accordo su un quartino di vino rosso a testa. La cucina è semplice ma curata.

Arrivati al caffè, lui dà seguito al suo malumore: “E allora si può sapere perché mi ha sottratto fiori e piante? L’ho assunta dopo lunga riflessione perché il lavoro era diventato troppo pesante per me: ho sempre sbrigato tutto da solo, ma ora gli anni si fanno sentire. Recentemente il personale della Cooperativa si interessa di floricoltura e di vendite, così mi dà la possibilità di realizzare il mio progetto di giardino mediterraneo. Cercavo da lei solo collaborazione, perché vuole carpire i miei segreti?” .  “Ma non dica sciocchezze! Riconosco che la sua serra è l’ultimo eden: tutto da lei sembra selvaggio e nello stesso tempo curato, uno straordinario equilibrio tra l’opera della natura e quella dell’uomo! Lei è un autodidatta, dotato di un grande talento naturale e il suo pollice non è verde, é divino!”. “Non si sprechi in complimenti, mi dica piuttosto perché l’ha fatto, se non mi dà una spiegazione, può ritenersi licenziata!”. “La prego non lo pensi nemmeno, con i suoi tiratissimi soldi, intendo pagarmi le tasse universitarie. Guardi che noi giovani abbiamo davanti un futuro molto precario e non possiamo permetterci di perdere un posto, seppur temporaneo, di lavoro! Può forse lamentarsi di come svolgo le mansioni che mi ha affidato?”. “ Non cambi discorso, mi dica delle fotografie!”. “Le ho già spiegato da cosa sono stata motivata: sono rimasta strabiliata davanti al suo giardino, peraltro a tutti sconosciuto, con tanto di cartelli che ne vietano l’accesso; così mi sono “armata” di una macchina fotografica per avere un riscontro oggettivo a quanto vedevo, tutto qui!”.  “Ah, ha dato occhi per un puro desiderio contemplativo! Ed io dovrei credere a tanto candore?”. E intanto alza il tono della voce e gli avventori li guardano incuriositi: una strana coppia quella, potrebbero essere nonno e nipote, ma pensano a tutt’altro; lei si accorge e sottovoce: “La smetta di sclerare, tra un po’ diventiamo lo zimbello pubblico!” e tenta di calmarlo appoggiando la mano sul suo braccio…“ Può fidarsi di me, amo quanto lei fiori e piante e volevo suggerirle di partecipare alla prossima edizione di Euroflora a Genova, otterrebbe degli straordinari riconoscimenti”. “Ma insomma la smetta di adularmi, mi dica la verità o la denuncio!!” .“Così farebbe ridere il mondo intero, andiamo si calmi, le ho consegnato le foto e i negativi ma, alla fine, di cosa ha paura?”. Intanto tra sé pensa che in effetti l’aveva visto spesso trafficare in un angolo della serra, dove anche a lei era stato vietato l’accesso. Non è che vi coltivava la pianta del papavero? Teme di essere scoperto e finge di essere preoccupato per innocue immagini di fiori e di piante? La ragazza si fa sospettosa…Nel frattempo quasi tutti gli avventori sono spariti e a loro non resta che pagare il conto, se non vogliono attirare troppo l’attenzione della locandiera. Fanno per estrarre i portafogli dalle tasche, ma il pover’uomo si ritrova tra le mani la scordata pistola ad acqua; la ragazza la vede: “E’ con quella che voleva minacciarmi? Magari! Una bella spruzzata d’acqua e, col caldo che faceva lassù, almeno mi sarei rinfrescata!”. Scoppia in una fragorosa risata. “Ma che film si era fatto?”. La ragazza non smette più di ridere e quando è il momento di pagare si rende conto che lui, sì lui il delinquente, non dispone di un soldo, visto che continua a frugare nella tasca, sperando forse in qualche passaggio segreto. A quel punto la giovane salda il conto per entrambi. Il vecchio diventa rosso come un peperone. Che figuraccia! “Ma forse – pensa – aveva esagerato a considerare tanto male quella ragazza. Ora l’aveva tolto d’imbarazzo davanti alla sciura Nana e poi bisognava riconoscere che lei, così giovane, con le piante ci sapeva fare! A furia di vivere solo come un orso, come ormai succedeva da anni, da quando la moglie era scomparsa, riconoscendo solo i vegetali come amici, diffidava di tutti…Si sente smascherato e completamente disarmato, così gli vacillano le gambe e ritorna a sedersi. La giovane chiede: “Tutto a posto? Vuole magari un amaro?”. “No, grazie, è solo la pressione che a volte mi gioca brutti scherzi: gli anni, sa! Ma è tutto passato, andiamo! Voglio mostrarle una cosa…”. E i due si incamminano sul sentiero assolato, mentre il mare in fondo al carruggio ha i riflessi verde-abbaglianti di un gioiello Inca. Nessuno dei due ha voglia di parlare: lui riflette sulla sua intera esistenza, lei sul suo incerto futuro, entrambi nutrono la speranza di avere trovato nell’altro un amico. Una volta arrivati alla serra, lui le chiede di attendere un attimo, poi la invita ad entrare proprio in quell’angolo appartato fino ad allora a lei inaccessibile…e là la sorpresa delle sorprese! Si ritrova immersa in un vivaio di magnifiche orchidee dalle forme strabilianti, con occhi e bocche sulle corolle sorridenti. I primi fiori dal volto umano e sprigionanti una misteriosa luce verde…Non si era mai visto!! Lei trattiene le lacrime e lui ride, altrettanto commosso, e racconta dei tanti anni dedicati a raggiungere quel risultato: le sue bambine-fiori erano tutta la sua ragione di vita, la sua famiglia! Ma ora vuole condividerle con lei. La giovane donna esulta di gioia, ma poi, in quanto botanica, vuole sapere ogni particolare della ricerca portata avanti da quello che ormai considera il suo maestro. Per ore ed ore i due si parlano, finché non si fa notte. Quei fiori dovevano essere portati fuori, nel mondo, dove poter recare conforto con il loro sorriso a molte persone sole, malate o semplicemente tristi! La ragazza spera inoltre che un giorno la serra-giardino, ampliandosi, avrebbe dato lavoro a molti altri giovani. Si accordano infine di portare le orchidee al più vicino mercato dei fiori, l’indomani…E’ notte ma il mare scuro da lontano è disseminato di pagliuzze verdi…sarà la luna…sarà un sogno…

Le rondini

 

di Franco Casati

   In quei giorni di primavera sembrava che la sua preoccupazione fosse quella di accertarsi se le rondini erano tornate. Chi lo giudicava un alienato non capiva che ciò rappresentava un punto di vista superiore dal quale guardare, o meglio non guardare, verso terra, verso la banalità della vita. Era come fingere che tutte le sue reali preoccupazioni non esistessero, concentrandosi verso un punto, il ritorno delle rondini, che rappresentasse la sintesi di tutte le sue aspirazioni e desideri: una sintesi universale, legata al ciclo naturale delle stagioni e della natura. Se vogliamo, era un vero tratto di nobiltà, elegante, vitale e distaccato. Continua la lettura di Le rondini

Sine titulo

di Roberto Bugliani

“Sono dialoghi costruiti in modo particolare, di cui che io sappia non conosco esempi in letteratura (a parte testi che vi s’avvicinano come quello di Carlo Coccioli, “Le case del lago”, o alcuni di Manuel Puig e Antonio Lobo Antunes). Sono dialoghi in cui i dialoganti non hanno indicatori semantici (quello che nei dialoghi “normali” indica l’identità e il tipo di “comportamento” dialogici, come “disse a voce bassa X” o “Y rispose con voce alterata”). Quando poi un dialogante interrompe il discorso dell’altro per fretta o per ribattere una cosa contraria, allora la stringa dialogica di chi interrompe ha inizio subito sotto il discorso del primo, con la prima parola in minuscolo e senza punteggiatura finale fino a che le interruzioni non finiscono, come una sorta di gradino o i versi d’una poesia. Graficamente questa disposizione spaziale è importante perché connota semanticamente una situazione. Qualora i dialoganti siano più di due, il dialogo si arricchisce di altre voci, diventa un dialogo plurale, dove nelle interruzioni che aggiungono altre voci valgono le stesse norme del dialogo a due. Le parole straniere, poi, le ho scritte come si pronunciano.” (da una mail di R.B. a E. A.)

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“C’era una volta un Re….”

di Rita Simonitto

Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.

La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”

“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.

Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…

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Il primo allenamento

di Francesco Luti

Dieci sfibranti minuti in sosta al capolinea. Era la prima volta che raggiungeva quella parte di città in bus e non si aspettava che il capolinea fosse proprio lí. Con le arcate del cimitero ad alitargli in faccia, l’attesa era un martirio. E a poco serviva distogliere lo sguardo dalla recinzione in ferro battuto, deviarlo ai germogli secchi che con le piccole pigne di cipresso intappetavano il selciato.

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“La forza di gravità” di Claudio Piersanti

                  Pubblicato nel giugno 2018        

di Angelo Australi                                 

Non si può certo dire che Claudio Piersanti sia uno di quegli scrittori che rimpastando temi di attualità produce un libro a stagione, tra La Forza di gravità ed il suo precedente, Venezia, il filo dell’acqua, sempre edito da Feltrinelli, sono trascorsi ben sei anni. Continua la lettura di “La forza di gravità” di Claudio Piersanti

Poesie e Paroleggiando mestamente

di Rita Simonitto

…Orfeo fu a incominciare…

… e noi s’andava come per mannelle
lasciate o sottratte dalla falce
all’ostrica terra che giù ingoia
nelle viscere profonde i semi
come ha sempre fatto d’ogni cosa
lasciandone polvere su polvere. Continua la lettura di Poesie e Paroleggiando mestamente

Caio va in montagna

caio va in montagna

di Franco Nova

Il povero Caio proveniva da un paese marino, dove da piccolo era rimasto seppellito sotto una montagnola di sale. Ne aveva ingerito tanto che, se il sale fosse montato alla zucca, sarebbe diventato un inventore o un grande pensatore o chissà che cosa. Invece quel minerale aveva preso la via dell’aorta e si era accumulato, pur ivi sciogliendosi, nel ventricolo sinistro del cuore. E questa insana sostanza si trovò così bene in quel luogo che vi si depositò, mai accettando di emigrare facendosi trasportare dalle pulsazioni del ventricolo. Anzi, la notizia che costaggiù (o costassù a seconda della posizione delle altre frattaglie) vi era un solido nucleo salino fece il giro del corpo e attirò in pratica tutte le altre sostanze similari. Il cervello rimase quindi dissalato del tutto e il povero Caio non riusciva mai a pensare; agiva perché i muscoli, compreso quello cerebrale, si muovevano senza difficoltà. Continua la lettura di Caio va in montagna

Con queste mani

medea-minerva

Drammaturgia in versi per voce sola e indignazione molta

di Mariella De Santis

Il testo che segue è stato ispirato da una coraggiosa intervista di Emilio Quadrelli ad Anna (nome di fantasia), apparsa su Alias (nr. 10 anno 5 del 3 febbraio 2007), inserto culturale del quotidiano il Manifesto, allegato al giornale ogni sabato. Dall’articolo riporto quali veri il  rapimento di Anna nel 1996, a 13 anni, per essere portata a lavorare in una fabbrica italiana, i ripetuti stupri e la deportazione in un bordello per militari, paramilitari e civili operanti in Albania dal 1998, la liberazione a mano armata nel 2004 da parte del fratello al comando di una milizia di trafficanti d’armi e la sua condizione di vita al momento dell’intervista.Molto altro di quello che ho scritto mi è stato raccontato da donne immigrate incontrate vivendo…Per questo motivo nel mio testo, la protagonista l’ho chiamata Milena e non Anna. Il resto è da considerarsi mia creazione artistica cosa questa, come sappiamo, non sufficiente ad attribuirle lo statuto di finzione. Questo mio testo è dedicato ai giornali e ai giornalisti indipendenti che molestano le nostra visione delle cose, alle colonne della mia famiglia Lina, Angela e Roberta e alle migliaia di sorelle ignote  che vorrei tutte abbracciare. [M. De S.] Continua la lettura di Con queste mani