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Su sorpresa, ricordo e dolore

di Franco Nova

NESSUNA SORPRESA
 
Si vedono lampi laggiù in fondo,
fanno il paio con le nere ombre
di nemici velenosi muniti di spada
che bloccano l’accesso agli antenati.
La vita che ci fu tanto benigna
va cancellata e dimenticata perché
potremmo risorgere e ritornare con
dura lezione per chi dava dolore
alle persone a noi più care.
Sempre a noi vicine e pronte
a scivolare tra le nostre coltri
con lunghe carezze e canti
la cui gioia mai più risentiremo.
Accadrà una sola volta l’anno
e non perderemo l’incredibile


 
NON CI SARANNO RICORDI
 
Piove a dirotto, tutto è bagnato,
le gocce luccicano immobili e
offuscano i bei ricordi lontani,
mentre i vicini scuotono l’animo
e si fanno beffe della tenerezza.
Timidamente spuntano i cari morti
e ci guastano ogni attesa serenità
sempre pieni di affettuosa tenerezza,
ricordandoci la nostra prossimità.
State lontani, non vi vedremo mai,
siete solo pensieri tanto amari
di ciò che precipiterà nel nulla

 
SEMPRE C’E’ IL DOLORE
 
Volano alti gli aquiloni
assieme ai miei pensieri
mentre luci si vedono lontane
come la felicità che fu.
Nel mio animo alte onde
travolgono il desiderio
di fermarsi ad ammirare
gli alberi sussurranti verità
ormai da sempre ben note.
Andrò incontro all’avvenire
solcato dalle falci di Luna 
che sprigionano l’impulso
di raggiungerle e torcerle.
Nulla di tutto questo avverrà,
saremo catturati dall’amore
per sirene di mala musicalità.
Ci porteranno davanti alla porta
di un orizzonte ben oscuro;
il cervello sarà tramortito e
il dolore non più ricordato,
ma ancor presente e non domo
 



Contro il culto del “Divino Proust”

DA UNA VECCHIA DISCUSSIONE [*] SU POLISCRITTURE
A PROPOSITO DELLA LEZIONE DI PROUST

di Ennio Abate

Dedico questo vecchio pezzo del 2015 – per contrasto – ai fanatici del “Divino Proust” che hanno ammorbato la giornata – ieri 18 novembre – del centenario della sua morte.

So di annoiare tirando in ballo sempre Fortini ( e qualcuno me lo continua a  rimproverare…), ma devo riconoscere onestamente che è ancora da due suoi scritti – «Alla ricerca del tempo perduto» ( in «Ventiquattro voci per un dizionario di lettere», Il saggiatore, Milano 1968); «Il controllo dell’oblio» (in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985) – che ho potuto da una parte riordinare le mie confuse impressioni di “provinciale” della lettura giovanile che feci subito dopo il liceo di quasi tutta la «Ricerca»; e dall’altra cogliere le implicazioni problematiche e attualissime – tra il personale e il politico, tra l’io e l’io-noi – della distinzione tra memoria volontaria («ricordo» dice, consapevolmente semplificando, Fortini) e memoria involontaria.
Cosa poteva ricavare il ventenne provinciale che fui a SA agli inizi dei Sessanta dai volumi della «Ricerca» che comprava man mano che uscivano nella Mondadori economica (quella con la costa in tela rossa)? Suggestioni, solo suggestioni. Quella evocazione era grandiosa e coinvolgente, ma riguardava un mondo borghese-aristocratico per lui inarrivabile e ignoto, fatto di personaggi raffinati, spudorati e coltissimi e di modi di sentire e pensare e colloquiare che lo stupivano e forse lo scandalizzavano (data l’educazione cattolica ricevuta).
E però anche un esempio (e forse un modello) di dedizione eroica e caparbia allo scavo nella memoria personale, che incoraggiò una sua predisposizione – allora spontanea e acritica – alla medesima operazione. Perché aveva già avviato per conto suo e in segreto (sotto lo stimolo della passione per la letteratura, ma anche per lo stacco subìto dal mondo paesano dell’infanzia con il trasferimento in città e una scolarizzazione penosa che chiedeva risarcimenti..) una raccolta di ricordi, appunti, esplorazioni riguardanti quel suo pezzo di esperienza campagnola, che, scrivendone, si colorava di mito. E che poi è continuata e continua ma in condizioni diverse, precarie e tra mille interruzioni (di cui tra l’altro nei suoi scritti Fortini spiega le radici materiali e storiche) .
Fortini (nei due brani citati, ma soprattutto nel secondo), mi ha fatto capire meglio la complessità letteraria del lavoro di Proust (il suo legame con «due fonti di tradizione francese: – la prima che va da Montaigne a Laclos, a Bergson,[…]); – la seconda «della memorialistica e saggistica di costume, di Saint-Simon come di tanti autori del Seicento e del Settecento, presente anche nella «Commedia» balzacchiana») e il suo intento “enciclopedico” («”Romanzo annegato in un trattato”, è stato detto: ed infatti allo sforzo continuo di dedurre leggi generali dalle osservazioni particolari si aggiungono innumerevoli paragrafi su argomenti specifici, dall’araldica alla linguistica, dalla recitazione teatrale all’arte militare. Ma soprattutto la “Ricerca” contiene una estetica, una morale e una fenomenologia della conoscenza; per non dire una storia di buona parte della letteratura francese, una somma di giudizi su molti autori stranieri, osservazioni penetranti sull’arte del medioevo gotico, del rinascimento italiano ,della pittura olandese e dell’impressionismo francese. Proust vi ha gettato tutto il suo bagaglio di conoscenze, per farne un “tesoro”, nel senso medievale della parola»).
Ma è sul contrasto tra memoria volontaria e involontaria che Fortini diceva (negli anni Ottanta!) qualcosa degna di discussione, perché misura tutta la distanza nostra da Proust e contestualizza *politicamente* la questione della memoria volontaria e involontaria, riportandola ai nodi irrisolti della nostra esistenza individuale e politica tuttora irrisolti. Riporto perciò un lungo brano dal secondo scritto:

È risaputo che dopo i primi vent’anni del nostro secolo l’opera di Proust propose ai propri lettori una pratica di ascesi, di conoscenza e di redenzione fondata sul recupero di particolari esperienze trascorse. «Le verità che l’intelligenza afferra direttamente nel mondo della piena luce hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quel che la vita ci ha comunicato nostro malgrado in una impressione; che è materiale perché ne siamo stati penetrati per la via dei sensi ma della quale noi possiamo *dégager l’esprit*, liberare, e svolgere, l’essenza spirituale».
Nulla di troppo nuovo, in questa proposta; analoghe discipline sappiamo essere state sempre vigenti in società o gruppi umani di forte vita religiosa; dove si è sempre insegnato come disporsi a ricevere la Grazia o a salire i gradini dell’estasi. La novità era semmai questa: Proust constatava che il recupero salvifico era possibile solo convertendo l’esperienza «richiamata» dalla memoria in un equivalente spirituale che definiva «opera d’arte». Vedremo che questa, a prima vista bizzarra pretesa di trasformare tutti gli uomini in artisti, può aiutare a chiarire alcuni aspetti della nostra realtà contemporanea.
Proust distingue fra una memoria volontaria, che egli tende a vedere come già formulata in pensiero verbale (e che, per semplificare, possiamo chiamare «ricordo») e una involontaria, che ci riporta invece una totalità di esperienze, concentrate in un punto del tempo che è passato e che torna presente. Decostruire le totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone, per crearne un equivalente metaforico: questo ne consente la riappropriazione e in tale riappropriazione è la sola nostra possibile compiutezza umana.
Per quanto questo itinerario si proponesse a tutti in realtà esso opponeva ancora una volta – in analogia con numerose formulazioni elitarie apparse fin dall’alta età del romanticismo tedesco – una capacità di separazione dal volgare «ricordo» che è di tutti, non senza colpire le pretese della storiografia positivista, con la sua sottintesa o esplicita nozione di tempo quale continuità o flusso senza cesure. Ebbene, quel che qui posso enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare, è che il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi della emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo».
Invece di ricordare, si gestiscono episodi di memoria involontana preconsci o subliminali (come li chiamava Joyce; che parlava anche di «epifanìe»). Essi vengono così adibiti ai piccoli cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione, a delizie coatte, a forme degradate di mistica. Brodo di coltura delle nevrosi, consolazioni di melodie private.
Lo sviluppo contemporaneo non si è davvero limitato ad attrezzare un diverso paesaggio (come, un po’ ingenuamente, avevano previsto i futuristi) e neanche a diminuire (come avevano voluto i surrealisti) la distanza fra universo della coscienza e zone del preconscio. Con tutto questo si restava ancora sulla solida, diurna terra; e i «viaggi» delle esperienze erotiche, oniriche o mistiche, con o senza l’aiuto di droghe, avrebbero continuato a essere forniti di biglietto di ritorno. Si era ancora ben lontani da quella giustapposizione schizoide fra universo del «ricordo» (ossia della razionalità e della prestazione) e universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno). O, per meglio dire, tale giustapposizione, sempre presente, non era diventata, come oggi è, costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata.
È quasi inutile rammentare che questo processo – altra volta ebbi a chiamarlo «surrealismo di massa» – ha una sua sorgente nei modo produzione della fabbrica moderna (si vedano e pagine di Braverman) che le successive «generazioni» elettroniche stanno bensì alterando ma forse non diminuendo; anzi aggravando. Non sarà (già non è) più la ripetitività del lavoro al pezzo a indurre lo stato di diminuita lucidità e l’emersione di episodi di memoria involontaria di cui hanno scritto non pochi psicologi della vita di fabbrica; ma semmai la sempre più irrecuperabile distanza tra l’operatore e l’esito degli automatismi, con la scomparsa – al limite – di ogni «materialità» ossia di ogni esperienza sensibile insieme ad ogni vera attività intellettuale.
Ridicolo pensare di sfuggirvi passando dal tempo coatto, iscritto in un fatale «software» (sequenze audiovisive o della pubblicità o dei pubblici trasporti o dell’auto) a quello privato della contemplazione o della meditazione. È proprio quest’ultimo ad essere definitivamente imbevuto dai «tempi» forniti dalla fabbrica, dal mercato e dalle fabbriche di consenso. Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la capacità di attenzione sostenuta? Non paradossalmente, quanto più si rinuncia a «ricordare» ossia a formulare verbalmente la storia che conosciamo, di noi e degli altri, tanto più la congerie dei frammenti memoriali emergenti da esperienze scomparse diventa medium delle nostre giornate, un glutine attraversato da pulsazioni e da soprassalti. Quando ci illudessimo di poterne elaborare un frammento, interrogarlo (come Proust ha fatto) fino in fondo, ci dovremmo accorgere che il tempo di contemplazione di cui si dispone si esaurisce rapidamente, come in certe affollate esposizioni o nei dibattiti televisivi dove, ben presto, «il tempo sta per scadere». Nella cella dove credevamo, attardati seguaci di Teresa di Avila e di Marcel Proust, di poter conversare con le intatte vergini della memoria profonda o involontaria, appaiono invece le oscene meretrici mondane che ossessionarono gli antichi monaci penitenti. E la maggioranza dei nostri pari ci grida che va bene così. Per di più, tutto questo, oggi e nel nostro paese, appare non come un processo in corso ma come alcunché di stabile e di solido e di cui ormai nessuno più si accorge. Questa è la «modernizzazione», lungo più di un secolo auspicata da intellettuali e politici. Penso all’ultimo Vittorini, ai suoi scritti sulle *Due tensioni,* di recente ristampati; e a come si fosse sbagliato. Penso ai politici, all’arco amplissimo che va dagli uomini della destra tecnologica e laica a quelli della sinistra operaista: oggi sposi.
Quei desideri sono adempiuti. L’Italia è un paese «moderno» con qualche trascurabile ritardo. Se fra il grado di informazione dei gruppi dirigenti e quello delle masse dirette ci sono ancora delle «discrasìe», come non senza eleganza ha detto giorni fa uno specialista in «ricordi» cioè uno storico (Paolo Spriano), discorrendo delle vicende del suo partito; se cioè i meno hanno sistematicamente mentito ai più per vent’anni, nulla di male; un po’ di pazienza e il progresso (o un congresso) metterà tutto a posto.
Le conseguenze di tutto questo non però sono state quelle che erano temute dai deprecatori del tecnologismo e dai nostalgici dell’umanesimo; e neanche quelle auspicate dagli apologeti della «rnodernizzazione» che ho sopra nominati. O meglio: si sono avute queste e quelle ma le une e le altre sono state, e di molto, oltrepassate dalle conseguenze della situazione economica e, ancor più, di quella politica. Con brutalità, gli anni del «miracolo» avevano «modernizzata» tanta parte della penisola; quelli della fine del decennio Sessanta avevano, con altretanta brutalità, alterato gli equilibri fra società e ceto politico.
Con l’inflazione, vale a dire con l’impossibilità di risparmio equivalente a impossibilità di «ricordo» e di «previsione», con la disoccupazione e la sottoccupazione e, finalmente, con la liquidazione d’ogni possibile prospettiva politica, l’ultimo decennio ha avuto bisogno di produrre una gran e quantità di tranquillanti e di analgesici che abbassassero la soglia della coscienza; l’oblio omerico, quello che toglie ogni ricordo della patria e ogni nostalgia è diventato un bisogno collettivo. Alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti.
Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora. Di questa permanente produzione di effimeri psichismi in sospensione aveva già profetizzato e forniti esempi la grande letteratura europea fra il 1915 e il 1935. Quel ventennio aveva così anticipa to modi di esistenza che oggi sono cibo e escremento quotidiano di masse enormi. Di qui si può vedere che il presente ragionamento si ricollega al tema delle adolescenze prolungate e del sarcasmo come cultura del nullismo, dunque, della assenza di «ricordo», e quindi di storia, per chi vuole sapere qualcosa del proprio passato e di quello del proprio padre. Il gesto di chi si droga è simbolico di noi tutti, lo sappiamo da un decennio. Chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di servi) vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del «ricordo» cioè della tra dizione è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in definitiva, sto parlando. Su questo tema Simone Weil ha scritto parole indelebili.
So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immagi-aria pienezza della memoria «profonda», di scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Manon si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori. Non si può, come dice il poeta, nutrirsi dei «sogni giocondi d’error». I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione degradata, dell’«estetico».
E quando si è afferrati dall’angoscia di morte, entro di noi non sappiamo trovare se non feticci di figurazioni culturali o frustoli di poesia. Il «ricordo» invece, nella sua definitività narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e degli inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di una temporalità non individuale. Esige il patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto.

( da F. Fortini, «Insistenze» pagg. 133-137)

*La discussione si svolse il 24 ottobre 2015 e si legge per intero qui 

 

Ogni mattino, di grazia, una nemesi…

Nemesi di Ramnunte
copia romana dell’originale statua di culto di Nemesi a Rhamnous, in Attica
Napoli, Museo Archeologico

di Antonio Sagredo

 Amami almeno una volta e soltanto nel ricordo
quando verrai da sola a vedere il mio tramonto in ginocchio,
ma sul trono hai il volto fuso con  un tragico diadema
che per una solitudine regale
vomita nel calice  una gorgiera di detriti e di rubini.

 Dietro una palizzata di macerie le coronarie danzano con la Morte
e già sanguinano in un quadro ancora non finito…
l’ultimo artista del potere ha negli occhi mistici ferro e fuoco
e secolari cecità – e nella sua fogna mistica  menzogne e inganni.

 Le urla dei poeti contro il muro segreto non minacciano il perdono,
né chiedono soltanto mutilati ovunque e impietosi
di restare invano nei sottosuoli
per onorare muti le proprie parole… ma vivi!

 (19 marzo 2022)

La boccetta di Baudelaire

di Donato Salzarulo

Questo testo nasce da un’intensa corrispondenza intrattenuta con l’amico Adelelmo Ruggieri nella primavera del 2005. Da qui alcuni passaggi colloquiali e allusioni a precedenti comunicazioni. La comprensione, però, è assolutamente possibile e non compromessa. Vista la lunghezza devo soltanto fare appello alla pazienza di chi legge. Del resto, i temi in discussione hanno a che vedere col senso della morte, della vita, della poesia, dell’arte, ecc. Insomma, questioni tutt’altro che secondarie.

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Che bello fotografare

di Arnaldo Éderle

Da tempo Arnaldo Éderle aveva scelto Poliscritture come luogo ospitale per i suoi poemetti. E me li ha mandati, sempre più numerosi,  in questi anni che hanno preceduto la sua improvvisa morte. Avevo pattuito con lui che li avrei pubblicati mano mano, distanziati nel tempo. Tre me ne sono rimasti in lista. Questo sulla  fotografia stabilisce un confronto tra immagine e parola e ribadisce, proprio in un’epoca che la sta negando, la fiducia nel primato della parola poetica che « miracolosamente, salva lo spirito/ nella sua eternità». [E. A.]

  Continua la lettura di Che bello fotografare

Discutendo di “Quarto potere” di Orson Welles

(recensione)

(finale)

di Franco Nova

“Quarto potere” (“Citizen Kane”) di Orson Welles è uno dei tre film da me preferiti, assieme a “La corazzata Potemkin” (il capolavoro di Eisenstein, gustosamente definito da Villaggio-Fantozzi “una cagata pazzesca”) e “La grande illusione” di Renoir. Certamente, giudico appena staccati di un’incollatura altre decine e decine di capolavori (del muto come del sonoro, in bianco e nero e a colori), che non elenco per l’impossibilità di ricordarli tutti; nemmeno la metà e ancora meno di così. Continua la lettura di Discutendo di “Quarto potere” di Orson Welles

Mary Ann

caschetto 2

di Arnaldo Ederle

 

Mary Ann

Mary Ann. Che splendido nome!
Quando ti ho vista, prima volta,
non ho saputo che pensare. Il tuo
caschetto! Nero me lo ricordo, Continua la lettura di Mary Ann

L’acqua dei morti

cipresso ombra

di Donato Salzarulo

 

I

Luci della vetrata
che corteggiate l’ombra…

Posso anche immaginarti
flusso d’energia,
aggregato d’atomi
destinato a sciogliersi,
molecole d’acqua ritornanti
in ciclo, azoto, ferro, Continua la lettura di L’acqua dei morti

EUGENIO GRANDINETTI 40 ANNI DI POESIA

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Andrea Marino, Eugenio Grandinetti e Luciano Aguzzi (Foto E. A. 23 set. 2015)

di Luciano Aguzzi

Pubblico l’appassionata e approfondita relazione  sulla poesia  di Eugenio Grandinetti, amico e  spesso ospite del sito di Poliscritture, che Luciano Aguzzi ha  preparato (e solo in parte riferito) per la la serata in suo onore (23 settembre 2015) coordinata da Giuseppe Deiana al Centro Puecher di Milano.[E.A.]

Parlare di un poeta vivente, in sua presenza, da amico e fra amici, potrebbe porre qualche problema imbarazzante. Imbarazzante per l’oratore che non volesse limitarsi a un omaggio all’amico e al poeta, a una esposizione estrinseca e a una valutazione in cui cogliere solo gli aspetti più superficiali e positivi. Che vorrebbe invece cogliere l’occasione per una lettura della poesia più approfondita, nei suoi contenuti anche intimi, perché sempre la poesia ci parla dell’autore, dei suoi pensieri più palesi ma anche dei più riposti e ne mette a nudo l’animo e le sue segrete stanze. Che ne vorrebbe inoltre esaminare anche la qualità letteraria, sia nei suoi momenti più alti, più riusciti, ma anche in quelli più deboli, e cercare di capire, di entrambi, le linee di composizione, le coerenze, i perché. Continua la lettura di EUGENIO GRANDINETTI 40 ANNI DI POESIA