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Le contorsioni di Chiero (4)

di Ennio Abate

Ad Acerno conobbe pure – e poi si scrisse con lui una o due lettere – un simpatico giornalista  che si faceva chiamare Rik. Aveva i capelli rossicci, i baffetti alla Clark Gable e lavorava a Roma nella redazione de Il Vittorioso. Un giornale per ragazzi ben scritto e ben disegnato da gente che stava  dalla parte dei preti e della Democrazia Cristiana.
A Chiero i primi numeri – si era nel 1949 –  glieli avevano venduti in parrocchia e s’era subito appassionato. Nannìne, sempre con la preoccupazione di risparmiare perché in casa solo Mìneche portava lo stipendio,  cercò di frenare quelle piccole ma continue spese. Chiero leggeva, leggeva. Ora voleva farsi comprare un nuovo romanzo esposto nella vetrina della libreria delle suore Paoline – fosse Robin Hood o Ivanhoe.  Ora insisteva per ottenere da Eggidie anche i soldini del suo salvadanaio per correre a comprare i primi libri con la copertina grigia della BUR che cominciavano ad uscire. Di fronte ai rimproveri di Nannìne,  Chiero s’infuriò e strappò i giornali. Poi pianse e strillò  finché chella povera femmene per consolarlo finì  per fargli l’abbonamento a Il Vittorioso. Continua la lettura di Le contorsioni di Chiero (4)

Al posto della “vocazzione”

 Tabea Nineo, R dormiente, disegno 1978

Riordinadiario 28 aprile 1978/2002/2023

 di Ennio Abate

Da giovane l’ho desiderato. Ma i miei pochi tentativi di lavorare professionalmente come scrittore o come artista sono sempre falliti.  E ho accettato senza troppi drammi di fare altri lavori (impiegato, operaio notturnista alla SIP, insegnante) per mantenermi e mantenere la famiglia che mi ero fatto, continuando però sempre – sia pur da isolato –   sia a  scrivere (soprattutto) e, più episodicamente, a disegnare o dipingere. Continua la lettura di Al posto della “vocazzione”

In seminario

Narratorio. Da “A vocazzione”

di Ennio Abate 

E così, finite le elementari, in un tiepido settembre del millenovecentocinquantadue –  l’aria era ancora quella dolce dell’estate –, verso sera,   per Chiero – undici anni – giunse l’ora di mettere alla prova la sua  vocazzione.
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Ronn’Enze Qu

Narratorio. Da “A vocazzione”

di Ennio Abate

Ogni tanto ronn’Enze Qu viene in mezzo a noi ragazzi. Ma per poco tempo. Ha sempre da fare. Va di qua, va di là, riceve gente in sacrestia, dà ordini al sacrestano, scompare per ore. Chiero lo osservò intimidito e sospettoso. Era il primo prete che conosceva. Basso di statura. Robusto. La testa squadrata e volitiva. La barba spesso non rasata per qualche giorno. Con peli corti e fitti. Pure questo notavi? Pure questo. Mìneche si rasava. Così pure Zì Vicienze e i parenti.  Non c’erano maschi con la barba tra quelli che conobbe. E la voce di ronn’Enze Qu? Baritonale, da comandante, priva di affetto,  burbera. Sì, burbera va bene. Anche gli altri adulti  – Mìneche per primo – avevano voci aspre. Lo scuotevano. Appena aprivano bocca e se parlavano di lui sentiva una loro superiorità ostile.  E a volte lo schernivano con inconsapevole cattiveria. Per la sua magrezza (“me pare nu stuzzicarienti”). Per le grandi orecchie (“ecché so chelle e Dumbo!”). Per la timidezza (“sempe attaccate a gunnelle e mammeta!”). Perché silenzioso (“ma nun parle mai?). Continua la lettura di Ronn’Enze Qu

Appunti da dattiloscritto. Seminario arcivescovile di Salerno

Riordinadiario 26 dicembre 1977

di Ennio Abate

I primi pensieri e ricordi che poi svilupperò in A vocazzione in corso di stesura e  pubblicazione qui su Poliscritture. 

accettai come medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/

a decenni di distanza e d’esperienza/ con tremito di nuova/breve sconfitta [1]/ ho fotografato la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/

con quanta imperizia da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi avevano assegnato/ loro/ i filosofi oscuri/ i parenti sfuggiti alla guerra/(e non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia e della morte?)/ sono riusciti nell’impresa educativa/ quel loro linguaggio sta ancora nel nostro linguaggio/ pericolosa permanenza/ e fa disperata la  scommessa nel futuro/ anche se evitasse puerilità e imbecillaggini/

e la vergogna di sfilare nella  parata dei seminaristi teste rasate?/ l’orrore delle pulci nella brandina sconosciuta?/ la prepotenza in  sguardi e gesti di chi  è abituato al comando del capo sala?/ l’esempio intravisto – (ribellati anche tu!) – del fuggitivo riacciuffato? [2]/ il cibo scarso?/ la solitudine in mezzo a sconosciuti?/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ la dipendenza da consapevoli-inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima e inesprimibile allora in parole / compagni (di sventura)/ uno si chiamava Tisi Aldo/

Salerno? manicomio clericale/ capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculo di un sindaco democristiano e del parroco?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò da solo il corpo/ l’intelligenza non poteva/ nessun pensiero allora se non di salernitudine/ manco un figlio di comunista tra i coetanei/ la voglia di amicizia/ claustrofobia/ poche fanciulle/ quali punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi?/ anche fuori dal seminario/ così fortunosamente attraversato e sfuggito dopo quella settimana/ le amicizie erano solo quelle/ le strade  solo quelle/ aggirarsi sentendosi traditori/ fra stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto le loro attese/ loro restavano ancora i potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/ riaccolto come simpatizzante/ ora che era sfuggita la vocazzione/ persa la via più luminosa per addestrati ambiziosi/

non servirono le immagini paesane raccolte  a Barunisse da  piccolo/ (non fummo mai primitivi, però)/ me le avevano già spazzate via/ arrivato a Salerno ero purificato come un impiccato di Villon/ cavia volenterosa per gioie possibili solo in città , in parrocchia e nei dopoguerra/ poche speranze/ scampate ma in esilio [3]/ scampate ma per ribellione delle mie visceri/ (marchiato comunque/ sì, ma ribelle comunque)/

da dove venivo/ veniamo compagni?/ da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso dentro sotto la pelle per noi/ anni passeranno/ studi amicizie letture altre ribellioni impercettibili/ e soltanto per prendere le distanze/ soltanto per poter fotografare/ ancora un po’ la mano tremante/ quella prigione/ non reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC già perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevo le prime illustrazioni a colori degli impressionisti/ conoscevo il primo comunista/ imparavo a cercare nei libri i segni di un mondo più respirabile/ altro che conoscenza libresca!/ per me i libri erano un oggetto di lusso da rubare/ incontravo gente/ carte assorbenti per me/ assorbivano un po’ i miei spurghi d’angoscia/  i miei innamoramenti da Guerrin Meschino [4]/

gente gente gente/ impiegati operai studenti/ incontri che tornano ad essere pochi/ e saltuari/ e difficili/ basterà mai essere fuggito in esilio?/ e quelli che restarono in quel seminario e sono oggi preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto è sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto diverso nel suo corpo/ non basta l’invettiva a trasformarlo/

ora siamo scampati a un seminario rosso [5]/ anche qui appena in tempo e non senza danni/ le carte ancora scompaginate/ l’osservatorio lì in alto/ che doveva permettere una visione unitaria del passato e del mondo/ è più in basso che mai/ ai piedi della montagna/ manco a metà strada/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/

vederci ancora ragazzi/ quasi proletari/ vittime di un’istituzione cattolico borghese/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ la parte più sguarnita dei proletari/ ma basta?

Note


1. Riferimento alla militanza in Avanguardia Operaia (1969-1976).
2. Uno dei ragazzi era scappato dal seminario ed era stato poi ritrovato per le strade di Salerno e riportato tra di noi.
3. Riferimento alla mia “fuga” a Milano nel ’62.
4. Di questa figura della tradizione cavalleresca a me arrivò ragazzo solo il nome e qualche suggestione attraverso la lettura di un fumetto. Non saprei dire  se apparso sui primi numeri usciti nel dopoguerra de Il Vittorioso. Mi aveva colpito un’espressione che il cavaliere rivolgeva al suo cavallo: “la mia salvezza è affidata ai tuoi garretti”.  Che non riuscivo a decifrare ignorando il significato di ‘garretti’. Mi accorgo soltanto oggi che è una corposa opera  scritta intorno al 1410 da Andrea da Barberino. (Wikipedia)
5. Ancora riferimento alla mia militanza in Avanguardia Operaia.

Liceo classico/ O licee classiche

Tabea Nineo, quadro ad olio

capitolo prova da NARRATORIO (” A Vocazzione”)

di Ennio Abate

Continuerò  a pubblicare alcuni dei capitoli che giudico  sufficientemente elaborati  di "A Vocazzione". Questo è nato in dialetto, forma che considero irrinunciabile - spiegherò in altra occasione le ragioni -  per  buona parte della prima sezione del mio Narratorio. Ma per agevolare ai non dialettofoni la lettura del mio salernitano/napoletano (di memoria), ho invertito l'ordine: prima la traduzione in italiano e poi  il capitolo in dialetto.

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Riordinadiario 1975

Tabea Nineo, disegno anni ’80

 Stesura del dicembre 2020

di Ennio Abate

Riapro la cartella 1973-1975.  I fogli sono dattiloscritti. Alcuni sono di carta velina. (Allora si usava ancora per ricavare una o più copie di un  documento dattiloscritto, mettendo tra i fogli la carta carbone[i] Continua la lettura di Riordinadiario 1975

O sindeche Bonocore

DA «SALIERNE» (NARRATORIO)

di Ennio Abate

Sta cosa – ca o sindeche e Salierne abitave addò ncumingiava Via Sichelgaite e ca veneve tutt’e matine a a messe dint’a chiese e sante Ruminiche e ca ere cazz’e cucchiare [1] (cheste aggia pensate roppe, co tiempe…) co parreche, ca se chiamave donn’Enze Quaglie, e ca ere ra Democrazia Cristiane e ca a messe a rumeneche donn’Enze a ncumingiave sule quann’isse ca famiglie arrivave e se metteve dritte o poste suoie, a destre e l’altare maggiore chine e sciuri frische, addò nge steve l’inginocchiatoie e a seggia soia, e ca quanne ronn’Enze arrivava a dì hocchestenimmcorpus meum nuie o vereveme nginucchiate e pensierose, co cuolle nu poche sturte, cumme se metteve pure o prime figlie suoie; o cumme se verene, rint’e quadre, e sante quann’e ricevene na visione; e ca ere sempe o primme a piglià l’ostie ‘mbocca; e ca po, finite a messe, traseva rint’a sacrestie e c’ere sempe gente attuorne a isse – m’è rimaste semp’ impresse.
E chi ere, pe me guaglione, chill’omme ch’ aggia guardate chissà quant’i votte e ca ere accussì rispettate? E na vote, me ricorde, ca ronn’Enze m’aveve pure raccumannate, pecché je teneve quacche insufficienze in latine e greche; e o sindache canusceve e prufessure ro ginnasie e forze nge puteve mette na bona parole; e isse m’aveva chieste e nomme e sti prufessure. Ere une re primme uommene ca facevene politiche ca je aggie cunusciute. Ca allore ie nun sapeve neppure a parole ‘politiche’ che significave. N’ate ca pure a faceve ere ra famiglie e ron Mattee Quarante, addo mammeme n’ge purtave pe fa visite a cummarella soie, zi Adeline. A case e stu ron Mattee viriette una ca ere n’onorevele e ca se chiamave Carle Petrone. Ere senza capille e nge mancave pure o vrazze sinistre. Ie nun ce parlaie maie. E pe tante tiempe aggia penzate ca l’aveve perdute in guerre pe na bombe. Po, ra viecchie, aggia sapute ra nu libre è storie ca ere nu sindacaliste ra Democrazie Cristiane e ca o vrazze l’aveve perse carenne ra nu carre mente jeve a fa na riunione verse Pontecagnane cu i cuntadine, E ie, quann’o vereve ra piccirille, ere sempe ‘mpressionate pecché ra sta maneche ra giacca nun spuntava a mane; e anze me pare ca o piezze vuote ra maniche ere appuntate cu na spille pe nunn’o fa sbatte ann’anze e arrete quanne caminave.
E n’ate ca capiette ca faceve politiche ere nu professore r’educazione fisiche ra scola medie e Piazza Malte, ca in palestre, pe tutta l’ore ra lezzione, n’ge faceve stà tutt’in file, a ripose, e se metteva a parlà e a rire cu n’ata professoresse sempe r’educazione fisiche. Cumme si nui manche nge stesseme; e ca na vote, sott’elezione, nge rette certi cartuscelle co stemme ro Partite Monarchiche ra purtà a casa pe fa vutà o nomme suoie.
R’at’a gente ca allore faceve politiche senteveme sule parlà. Une steve e case ncopp’a Via Pie XI, na palazzine vicine a chell’e zi Vicienze. O chiamavane Fonze a patane. Mie cuggine Antonie riceve ca ere cummuniste. E n’gere pure na canzone ca riceve: *E nunn’è oggie, sarà domane, facimme sindeche Fonz’a patane*. Ie nun l’aggie mai viste. Forse aggie viste o figlie, ca ere e l’età noste e ca canusceve Antonie.
Sempre po fatte ra politiche me ricorde – aveva esse o 1948 – ca mammeme e pateme avevene vutate rint’o seggie ca steve dint’o cortile ro Cunvitte Pascoli. E ca a nuie guagliucielle e Via Sichelgaite quaccune ng’aveve regalate certi pacchetti e carte co stemme ro scude cruciate. E ca, dinte, stevene certi fugliette e carte sapunate pe se lavà e mane. E ca, na rumeneche sempe e chilli tiempi, ment’e ieveme ra zi Vicienze cu mamme e pateme, ie e frateme teneveme mmane sta figurine ca faccie e Garibbarde. Ca però, si a mettive cap’e sotto, veneve a faccia e Baffone ca te guardave cu cattiverie. Ca nui manche sapeveme chi erene sti tizie.
Però capeveme ca e cummuniste mettevene paure chiù e tutte a mamma noste. E nu iuorn ere succiesse nu fatte ca nge mettettee paure pure a nui. Ie e frateme piccirille steveme camminanne tranquille cu mammeme proprie vicine o passaggie a livelle ra ferrovie, e Porta Rotese, ca steve ‘nfront’ a ville ro sindache Bonocore. Nun me ricorde si turnaveme a casa noste o ieveme a truvà quacche parente, ma e botte mammeme s’è ‘nnervorsite, ng’ia acchiappate tutte duei pe mmane; e, currenne, ng’à fatte accuvà rint’o sottopasagge. E pecché? Pecché passava na manifestazione e cummuniste ca cantavene e alluccavane. Pe mamma noste ere cumme si passasser’ e riavuli o ggente ca ere meglie manche verè ‘nfaccie. Continua la lettura di O sindeche Bonocore

Esperimenti sulle mie “poeterie”

Tabea Nineo, Giovane giardiniere 1987

di Ennio Abate

Esperimento 1. Vocazione liceale (1961/82)

 Le vacche del sabato sera/ han ruminato la filosofia/ dell’erba settimanale.// Professore/ e se fossi/ un buon poeta?  [Variante: Professore/ non ho la ragazza!]/ Piscia nell’angolo assieme agli altri.// Che saggezza alla fine della settimana/ nella merda di vacca!

Esperimento 1.1.

Integrazione e rielaborazione dialettale in “Salernitudine”, Ripostes 2003

 A reggine Elisabbette

E venette
pure a regine Elisabbette!
E cavalle
facettere: ih!ih!
E ciuccie
o scutuliarene
ppe salutà
a reggine madinglan!

Ma sabbete assera
e vacche s’erene magnate
a filosofie ra settemane.

Prufessò, prufessò
forse nu picch poete sò?

Figlie mie, si a ffilosofie
cresce mmiezze a merde e vacche
e a poesie e l’allegrie
se trovane mmocca ae ciuccie o e cavalle
je nunn’o saccje.
Cheste è na nuvità.
Addimmannalle
a rreggine Elisabbette!

Curre, primme ca parte!

La regina  Elisabetta

E arrivò [in città]| anche la regina Elisabetta!/ I cavalli| nitrirono.| Gli asini lo agitarono| per salutare| la regina made in England!/ Ma al sabato sera le mucche | avevano già ruminato| la filosofia dell’intera settimana. / Professore, professore| forse sono un po’ poeta? / Figliolo,  se la filosofia | cresce in mezzo al concime di mucca | e la poesia e l’allegria si trovano in bocca  ad asini o cavalli | io non lo so.| Questa è una novità. | Chiedilo  | alla regina Elisabetta! / Corri, prima che parta!

[Nota 1975: Amara presa in giro della mia condizione di studente con desideri repressi]

[Nota dicembre 1983: Animalità contro poesia? No, contro ottusità e violenza del comando sociale. Fragilità del desiderio [che, per avere una conferma, si affida ancora ad autorità pur sapendola ostile]. ‘Piscia’ ha una connotazione offensiva [di repressione del desiderio]. L’equivalenza saggezza=merda di vacca vorrebbe essere gentilmente irriverente.

 

Esperimento 2. Liceo Torquato Tasso (1977)

Sala operatoria/ dove la mia adolescenza/ dubbiosa come lumaca/ se spuntare fuori o no/ in quel solleone idealista/ ossequiò le foglie di fico sulle pudende dei suoi amputatori.// E improvvidamente / trascinò con sé in sala professori/ un padre già sconfitto.// Chiedeva conto delle loro trimestrali decapitazioni / che ancor oggi raccatta/ nel tormento di una ribellione rinviata.

Esperimento 2. 1.

Incauto padre mio/ sconfitto contadino/ che ti trascinasti nell’atrio delle loro sale operatorie/ chiedendo conto delle trimestrali amputazioni/ sulla mia intelligenza adolescente!// Come lumaca in un guscio di timidezza/ esitavo a scoprire le foglie di fico/ che ponevano sulle pudende dei loro stessi eroi.//Spuntare fuori  nel solleone della loro filosofia dello spirito?// Giammai!/ Ossequiarli/ e filar via.

Esperimento 2. 3. 

Da “Unio” (2014) Torniamo a scuola. Anzi è Unio che torna al liceo frequentato da giovane. Accompagna suo padre nella sala dove,  da studente, i professori ricevevano i genitori. E’ più solenne di allora.  Quasi un teatro greco. E ci sono capannelli di persone attorno a qualche professore. Unio saluta con familiarità uno che conosce. Lui e suo padre sono però in ritardo. E il padre continua a camminare piano piano. Unio  ogni poco si giraindietro e l’aspettao. Quello però avanza sempre più impacciato. E, quando raggiunge faticosamente Unio, mostra il volto di un paesano intimidito da un mondo che teme e non conosce. Ora è Unio che si impone di essere padre di suo padre. E quasi lo rimprovera. Come fosse un ragazzino. Avanzano insieme ancora per una decina di passi. Ma in un punto, dove Unio sa che ci vuole cautela nel muoversi, suo padre mette un piede dove non doveva. Sconsolato lo vede che tenta di ripulirsi alla meglio la scarpa sporca di merda. Ma cosa ci fa una merda nei corridoi di un liceo?

 

Esperimento 3. In dialogo tra  vari tempi di E[nnio]

 E 58 – Avevo scritto questi versi: «dentro la tana delle lucertole/ nei rigagnoli/  nei gusci di noci/  sotto le foglie/ in mezzo ai nidi abbandonati / un silenzio c’era / e luce e calore/  che neppure supponevo».
E 2017 – Era un ricordo delle tue esplorazioni  in campagna?
E 58 – Sì, durante le vacanze, io, mio fratello Egidio e i  due cugini coetanei – Guglielmo e Vincenzo – andavamo  spesso in giro per la terra della loro nonna Francesca. In pieno pomeriggio. Non temevamo il caldo di luglio. Qui ho messo assieme le tracce di alcune sensazioni di allora. Mi colpiva il silenzio della campagna. Ne ero meravigliato.
E 2017 – Hai immaginato di seguire una lucertola in uno dei suoi nascondigli? Di scorrere come l’acqua, quando si  toglieva il tappo dalla base della cisterna per farla andare  lungo la traccia  già scavata nel terreno?
E 58 – Non ti so più dire se immaginavo o se e cosa pensavo allora.  Ricordo che una volta – ero solo – feci una gara per capire se ero più veloce io o l’acqua che usciva dalla cisterna. Che arrivò impetuosa e velocissima perché il terreno era in pendio.
E 2017 – Chiudersi in un guscio di noce come  in una cassapanca. Stendersi sotto le foglie come fossero lenzuola. Accoccolarsi dentro un nido senza più le uova. Tuo cugino Guglielmo – il più piccolo – sapeva dove trovarle. E, avvistato il nido, s’arrampicava poi a piedi nudi sui rami dell’albero per prenderle. Nelle fiabe sono state esplorate certe metamorfosi: passaggi  dall’umano al mondo animale o dalle dimensioni a noi abituali a quelle rimpicciolite. Mi viene in mente Alice o Gulliver.
E 58 –   So che sono libri famosi, ma non sono mai stato veramente attratto da questo tipo d’immaginazione.
E 2017 –  Eri  troppo terrestre e realistico? Dimmi, però, perché più tardi hai tradotto quei tuoi versi in dialetto: Ma dint’e lacertele/ miezz’e nire abbandonate/ addo` a luce e o cavere /manch’e  penzavem’e…
E 58 – Non posso rispondere io. Dovresti chiedere a E 90 o a E 92. Sono stati loro che, leggendomi nel loro tempo, hanno aggiunto quegli inserti in dialetto. Io allora scrivevo  solo in italiano. Il dialetto lo usavo oralmente. E con chi  mi parlava in dialetto.

 

Esperimento 4.  Riordinadiario.
Riflessioni sulla composizione del «Reliquario di gioventù»

 20 gennaio 2018 Avevo raccolto questi frammenti poetici giovanili (o “poeterie”, termine usato attorno al ’92, quando partecipai al premio Laura Nobile dell’Università di Siena) sotto il titolo di «Reliquario di gioventù». (Vedi in Samizdat Colognom n. 5). Poi  ho avuto dei dubbi. ‘Reliquario’ rimanda al campo religioso. Non è che «Reliquario di gioventù» verrebbe a dire che sacralizzo la mia gioventù o queste tracce di quel periodo, quei ricordi? Insistendo a rielaborarli (a  svilupparli, datarli, a rintracciare i luoghi o le occasioni a cui si riferiscono), mi sono accorto di entrare in un’esperienza tutta  al presente: quella della scrittura, che di certo per me non ha regole sacre.

Ma perché ritorni spesso su questi scritti di tanti decenni fa? Che nodo irrisolto c’è? E pubblicarli oggi che senso ha (per te o per altri)? Cosa rivela questo desiderio di dire ancora di un passato  a cui quasi nessuno più pensa? O li vuoi narrare a te stesso, che è l’unica cosa gratuita e possibile  a un vecchio?

Da giovane, senza capirci nulla, qualcosa avevi letto di Montale. (E allora di Fortini  manco conoscevi il nome…). Ora, se non avessi  letto quei libri e subìto suggestioni da quei poeti letti nell’antologia di scuola o in quelle (escluse allora dal programma) del primo Novecento che ti avevano prestato all’ultimo anno di liceo, avresti mai scritto  quei ricordi di Barunisse? Chi attorno a te ti suggeriva di scrivere?  E perché scrivere proprio sui pochi ricordi dei primi cinque- dieci anni trascorsi in quel pezzo di campagna?  C’entrava davvero quella prima lettura di Montale o di Govoni o di Palazzeschi? O di più  la lettura di Pavese fatta attorno al 1958? Nel suo discorso che riguardava il mondo contadino ci stavi, anche se non capivi bene i suoi scritti sul mito. (E assaggiasti anche Lorca. Leggesti dei suoi gitani  una sera. Eri solo nella stanza da pranzo con la luce accesa e poco prima di andartene da SA). E perché non scrivevi allora (fine anni Cinquanta, inizi dei  Sessanta) della tua “vocazzione” tutta legata al vissuto, salernitano e parrocchiale, di città provinciale?  E perché di Pavese in quell’anno leggesti quasi tutto? Non solo perché i suoi libri uscivano allora e ti era facile  farteli prestare da un amico commesso di libreria. (Lui te li  prestava di straforo, tu li leggevi e glieli riportavi intatti). No, Pavese toccava temi che in qualche modo erano un po’ nella tua esperienza  fatta daragazo, sia pur brevemente, in campagna.

La poesia allora la cercavi lì. In quei suoi libri  e in quel vissuto che ti aveva dato piacere o oscuro turbamento. Da lì  la spinta  a  scrivere, a fissare in parole, in versi o quasi versi un’esperienza che era libresca, di sensazioni e di sentimento.
E poi eri attaccatissimo a quei luoghi. Pochi mesi prima di  abbandonare SA, facevi ancora lunghe e stordite passeggiate a piedi. Fino a Fratte (al cimitero dov’era sepolto il tuo amico suicida M. B.). O, ogni tanto, in filovia dai tuoi parenti rimasti  a Casalbarone o ad Antessano.  E  perché il Reliquario  l’hai fatto leggere  tardi, molto tardi, proprio  a Michele Ranchetti? A farlo leggere prima a Fortini mai ci pensasti. O avresti esitato. Perché era più saldamente nella dimensione industriale e marxista. Più tardi hai scoperto che  c’era persino qualche sintonia tra il tuo sentire  e quello di Pasolini de «L’usignolo della Chiesa Cattolica».

Esperimento 4. 1. Nota dell’autore da vecchio
(inviata ad un editore per un’eventuale pubblicazione
in cartaceo del «Reliquario di gioventù»)

Delle poeterie, scritte tra il 1958 e il 1963 (dai 17 ai 22 anni) tra Salerno e Milano,  ho scelto quelle che sembrano avere un valore non puramente privato. Le ho suddivise in 8 sezioni tematiche (Campagna, Religio, Madre, Esplorazioni, Ragazze, Morte, Spleen, Visioni) e aggiunto in Appendice tre poesie (Vicoleggio, La ragazza dei preti, Mio padre) già pubblicate in Salernitudine, perché hanno una stretta parentela con queste.

Ho riletto dubbioso tante volte nel corso degli ultimi decenni questi frammenti.  Il loro senso e tessuto linguistico è convulso, allusivo,  scarno e  a volte monco. Vi ritrovo echi – datati – delle letture d’allora: i lirici greci, Pavese, Baudelaire e, nella sezione Visioni,  Lorca. Tuttavia sempre ho resistito  all’impulso di cestinarli. Non solo perché documentano – bello e brutto – il mio apprendistato poetico solitario e  da autodidatta; e,  come punte d’iceberg, mi hanno poi aiutato ad esplorare  il  sommerso, la vicenda complessiva da cui provengono – esito a dire: la storia –  in un narratorio inedito a cui continuo a lavorare. Ma perché vi colgo tracce di una vicenda più collettiva: – un morente paganesimo contadino, percepito nella condizione afasica, sognante, stupefatta e  fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia; – il marchio ambiguo, retrivo e protettivo, di popolari e castigatissime  gioie dell’educazione cattolica, come le ho chiamate poi con sarcasmo e distacco da adulto; – l’oscillazione, nella scoperta della metropoli (Milano), tra  l’atteggiamento di un  flaneur  giovanilmente vorace  e impacciato e quello dello straniero o del migrante predone.
Devo alla generosa attenzione di Michele Ranchetti, tardivamente incontrato e che nel 2003 lesse versi per decenni tenuti nel cassetto, un giudizio  ben centrato: « ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi, maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro, forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla testa».
Sì, il tralcio abbandonato è il Sud. E il vino (le poeterie  o le prime prove o le vanterie poetiche) ha i pregi e i limiti di una coltivazione bruscamente interrotta. Il titolo, Reliquario di gioventù, dice il legame che ho mantenuto con quelle  prime emozioni e scoperte e vuole essere un riconoscimento al lavoro compiuto dal fragile  apprendista che ero: della poesia e di quel «mestiere di vivere», di cui – primo tra le mie letture per passione –  mi parlò in quei lontani anni  Cesare Pavese.