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Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?

Quattro poesie

bar periferia

 

di Roberto Marzano

Il mondo  emotivo e visivo  di cui si nutre la poesia di Roberto Marzano è solo un calco di quello reale dei quartieri popolari dov’è vissuto. E i suoi luoghi appaiono svuotati dall’effervescenza effimera di cui sempre la folla li riempie. I quattro testi che ho scelto danno conto di un’ansia repressa di chi li osserva. Le immagini, esterne e interiori, sono convulse, lampeggianti, rabbiose e rassegnate al contempo. Interlocutori veri qui mancano. E il poeta però testardo insiste a spiegare «la nebbia ai privi di vista / ai tavoli inclinati dei bar di terza fila /dai flipper assordanti di luci fioche».  [E. A.]

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