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L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

di Alessandro Le Goff

I brani qui pubblicati sono tratti da un’accurata e ben documentata tesina di maturità  di Alessandro Le Goff, uno studente svizzero figlio di immigrati (padre francese e  madre italiana). In essa ha trattato vari aspetti dell’emigrazione italiana in Svizzera  dal dopoguerra agli anni ’80 del Novecento: condizioni di vita e di lavoro, la fatica del viaggio, le difficoltà di integrazione, la costrizione delle rigide regole di ingaggio, specie degli stagionali, la condizione di clandestinità in cui erano tenuti i bambini dei lavoratori immigrati. Sono temi ben approfonditi dalla più recente storiaografia sulle migrazioni, ma  è importante vedere come  sono accolti e  rimodulati in un linguaggio chiaro e puntuale da un giovane che se ne serve per chiarire il suo passato familiare e la propria identità in costruzione. E anche i possibili legami (nonché le differenze) con le nuove migrazioni intercontinentali. [E.A.] Continua la lettura di L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

La taverna del portoghese

NOTE DI FINE ESTATE (10)

di Donato Salzarulo

                                                                                               Chiunque voglia far opera di sogno
                                                                                               deve mescolare tutto insieme.

                                                                                                                    Albrecht Dürer

É un box. Quando sulla soglia d’autunno, riprende l’aereo per atterrare a Lisbona e raggiungere Costa de Caparica, al di là del Tago e alle spalle di Cristo Rei, sistema dentro la Ford Fiesta, utilitaria con cui ha fatto nei mesi estivi su e giù e giù e su dal paese nuovo a quello vecchio, e chiude il locale.
«La taverna è aperta!…» annuncia a parenti e amici intorno al tredici giugno, giorno della festa di Sant’Antonio, patrono di Lisbona, di Padova e di Bisaccia.
Con Padova Peppino non ha nulla da spartire, ma a Lisbona e Bisaccia è di casa. Il santo patrono deve, però, festeggiarlo qui, al paese d’origine.
O sant’Antonio a Vesazz o vesazz ‘ncuodd. Tradotto: o trascorri sant’Antonio a Bisaccia o metterai la bisaccia sul collo. En passant: il detto pare abbia origine dal particolare contratto che i salariati bisaccesi facevano coi latifondisti pugliesi. Se non veniva consentito loro di recarsi al paese per la festa del patrono, avrebbero raccolto le scarse masserizie in una bisaccia e sarebbero andati via.
Comunque, ora Peppino non ha più padroni e il detto può onorarlo senza grandi complicazioni.
Così il locale – sei metri e sessanta per tre e novanta – , pensato da chi progettò la stecca di case nuove, dopo il terremoto dell’Ottanta, per custodire e riparare da vento e intemperie una macchina, per la solenne occasione viene aperto e adibito a taverna. Per la precisione: TABERNAE ROMANORUM, come si può leggere sulla bianca tavoletta appesa ad una sorta di trave in legno leggero, installata al soffitto per nascondere i tubi di scarico provenienti dai piani superiori della casa. Accanto alla scritta, a destra sono appese cinque spighe di granturco, a sinistra una damigiana di cinque litri, uno spolverino bianco, un mazzo di rametti di alloro, una falce insieme alle canne con cui i mietitori proteggevano le dita e, infine, un’altra spiga.
Sul soffitto, a questa trave finta succede quella vera, la colonna portante, il cordolo orizzontale in cemento armato, che sostiene le parti superiori dell’abitazione. É una colonna dipinta in blu mare e decorata con facce di mezze lune nascenti e cavallucci marini.
La scritta TABERNAE ROMANORUM prosegue con l’indicazione della data di apertura: A.D. MMIII. Anno del Signore, 2003. Sono già trascorsi sei anni, quindi, dalla data della inaugurazione con relativa cerimonia e inviti personali. Sei stagioni di ordinaria e straordinaria gestione, di accoglienze calorose, con andirivieni di ospiti bisaccesi e non, in arrivo da paesi e città italiane, ma anche stranieri (soprattutto Svizzera e Portogallo). Sei stagioni di fuoco con quotidiana preparazione di pranzi e cene e di realizzazione, per così dire, del sogno di Peppino. Un sogno detto a chiare lettere, raccontato in mille modi, mostrato a tutti gli eventuali ospiti, agli occasionali passanti e agli incontenibili ficcanasi del paese.
Sul retro, sempre in lingua latina, la tavoletta insiste: TABERNA PATRICII ET PLEBEI OPTIMAE LIBAGIONES. Insomma, che sia patrizio o plebeo, alla tavola di Peppino, nella sua taverna, almeno una volta bisogna sedersi. Chi non lo fa, sappia che perde prelibatezze raffinate.
Il portoghese emigrò ancora minorenne in Svizzera. Nato nel 1943, prese il treno per Zurigo, alla fine degli anni Cinquanta. Non ricorda più se accadde nel ’58 o ’59. Di certo v’è che non aveva ancora fatto il soldato, né aveva mai esercitato il diritto-dovere del voto. Atti che allora si potevano compiere soltanto a 21 anni, col raggiungimento della maggiore età. Non avendola raggiunta, per emigrare, ricorda che fu necessaria l’autorizzazione dei genitori con relativa firma. Cosa che non gli fu negata. Il padre era già a Ginevra, la madre andava a zappare terre occupate, in affitto o in proprietà, oppure andava a prestare o a restituire giornate. Peppino allora era figlio unico. Ma come prendersi cura di lui? Con quali risorse?
Alla noia di diciotto mesi trascorsi in una camerata, a saltare dal letto per l’alzabandiera o, magari, subendo gli insulti e le reprimende del solito caporale di giornata, sfuggì ben volentieri. Meglio guadagnarsi da campare che servire una patria soddisfatta di mandare in giro per il mondo milioni e milioni di persone come lui. Al diritto di voto, invece, per quanto gli è stato possibile, non ha mai rinunciato. Anzi, le votazioni a volte potevano costituire l’occasione per un rapido rientro al paese.
La prima volta che lasciò la casa della Cupa e i sedili di piazza Duomo, Peppino arrivò, lo dicevo prima, nei dintorni di Zurigo; ma lavare piatti in una cucina di ristorante non gli andava a genio e si spostò rapidamente a Ginevra, in una macelleria e sotto gli occhi discretamente vigili del boss, come affettuosamente chiama il padre ora morto. Dalla città sede del Palazzo delle Nazioni – per inciso: nei prati circostanti per qualche anno mio padre vi ha pascolato le mucche – a Losanna ci si arriva con mezz’ora di treno. Nell’ottobre del ’64 la sede centrale della macelleria venne chiusa; per non perdere quel lavoro che gli piaceva, il taverniere fu costretto a trasferirsi nella città sorta sulla riva del Lago Lemano. Qui è rimasto per 36 anni: a consumare giovinezza, maturità e tarda maturità. Qui incontrò la prima Candida con cui si sposò, da cui ebbe una figlia e si separò. Qui incontrò anche la seconda Candida, la donna di Lisbona, con cui attualmente vive.
Avendo sempre lavorato nel reparto carni di un grande centro commerciale, ha imparato il mestiere di macellaio alla perfezione e può disquisire con cognizione di causa sui vari tagli di una bestia. Può disossarti un coniglio con tale abilità che non trovi più un ossicino neanche a pagarlo oro. Così bravo, col passar degli anni, la direzione pensò bene di affidargli compiti di responsabilità.
Oltre al macellaio, ha servito nei ristoranti e imparato a cuocere su una vampata i gamberoni flambé. Ha appreso inoltre il segreto per una buona marinatura delle alici e per mettere in tavola un piatto di cozze alla vinaigrette. Insomma, grazie anche alla frequenza di un corso di formazione professionale, è diventato un ottimo cuoco, particolarmente esperto nella cottura del pesce e in molte altre ricette il cui successo è collaudato. Allorché le libagioni dai piatti si trasferiscono nelle bocche degli ospiti, i complimenti al cozinheiro, come lo chiama la compagna lusitana, non si fanno attendere. Io, che non disdegno la buona tavola e non mi faccio mancare un po’ di pinguedine, sono, fin dalla sua apertura, uno degli ospiti d’onore della taverna.
In questi giorni, che come dice il poeta ne ricapitola altri mille, mi siedo spesso a capotavola e gusto le prelibatezze dello chef.
Ma non è di questo che vorrei parlare. Non ho nessuna intenzione di seguire Peppino ai fornelli, mentre intonando Nessun dorma affetta carne o mescola sughi. Ho accennato all’aria di Puccini perché, oltre che macellaio e cuoco, mio cugino è un melomane entusiasta. Il faut savoir, come direbbe lui, che possiede una voce da tenore amatoriale e per un certo periodo ha cantato nella corale italiana di Losanna… Aggiungo che parla, per quanto io ne possa capire, un buon francese e un altrettanto buon portoghese. Non scherziamo, l’irpino è poliglotta.
Tornando alla taverna: è di questo locale che mi piacerebbe raccontare, dell’ambiente in sé, di questo suo palpabile desiderio, realizzato con una certa cura e attenzione. Avere a disposizione una taverna: questo mi è sembrato col tempo il suo vero sogno e il suo grande oggetto d’amore. «Peccato che sia un po’ piccola!…», si rammarica ogni tanto, «Ci fossero stati altri due metri, sarebbe stato un vero carnozet…Eppure qui dentro abbiamo mangiato fino a trenta persone!…»
Alla richiesta di farmi capire cosa sia un carnozet, risponde che Williams, un buon uomo che abitava in una villa e dal quale andava a lavorare extra, ogni volta che terminava l’attività, lo portava in visita a farglielo vedere; ed era una specie di taverna col camino, l’angolo bar, il tavolo lungo, ecc. Il carnozet c’era in tutte le ville. E lui, mentre lo ammirava, sognava di possederne uno.
«Ho capito!…» gli dico e penso che anche al Nord, dalle mie parti, dove Berlusconi ha installato la torre di Mediaset, chi compera o si costruisce una villa o villetta, il primo ambiente che vorrebbe far visitare all’eventuale ospite è la taverna. Anzi, la tavernetta con camino e legna da bruciare, molle e griglie su cui arrostire bistecche, cosce di pollo, salsicce, puntine di maiale o costine di agnello. Non so perché, ma quello di Peppino è un sogno diffuso. Come se il massimo della vita fosse quello di trascorrere ore ed ore su una panchetta o su una sedia a dondolo vicino al camino. Oppure star lì a girare pezzi di carne o pollo allo spiedo.
Mariella, sua unica figlia, è venuto a trovarlo a sant’Antonio; è rimasta contenta della taverna e pare che gli abbia detto: «Vedi, papà, hai realizzato il tuo sogno…»
Devo essere sincero: il fatto un po’ mi sconcerta. Ma non ha senso mettere piedi e becco nei sogni di ognuno di noi.
Poi, sono ancora sincero, ora che il sogno ha preso forma e corpo, mi sembra di poter dire che la taverna di mio cugino è una specie di camera delle meraviglie, una sorta di museo domestico permanente. Oltre che degli artisti, meriterebbe l’attenzione di un antropologo o di un etnografo. Molti mi sembrano gli aspetti culturali da evidenziare. Di cultura materiale e non solo.
Meriterebbe, credo, anche i flash di un ottimo fotografo per poterne ricavare un catalogo alfabetico o tematico dei pezzi presenti. Non si aspetti di avere tra le mani o sotto gli occhi delle rarità. Niente cranio, ulna e tibie della Principessa di Bisaccia, ma non mi appare culturalmente e, starei per dire artisticamente irrilevante, il riprodurre per una cartolina il ceppo nodoso e a uncino di un vitigno o la scultura del pappagallo verde brasiliano, il bianco vaso da notte dei nostri nonni o l’antica lucerna romana.
Una visita alla taverna è consigliata. Insieme alle ottime libagioni, è possibile assicurarsi sguardi freschi e di prima mano sui gusti estetici di un illustre rappresentante dei nostri ceti popolari. In fondo interessa capire cosa sia “bellezza” tanto nelle case di chi sta in alto quanto in quelle di chi sta in basso. Non è escluso che i confini non siano poi così rigidi – culturalmente parlando, non economicamente – e che le contaminazioni siano molte di più di quanto si creda.

L’entrata è quella tipica di un garage. Ma non c’è saracinesca da tirar giù o su. La porta, in vetro e alluminio verniciato di bianco, è ampia e suddivisa in tre parti. All’occasione si può aprire tutta o soltanto nella zona centrale. All’ingresso, in alto, sulla parete esterna, è disegnata una meridiana.
Mettendo naso ed occhi dentro, ci si accorge subito di avere a che fare con un ambiente non di ordinaria amministrazione: a destra, la serie dei mobili tipici di una cucina (lavandino, fornello, piano cottura, frigorifero…) e in fondo l’angolo col camino. E che camino! Più simile ad un forno che ad un normale camino, con l’apertura ai propri piedi. Qui la grande bocca si trova nella zona centrale. Sotto c’è un’altra grande apertura in mattoni rossi, diventata al momento una sorta di ripostiglio. Prima di regalarla ad un amico, all’imbocco c’era anche una cancellata, non ho capito bene se di finestra o di porta. Peppino l’aveva recuperata in qualche casa abbandonata dopo il terremoto. Così come ha recuperato due piccoli rettangoli in ceramica bianca e bordi blu. Antichi numeri civici crollati insieme alle facciate e alle porte.
L’angolo camino o forno non l’ho mai visto acceso. Perciò, non saprei dire nulla sul suo effettivo funzionamento. Il taverniere assicura che funziona alla perfezione ed io mi fido di lui.
L’altra zona che salta subito all’occhio è l’angolo bar, in fondo a sinistra. Una soluzione ingegnosa per offrire agli ospiti il drink prima o dopo il pasto. Ogni taverna che si rispetti ce l’ha e in un pranzo i momenti dell’aperitivo e del digestivo vanno tenuti in debita considerazione.
Mentre s’ingeriscono liquidi alcolici o analcolici, fluiscono parole cerimoniali, tic comportamentali, modalità d’aggancio o di sgancio. Mio cugino, ad esempio, è un patito dell’entrée consumata non a tavola, comodamente seduti, ma nell’andirivieni dei commensali da un punto all’altro del locale.
Tornando alla descrizione della taverna, alla visita guidata a questa sorta di wunderkammer bisaccese, dopo il colpo d’occhi sugli angoli, mi sembra opportuno procedere con alcune osservazioni, spero non banali, ordinate per filoni tematici. Come se in ogni tema fosse possibile leggere o intravedere un volto o un’anima di Peppino. Allora, di seguito, è possibile individuare:

a) Il Peppino figlio di una cultura contadina, verso la quale conserva un particolare amore, attestato dagli attrezzi raccolti e messi in mostra. Entrando, è così possibile ammirare sulla parete sinistra: un’accetta, una zappa, una zappetta, un piantatoio, una forca e una sega da falegname; appesi alla finta trave del soffitto, ci sono, come ho già detto, le spighe di granturco, la falce da mietitore con le canne per proteggere le dita, la damigiana di cinque litri con la protezione in vimini, il mazzo di foglie secche di alloro.
Sulla parete di fondo, la sezione di una botte, tagliata verticalmente, poco più in là del primo cerchio, con la spina ben in mostra, come se girando la vite, fosse possibile spillare vino; due spine attaccate una sull’altra e la sezione di una botticella.
Il fiore all’occhiello della taverna è, lo dicevo poco prima, l’angolo bar, ricavato tra la parete di fondo e quella a sinistra. É un rettangolo di due metri o poco più per un metro, costituito da una tettoia ricoperta di tegole, sistemate ora in un verso ora nell’altro e tenute ferme da pietre. Sotto si trova l’apertura in legno e sotto ancora il muro ricoperto di pietre irregolari miste a qualche conchiglia a pettine. Appese alla tettoia due brocche di terracotta smaltate e decorate, un cicino, ossia un recipiente in terracotta proveniente dall’Alentejo e una fiaschetta. Sul piano di servizio una caraffa di vetro e una bottiglia incastonata in un portabottiglie di ferro.
Ma il portabottiglie più in mostra è quello sulla parete di fondo, a sinistra del camino. Si tratta di un vero e proprio scaffale ricavato da cilindri di terracotta in serie: sei per sette, quarantadue potrebbero essere le bottiglie di vino pregiato dormienti nella fresca cuccia. In realtà diversi cilindri sono vuoti e Peppino preferisce il vino di Montemarano a quello doc. A sinistra di questo scaffale ce n’è un altro, più basso ma simile in tutto.
L’angolo bar, tra il muro e la parete, diventa ripostiglio. Lì dietro il taverniere conserva pacchi di pasta, damigiane piene di vino, bottiglie e via di seguito.
Sullo scaffale portabottiglie si trova il bassorilievo in gesso dorato di una pigna d’uva.

b) Il Peppino innamorato di Roma e dell’Impero Romano. Roma caput mundi, è scritto all’interno di un’ostrica, una delle tante bivalvi esposte sulla sporgenza della parete sinistra della casa e incollate ai muri un po’ dappertutto. “Roma capitale del mondo” non è frase detta così tanto per dire, magari vera un tempo ed oggi soltanto fonte di nostalgie e passatismi. Non scherziamo: per Peppino Roma è la città eterna e resterà eternamente capitale del mondo. Vuoi mettere a confronto Roma con Lisbona o con Losanna?…Neanche a dirlo. La superiorità della culla dell’Impero romano è per lui schiacciante su tutti i piani: dei monumenti, degli edifici, della cultura. L’amore per la storia di Roma, soprattutto della Roma di Cesare e Costantino, è nell’animo di Peppino sviscerato. Non so come si sia acceso e perché, ma è un fatto indiscutibile. Se non bastassero le scritte latine, è sufficiente dare uno sguardo alla taverna per capirlo. Oltre all’antica lucerna già citata, subito all’entrata, alla parete sinistra, sopra un bassorilievo di gesso raffigurante due cavalieri probabilmente ellenici, ecco, ben esposte, due teste dorate di pretoriani col classico elmo e cimiero; e più avanti, ecco la grande planimetria di Roma al tempo di Costantino.
«Colosseo, Fori Imperiali…C’è tutto, non manca nulla…» Continua a dire Peppino.
Io mi limito al gesto affermativo della testa. Evito qualunque discussione. Mio cugino è preparatissimo in storia romana e non vorrei fare la figura di chi, dopo anni e anni di frequenza delle aule scolastiche, prenda solenni cantonate. É vero che sono laureato in pedagogia e la storia romana mi puzza un po’, ma che penserebbe di me mio cugino se sbagliassi l’anno di morte di Cesare Augusto e i piani di attacco delle più importanti battaglie ingaggiate durante la prima, la seconda e la terza guerra punica? Una volta a bruciapelo mi domandò chi era quel tizio che si mise nella botte e si fece rotolare giù da un monte. Biascicai una risposta; per fortuna, corretta.
Sempre sulla parete sinistra, in fondo, subito dopo la gigantesca planimetria, è esposta una ceramica a forma di piatto con le più importanti vedute della Roma odierna. Sopra, invece, una tavoletta bianca con la scritta in pennarello nero: CARPE DIEM QUAM MINUM CREDULA POSTERO. Peppino sa che è tratta da un’ode di Orazio e la sbandiera come una sua possibile filosofia di vita, soprattutto quando porta in tavola, in bella mostra e magnificandone il profumo, piatti di spaghetti alle vongole o di faraona ai funghi porcini. Lo chef preferisce le linguine agli spaghetti, ma Sandro, il fratello nato quando lui stava già per sposarsi, è affezionato ai bastoncini lunghi e sottili inventati dai cinesi. E lui, quando può o gli va a genio, l’accontenta.
Peppino è nato durante la seconda guerra mondiale ed è andato a scuola verosimilmente nei primi anni Cinquanta. Non credo che abbia imparato in aula e sui banchi tutto ciò che sa di storia romana. Anche perché non è andato oltre la licenza elementare. Credo che sia autodidatta e che l’amore un po’ gli venga dal clima culturale dell’epoca fascista.
Sempre all’entrata, sulla parete destra, questa volta è esposto un attestato, firmato B. Mussolini, conferito a suo padre. Recita: Al soldato Solazzo Antonio autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa con gladio romano per le operazioni militari in Africa Orientale. Decreto 27 aprile 1936 XIV.  Sotto la firma del Ministro B. Mussolini, si può leggere, tutta in stampatello, la seguente esortazione: LEVATE IN ALTO, LEGIONARI, LE INSEGNE IL FERRO E I CUORI A SALUTARE DOPO QUINDICI SECOLI LA RIAPPARIZIONE DELL’IMPERO SUI COLLI FATALI DI ROMA.
Prima di prendere il treno alla stazione di Foggia per Zurigo o per Ginevra, probabilmente Peppino avrà vista la medaglia col gladio conferita al boss e avrà letto le frasi altisonanti dell’attestato. Così nel momento in cui, emigrato, ha sentito sul corpo le parole offensive e minacciose o gli sguardi di disprezzo razzista di qualche crucco o di qualche cittadino di Losanna – tutti gli emigrati sono oggetto di queste forme di razzismo come l’Italia di oggi dimostra a menadito – ha provato a difendersi esibendo i propri quarti di nobiltà. «Ignoranti voi non conoscete la nostra storia!… Noi siamo i figli della lupa, i pretoriani dell’Impero Romano alloggiati un tempo in tutta la penisola iberica e anche al di là delle Alpi…Molte vostre città le hanno costruite i nostri padri e se sapete qualcosa dovete ringraziare noi…».  Non so se Peppino abbia mai realmente fatto un discorso simile. Per quanto mi riguarda ho l’impressione di sì e sono anche convinto che da proposizioni così congegnate pensava di ricavare una certa forza. O, per lo meno, cercava di contenere la superiorità di chi offrendoti un lavoro e un letto pensa di poterti rendere schiavo. Questo è una faccia della medaglia. L’altra è il sogno che lo sbandieramento delle insegne imperiali porta con sé.
Una volta gli chiesi, se gli sarebbe piaciuto vivere nell’epoca della Roma dei patrizi e dei plebei, dei Cesari e degli imperatori. Mi rispose di sì. Ovviamente avrebbe voluto essere un patrizio che gusta leccornie sul triclinio e che si fa servire da uno stuolo di belle schiavette. La Roma su cui Peppino fantastica è quella della gloria e, nello stesso tempo, della dissolutezza e della decadenza. Ama la Roma dei principati e quella del Satiricon di Petronio, la forza conquistatrice dell’Impero e il carpe diem di chi sa che su questa terra tutto è provvisorio. Mussolini e persino il nostro ben amato Presidente del Consiglio.

c) Il Peppino esterofilo, amante dell’ordine svizzero ma mai disposto a viverci lì.
In alto sulla tettoia dell’angolo bar sventolano due bandiere: una – è banale persino dirlo – italiana e si trova a sinistra; l’altra, quella svizzera, sventola a destra. Quasi sulla parete di fondo, appeso alla tettoia, un lampione con la croce elvetica comperato il primo agosto, giorno di festa nazionale.
Della Confederazione, il taverniere esalta soprattutto l’ordine: puntualità dei treni, pulizia delle strade (se sbadatamente ti accadesse di buttare un pezzo di carta per terra, troveresti qualche sguardo pronto a fartelo notare), sorveglianza efficace della polizia, ecc.
«Agli svizzeri puoi dire tutto, ma su queste cose sono cento volte più avanti di noi…»
«Perché, allora, non hai mai pensato di comperare una casa a Losanna?…» gli domando io, «Perché non ti sei proposto di risiedere lì?… Perché sempre ‘sto Bisaccia in testa?…»
La risposta è facile da immaginare ed è tutta un’esaltazione di radici come se le persone fossero alberi, invece che nuvole. Le radici poi sono i genitori un tempo anziani ed ora morti, gli zii, i cugini, la tribù famigliare.
Gli emigrati che non hanno attraversato l’oceano vivono o hanno vissuto tutti col pensiero del ritorno: anni ed anni a Losanna, Zurigo, Francoforte sempre con l’attesa di rimettere le valigie nel bagagliaio della macchina o di prendere il treno.
Peppino è uno di quelli che ha fatto doppio e triplo lavoro, che ha comperato, come forma di investimento, un appartamento a Torino. Quando poi ha scoperto che l’amministratore lo fregava e che i soldi dell’affitto non bastavano neanche a pagare le spese condominiali, l’ha rivenduto. Ha comperato in seguito due appartamenti nel paese d’origine della prima Candida, ecc. ecc. Voglio dire che nelle mani del portoghese i franchi sono girati e avrebbe forse potuto acquistare una casa a Losanna. Ma o non ci ha pensato o non faceva parte dei suoi progetti di vita o le case nelle città svizzere hanno costi proibitivi.
Se ci pensa su, sostiene che è stato sfortunato. I soldi, dopo tanto lavoro, sono sfumati ed ora deve contarli con attenzione.
Comunque, Peppino ogni tanto torna a Losanna. Mariella, la figlia, vive lì. 

d) Il Peppino portoghese. Quando si separò dalla prima Candida – un lungo allontanamento cominciato anni prima e trasformatosi nella fase finale in un tormentone giuridico tortuoso e costoso – incontrò la seconda, una simpatica e bella signora proveniente da Lisbona, a sua volta separata e con un figlio.
La incontrò nel centro commerciale dove lui lavorava. Candida era in ferie dalla sorella emigrata (molti portoghesi erano e sono emigrati in Svizzera) e si trovava occasionalmente lì per comperare il formaggio. Si innamorarono, unirono felicemente due solitudini e progettarono un’età della pensione da trascorrere un po’ in Portogallo, un po’ in Irpinia.
Ciò che attualmente sta accadendo.
La taverna è impregnata di quest’aria portoghese, di queste passeggiate oceaniche tra le calette e la banchisa di Costa De Caparica.
C’è, innanzitutto, ben esposto, sulla parete destra, dopo gli stipetti e le mensole della cucina, un brandello di rete da pescatori, un’ampia fascia trapezoidale, ritaglio probabilmente di una paranza a cui sono appesi alcuni galleggianti, quattro grandi bivalvi nere, a pinna, un gasteropodo a spirale (murice forse) e la corazza rosea di un granchio. Zapateira lo chiama Peppino e lo immagino in grembiule da cucina, mentre con coltello e martello taglia zampe, spacca chele e corazza per cavarne polpa da cuocere; mescolata a maionese, whisky ad altri ingredienti che non saprei più elencare, ottiene una salsa davvero squisita.
Vinta la mia iniziale diffidenza (non sopporto la maionese), l’ho assaggiata nel mio primo viaggio in Portogallo e posso testimoniarne la bontà.
A sinistra della rete, verso il camino, sistemate orizzontalmente, due gigantesche bivalvi a pinna. Nella parte a punta sono nere, in quella larga sul grigio-marrone e con una superficie tutt’altro che liscia: aspra e scabra. Una meraviglia, davvero una meraviglia! Un mio racconto mi piacerebbe così.
Bivalvi anche sulla parte alta del camino. Appiccicate all’intonaco due file di datteri di mare, tre di sassolini – di quelli che i bambini si divertono a raccogliere sulle spiagge – e cinque file di conchiglie a pettine.
Bivalvi e sassolini, poi, a metà, lungo tutta la sporgenza della parete sinistra. Non mancano tre o quattro gasteropodi a spirale. É possibile, inoltre, ammirare anche un’ostrica con su scritto CAPARICA, dei santini di Sant’Antonio da Padova, dei ceri sempre del santo e un cero del noto santuario di Fatima.
Ci sono, in aggiunta, due ceramiche a forma di piatto, una più piccola ed un’altra più grande. Ambedue tra il marrone lucido e il senape con su scritto, sulla prima, PAO MILHO, sulla seconda ALGADA CHURRASCÃO. Quest’ultima sembra essere il ricordo-ringraziamento di un ristorante. Me l’ha anche detto, ma non ricordo dove il portoghese ha comprato il piattino con la scritta “pao milho” che forse significa “pane di miglio”. “Algada churrascao”, invece, significa “cantina o taverna di carni grigliate”. Il piatto, decorato con fiorellini bianchi e con una scritta sul fondo, viene dalle parti di Odivela. Peppino lo ricevette in occasione di un pranzo che Manuel, suo cognato, nato il 28 maggio come me, pagò ad un vigile. Gli aveva fatto una multa abbastanza pesante. Gliela tolse e allora per sdebitarsi andarono da Algada Churrascão. Ogni mondo è paese. La corruzione, come dicono gli esponenti del partito delle libertà, c’è dappertutto. Un amico poeta, compagno di scuola, l’altra sera ha detto che c’è persino nei tanti osannati paesi scandinavi. D’accordo, gli ho detto: ma quali livelli raggiunge? Ma lasciamo stare questi discorsi in cui tutte le vacche sono nere.
La scritta sul fondo del piatto coi fiorellini recita: Espero che tenha /Desta boa refeição/Pao os votos da Gerencia / Da Adega Churrascao. Traducendo a occhio e croce: Spero che conservi / di questo buon piatto / il pane con gli auguri dalla Gerenza / Taverna di carni alla brace…
E dopo il piattino con la scritta, ancora conchiglie a pettine o gusci d’ostriche a far da intonaco, insieme a lastre di pietra irregolari, sulla fascia bassa delle pareti: sia a sinistra che sulla zona dell’angolo bar.
Ma i pezzi forti di chiara matrice portoghese sono i due quadri esposti sulla parete sinistra dopo la forca: il primo è un azulejo raffigurante una corrida, il secondo è un’immagine di Sant’Antonio proveniente da Lisbona. Il santo, col suo saio marrone, occupa sei piastrelle quadrate e sulla sua testa ha una lampada votiva.
Altri pezzi interessanti di provenienza portoghese sono due ciotole di sughero dell’Alentejo. Afferrandole per il manico, è possibile attingere acqua da bere da un pozzo.  A sinistra della ciotola più grande, appesa sulla parete di fondo, si trova quella che Peppino chiama una cataplana. Parola inesistente nel vocabolario italiano. Probabilmente è lessico lusitano. Ma non saprei dirlo con certezza. Quando andai in Portogallo, Peppino mi incoraggiò: “Imparare a parlare il portoghese è facile. Parla in dialetto bisaccese e vedrai che ti capiranno!…” Aveva ragione. Sua madre, zia Maria, rigorosamente analfabeta e capace di espressioni verbali unicamente in dialetto, s’intendeva prodigiosamente con la nuora In effetti la menina è molto simile alla nostra menenna, la ciucolatera  è la caffettiera  che anche noi chiamiamo così. Ma, come si sa, parlare una lingua non è soltanto un problema di lessico. Si tratta di impadronirsi di un accento, di un ritmo, di una melodia, di un giro sintattico, che forse è il più difficile da apprendere. Soprattutto se si hanno orecchie resistenti agli altrui idiomi. Evidentemente, la zia non le aveva.
Tornando alla cataplana è una padella di rame con doppio fondo per permettere una buona cottura del pesce.
Anche i due colombi di terracotta sistemati sugli angoli della tettoia provengono da Lisbona, il pappagallo verde scolpito magistralmente nel legno è, invece, brasileiro. Dall’Alentejo arriva, invece, il già menzionato cicino, recipiente di terracotta ad uno o due boccagli a seconda che sia riempito d’acqua o di vino.
Ultima curiosità portoghese è la targa che Peppino ha esposto sullo scaffale del portabottiglie. É quella della sua macchina rossa fiammante con cui venne i primi anni a Bisaccia e che poi ha venduto. Ricordo un viaggio con lui verso Rodi Garganico. Le curve gli davano le vertigini. Sensazione di cui soffre profondamente fino alla paralisi. In Portogallo, andammo al castello di Sintra e lui per passare da un muraglione all’altro si teneva appiccicato al muro. 

e) Il Peppino turista non per caso. Da sempre il taverniere ama viaggiare. Comodamente. In alberghi a tre, quattro e cinque stelle. Ai tempi della prima Candida, la riviera adriatica è stata spesso la sua meta; ma poi ha fatto anche puntate in Francia, in Germania, in Austria, in Grecia, in Sicilia, in Algarve, sulla costiera amalfitana, ecc. Di quest’ultima ha due ostriche-ricordo con su scritto AMALFI e POSITANO.
Sull’asse di legno dell’angolo bar, c’è veramente anche una bella ceramica a piatto con la città di Gerusalemme. Non mi risulta che sia andato, ma è indicativa della sua voglia di girare il mondo, di conoscerlo. Ai viaggi a caso, antepone quelli organizzati. Al nomadismo delle roulotte, preferisce la prenotazione e l’invio della caparra all’hotel che lo ospiterà. É chef, non servitore. E’ responsabile del lavoro, nom de dieu!, non cameriere.
É un cinema essere in sua compagnia al tavolo di un ristorante. Legge e rilegge il libretto del menù. Sceglie con oculatezza. Si fa spiegare. E se la malcapitata, invece, del lombo vuole rifilargli un pezzo delle prime costole, stai sicuro che si alza e protesta energicamente.
Due episodi ricordo. Ambedue accaduti in Portogallo. Il primo in un ristorante di Penacova. Eravamo lì, ospiti di un parente. Per onorarci ci portò in un locale specializzato in ricette a base di lampreda. All’entrata c’erano le vasche in cui questa specie di anguille fluttuavano. Quando ci sedemmo, il mio caro cuginetto fece finta di scegliere, poi disse che preferiva al pesce, la carne. E ordinò la picanha. Mi misi sul chi va là. Perché mai?, pensai, lui esperto in ricette ittiche, perché mai non sceglie questo pesce, che pur agli occhi dei portoghesi è una vera specialità. Trovai la risposta poco dopo, appena mi vidi recapitare al tavolo un piatto annerito dal sugo della lampreda, mentre lui gustava dalle mani di una signorina pezzettini di carne di manzo infilzata in uno spiedo che veniva ogni volta riportata sul fuoco. Per fortuna me la fece assaggiare. Io sono un amante del pesce, ma quella era una vera leccornia.
Il secondo episodio mi è capitato in un ristorante dell’Alentejo. Io stavo consumando del baccalà, piatto nazionale, come si sa, dei portoghesi. Lui ordina della carne di vitello. La signora gli recapita un pezzo non proveniente dalla spalla piuttosto che dalla coscia. Apriti cielo!…Dovetti calmarlo. Non si può sfidare impunemente la sua competenza. Per fortuna, alla fine si calmò e la signora gli chiese scusa e lo baciò sulla guancia.
Ovviamente nella taverna sono esposti tutti gli attrezzi che fanno riferimento a questa sua arte della cucina: da una lunga fila di coltelli, al camino, alle pentole, al passatutto, ecc.
Non so se ho dimenticato qualcosa; ma questi mi sembrano gli angoli e gli oggetti essenziali della taverna del portoghese, un locale di sogno, chiaramente specchio stratificato e prismatico della cultura e della storia di Peppino. Come definirla una taverna così? Come caratterizzarla?
Alcuni giorni fa, mi è capitato di entrare dentro la cantina antica di un vecchio contadino. Ogni oggetto al suo posto, ma tutti oggetti che avevano a che fare con la destinazione e la funzione del locale: dalle damigiane ai tini, dalle bottiglie agli imbuti di varia grandezza, dalle giarle alle botti. Neanche un quadro o una conchiglia a pagarla oro, neanche un santino o un souvenir. Un ordine semplice e una corrispondenza tra bellezza degli oggetti e destinazione che definirei perfetta.
Quando questo legame si sia rotto non saprei dire. Ciò che mi sentirei di sostenere è che tra il noto blob televisivo e la taverna di mio cugino esista una relazione neanche tanto segreta, una connessione esplicita. Il che mi fa propendere per l’ipotesi che l’ordine delle cose sia andato in frantumi insieme al racconto.
Se questo è vero, la taverna del portoghese è qualcosa di più di un sogno realizzato da un emigrato. Forse l’Italia è questa taverna postmoderna, una bellezza babelica e caotica, un insieme di culture esposte fianco a fianco senza dialogare.

Agosto 2009