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Meditazioni fessbucchiane sul disastro

Dalla pagina FB di Tito Truglia

a cura di Samizdat

 

Ennio Abate
Un lamento simile qui:

Stefano G. Azzarà  22giugno ore 8:26
Il M5stelle è politicamente finito - persino prima di ogni previsione possibile - e non esiste uno straccio di sinistra non dico in grado di approfittarne e riempire il vuoto ma nemmeno di riprendersi lo spazio e gli elettori che erano suoi.

Stop lamenti.

Tito Truglia
Ennio io però non pensavo a Luigino. Non ce ne po’ frega dde meno. Anzi in quel caso la divisione potrebbe avere qualche utilità. No la frase l’avevo fatta in riferimento (che non si vedeva) alla giusta indignazione di Cremaschi su Draghi. Cremaschi come tutti noi è appunto fermo sull’indignazione. Cosa ci indigniamo a fare? Fanno quello che vogliono. Ennio prima di tutto unirsi. Poi si vedrà. Se fosse una unità di intelligenze sarebbe meglio. Ma intanto unire i pezzetti. I pezzi non sono buoni? Sono quello che sono. Al momento sono i migliori che abbiamo…

Ennio Abate
Se fai uno spoglio dei post precedenti di Azzarà (anche vecchi), vedrai che il suo “lamento” non riguarda solo “Luigino”. Insiste pure lui, da anni, sul mettere insieme i “cocci” o i “pezzi” (dei comunisti, della sinistra). Per me è una strada bloccata. Ad ogni passo si rischia la nostalgia per miti tramontati e ci si impantana su contraddizioni reali e irrisolte di quella storia (marxismo/anarchismo; Lenin/Stalin, ecc.). Tutti i tentativi fatti (da Rifondazione ai nuovi PCI) si sono dimostrati fallimentari. Con gli epigoni di una storia male elaborata (nei suoi lutti e tragedie) non si fa molta strada. Meglio il silenzio? Sì, a volte penso che un silenzio (attivo, che studi com’è andata, perché è andata così e che cosa si può fare al di fuori dalle solite vecchie polemiche in cui ogni epigono lucida il suo pezzo di storia “più buono” del tuo) sia meglio della solita chiacchiera, lamentosa appunto.

Tito Truglia
Ennio sì d’accordo, totalmente, che andrebbero ridiscussi alcuni temi forti della “tradizione” così come andrebbe ridiscussi il senso sul presente, le analisi sulle forme attuali del potere, di noi, delle emergenze attuali, delle strutture, ecc. Senza questo lavoro si va di rattoppi. Ma è questo lavoro che sembra impossibile fare a causa delle difficoltà di creatività e di intelligenza sociale (e politica). Il lavoro intellettuale è difficile se non impossibile, la comunanza delle sensibilità pure, figurarsi se si riesce a parlare di comuni interessi. Però bisognerebbe partire. E fare. È penoso dover affrontare il ghigno di Renzi o la prosopopea di Calenda oppure ora anche il draghetto Luigino. Ognuno di loro allo O,O2… Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi. Ma è solo una opinione personale… Saluti!!

Ennio Abate
“Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi.”
Mi permetto di aggiungere: prima nella propria mente e distanziandosi dalla “compagnia malvagia e scempia”.

Appendice

1.
Lanfranco Caminiti
l’idea è questa di qua: non c’è più interconnessione globale dei mercati, quella che – come abbiamo pensato in europa – allontana i conflitti e le guerre. c’è la geopolitica: sovrani o coloni. e la geopolitica è forza. e l’ucraina è solo “un esempio”. una specie di guerra fredda – due mondi – che si è fatta calda assai, ma dove non c’è più la contrapposizione ideologica, ma solo quella di potenze. l’imperialismo – e putin è imperialista – è, come ci spiegava lenin, sostanzialmente: guerra

Maurizio ‘gibo’ Gibertini
Lanfranco, ti risulta che la globalizzazione abbia allontanato conflitti e guerre? O meglio si le ha più o meno allontanate – ti evito la lista no? – a parte Serbia ecc. E poi le ha riportate in Europa con enormi flussi di profughi a cui hanno pensato Polonia Ungheria da una parte e i turcomanni dall’altra. Che un solo mercato dettasse le condizioni per sempre imponendo regole e unità di scambio decise dal più forte era impensabile e l’affermarsi di altre economie forti e globali non poteva portare che a nuove forme e a nuove unità di misura. Guerre intercapitaliste ci sono sempre state e sono cicliche, Qualche popolo ne uscirà massacrato, qualche confine verrà ridefinito, noi continueremo a parlare tanto quello che diciamo non conta un cazzo e alla fine loro ristabiliranno un nuovo equilibrio. Per lo meno evitiamo di schierarci con gli uni o con gli altri perché in questo ‘gioco’ noi siamo solo carne da macello.

2.
Brunello Mantelli
Putin ha poco da offrire: a) le armi atomiche (ma a che servono? Come i cannoni contro le zanzare), b) gas e petrolio (non li ha solo lui); 3) un apparato militare (sgalfetto, si è visto); 4) un vasto repertorio di simboli (da soli non bastano). Se vuole trasformarsi nel braccio militare (una grande compagnia di ventura Wagner) della Cina non è un gran destino (Cina ed India hanno prospettive tra loro non proprio compatibili). MI pare il suo un discorso da canna del gas.

3.
Giuseppe Muraca
Sul piano culturale le migliori cose le ho organizzate da solo, o con pochi amici.Per esperienza diretta se si è più di due o tre si finisce sempre per litigare.

Ennio Abate
Mi spiace ammetterlo ma dolorosamente sono arrivato alla stessa conclusione. E’ però un segno di sconfitta.

4.
Pierluigi Sullo
Mah, io mi sono fatto un’idea che avevo anche cominciato a scrivere. Lo spunto era la mia lettura giovanile di Emilio Sereni sul capitalismo nelle campagne. Dopo la guerra, i comunisti cominciarono a studiare un paese che non conoscevano più, e meno male che c’erano i quaderni di Gramsci. Ma lo studio non era inerte, bensì un’esplorazione minuziosa di ogni possibilità di mettere in movimento le masse dei lavoratori, dei contadini, dell’intellettualità. Oggi noi dovremmo ripartire da zero: sarebbe immaginabile un istituto, un centro di ricerca, altrettanto non inerte, ma staccato dalla politica, nella sua miseria, e utile a capire, a proporre, a immaginare? Temo di no, anche perché molti intellettuali di sinistra sono diventati “pacifisti”, loro sì inerti, alla maniera che Zizek descrive. Chissà.

Brunello Mantelli
Secondo me sì. Un pochino (pochino) ci si sta provando con “Officina Primo Maggio” (vedi anche on line). 

Lanfranco Caminiti
ricordo benissimo lo splendido testo di sereni. credo che, in fondo, tutta la conricerca di alquati davanti la fiat – conoscere sta massa di operai che venivano dalle campagne del sud (panzieri li conosceva bene, li aveva organizzati nelle occupazioni delle terre, poi sconfitte) – si iscrivesse in questo “bisogno di capire” come stava cambiando l’organizzazione del lavoro e il lavoro vivo. non saprei dirti sulla tua proposta – anche sergio bologna ha lavorato molto sul logistico, la distribuzione, i nuovi lavoratori, a esempio. io credo piuttosto che servirebbe una nuova voce politica “a sinistra”: e penso a un soggetto che si faccia carico di costruire una “nuova europa” a partire dai suoi movimenti sociali, da lisbona a vladivostok.

 5.
Nevio Gambula
La sfiducia di un antimilitarista nella realtà della guerra. Questo potrebbe essere la sintesi del mio stato emotivo, sempre più propenso al pessimismo. Malgrado il mio ottimismo di fondo, l’andamento della guerra in Ucraina e l’ipocrisia occidentale mi influenzano più di quanto vorrei – e lo scetticismo avanza inesorabilmente dentro di me.
Riesco sempre meno a riconoscermi nelle parole d’ordine di quest’epoca. Mentre tutti si prostrano dinanzi al militarismo, io continuo a rimanere fedele all’obiettivo del disarmo e della neutralità del mio paese. Ma l’epoca, con la sua narrazione bellica dominante, fa coincidere la pace con il riarmo – e la democrazia con l’alleanza militare.
Io continuo a sognare una società dove sia bandita la guerra. Rifiuto di riconoscere legittimità all’idea che il nostro destino dipenda dall’uso della forza militare. Il mondo è piccolo, abitiamo uno accanto all’altro, condividiamo le stesse paure e le stesse risorse; niente può proteggere o rassicurare quanto la vocazione a sentirsi parte della stessa specie. Perché, invece di tendere le braccia, dovremmo impugnare la clava?
Ho sempre saputo, ovviamente, che nella realtà del capitalismo scorre il sangue della guerra. Tra la pace e la barbarie, l’abisso è profondo – e il ponte che le precedenti generazioni avevano costruito non esiste più. Dunque, l’epoca non può che celebrare la guerra, affermando in modo categorico che il discorso pacifista è impotente, astratto o, peggio, colluso col nemico.
Anacronistico rispetto all’epoca, il pensiero di chi rifiuta la guerra “come soluzione delle controversie internazionali” è considerato utopista, e quindi una visione troppo distante dalla realtà. Ciò è probabilmente vero. E allora, che fare?
Giungono alle mie orecchie le risatine sarcastiche dell’epoca: – Devi guardare in faccia la realtà una volta per tutte; la guerra è il nostro destino. Che fare? Accordarmi all’epoca?
Nel giorno del bombardamento di Bagdad, insieme a milioni di persone nel mondo, e con la forza di chi ha ragione, mi sono lasciato trascinare dalla folla che manifestava contro la guerra. Ho protestato, anche rumorosamente, contro tutte le guerre che sono venute dopo, chiunque fosse l’aggressore. Ho continuato e sviluppato questa critica del militarismo in nome di un’umanità diversa, plurale ed eguale – un’umanità finalmente capace di rinunciare a ogni velleità imperiale. Dimenticare me stesso?
Il capitalismo implica la guerra. Pertanto, l’epoca non può che adagiarsi fedelmente alle sue esigenze. La pace svanisce quando la crisi economica si risolve nello scontro di potenze: prevale «una politica di conquista armata dei mercati».
Ma se nel momento in cui l’epoca smette di essere pacifica abbandoniamo il sogno di un mondo dove ogni popolo «si vede e si dimentica negli altri affinché tutti siano più uniti», che senso ha vivere? Se smettiamo di sognare il disarmo e la neutralità, per cosa possiamo fremere? Per un tank nemico distrutto? Per evocare con naturalezza una catastrofe atomica?