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Geno Pampaloni: «I giorni in fuga»

di  Donato Salzarulo

Amo le letture casuali, selvatiche. Amo i libri che mi ammiccano su una bancarella o addirittura per terra, su un tappeto. Impensati e imprevisti. Come questo Geno Pampaloni, apparso sotto i miei occhi sul lungomare di Pietra Ligure, mentre vado a comprare i giornali in quest’ultimo sabato di febbraio. Sta lì per terra, in compagnia di Luciana Littizzetto. Ma cosa ci fa uno dei più autorevoli critici letterari del Novecento con la simpaticissima Lucianina? Cosa ci fa un morto con una viva?
Due passi avanti, cammina una signora col marito. Vede il libro della Littizzetto e per un euro lo tira su e lo porta via. A mia volta estraggo dalla tasca il borsellino, cerco un euro e porto con me «I giorni in fuga», un Coriandolo Garzanti del 1994, quando c’erano ancora le lire.
Acquisto solo libri che mi risuonano dentro per una qualche ragione. Questo ha un’eco nella mia mente perché so chi è Geno Pampaloni, poi perché i nostri sono tempi in cui la critica letteraria se la passa malissimo e, infine, perché non ho letto il libro.
Ora che ce l’ho tra le mani, comincio subito a sfogliarlo. Continua la lettura di Geno Pampaloni: «I giorni in fuga»

Guerra tra generazioni?

a cura di Ennio Abate

Su FB può ancora capitare che s’incrocino un giovane (o  ex giovane, a suo dire) d’oggi e un vecchio, abitanti entrambi  nella medesima città dell’hinterland  milanese. E, invece, di salutarsi e tirar  per la loro strada,  inizino  qualcosa che sta tra il dialogo spicciolo e il battibecco puntiglioso. Perché ce ne sono di cose non dette, mal dette, maledette alle loro spalle e attorno a loro.  E così  nei loro commenti  rispuntano modi – diversi? contrapposti? inconciliabili? – di vedere la città,  la sua storia, la vita politica locale e l’immagine di un possibile futuro.  Chi ha curiosità provi a leggere. Questo oggi passa per la mente e il cuore di due – un vecchio e un giovane/ex giovane – che vivono mugugnando e insofferenti  a Cologno Monzese. [E. A.]

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Io cerco parole

di Paola Del Punta

Un solo albero sta in mezzo a un verde prato eppure nessuno lo vede



Scendo le scale
Nere da te lucidate
Dal lucernaio sopra
La porta la luce
Illumina i tuoi passi
Uno a destra e
poi uno a sinistra
Migliaia di volte hai salito
E sceso queste scale
ripeto le tue orme
la tua presenza
Nell’assenza


 
Malinconica
mente si attarda
nel frastuon di luci e grida di gabbiani
Nell’aria della sera
Un altro porto straniero
Appare e volti e voci
Si confondono
Qui ora e allora
Gira senza sosta
La ruota del tempo
 


Dalle maglie
Della tua rete
Scivolano via
Granelli di senso
Della vita altrui
Ora i miei raccolgo
E in una grande tela
Li compongo a formare
un paesaggio colorato
Vedo passare vecchi increspati
Che il tempo abbandona
Mi rifugio
in una nicchia
Di tepore
Mangio cioccolata.
 

 
E’ scritto best
Sul dorso della ciabatta
sotto consunta
sfilacciata in mille fili
trascina i tuoi affanni .
Mi chiedi una magia
Silenziose lacrime
E il ricordo gioioso di bambina
Premono e ammutolisco.
 


Siamo a un filo legati
Come panni stesi
Da finestra a finestra
Ci scaldiamo ai raggi del sole
E ritornano parole
Segni di lunghi silenzi
Sulla pelle incisi
 
 

Se ne va un uomo
Col suo sacchetto
Lungo un viale
Di alberi di luce
In lontananza lo raggiunge
La rosa del tramonto
 

Addii

di Cristiana Fischer

Ci si innamora del corpo della figura della voce del brillio degli occhi e delle pieghe del sorriso prima di tutto, dei colori, del tessuto muscolare, dello scatto degli arti, dell’andatura e delle posture di riposo. Attira il corpo che traspare dalla maschera sociale.

Non è vero che lei mescoli tutto nella piazza memoriale, che non attribuisca a ognuno il suo incarnato specifico. Piccola e calda, anche il suo ultimo frutto è perfetta. Si ferma a  osservarla ancora un poco. La ha nutrita per l’ultima volta prima di affidarla alla sorella,  (matertera, l’altra madre) per la festa. Pare che la piccola sorrida, un “sorriso del latte”che manifesta il suo benessere. Esplora il colore e la consistenza della pelle, la sfumatura cupa che si alleggerisce in un tenue rosato sulle tempie. Altre volte, per i figli precedenti, è stata la voce che la ha riportata indietro con un balzo, a un fratello proprio e a quaranta anni in precedenza.
Come discriminare le differenze nella eredità dei doppi patrimoni genetici che ogni volta producono la creatura unica?
– Ti ho portato la bambina in tempo per la festa. [1]
– Verrà con me anche la tua prima figlia. Porterà il figlio del proprio fratello, il ragazzo che hai partorito tre anni dopo di lei.
“Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” [2] le ha detto la dea e la ha colmata di figli e benedizioni in abbondanza. Come se l’umanità femminile dovesse insegnare la creaturalità prima di tutto, con la sua fragilità mortale. E quindi, in quella bellezza musicale e armonica, trovare una pace che tutti ci conforti.
– Non ricordo più niente di lei né dei figli successivi.
Ora dimenticherà anche questo ultimo corpicino caldo di femmina, che sa destinata a partorire generazioni successive.

Stamattina la valle era colma di nebbia ed emergevano solo i cocuzzoli e qualche cresta con la doppia fila di case sui bordi della vecchia mulattiera. L’isolamento era cominciato dalla strada che saliva verso le valli interne. Successe dopo le piogge di novembre, era franato un pezzo di monte sulla strada che collegava il paese a quello dopo, che rimase collegato alla costa solo attraverso un percorso più lungo, tra due valloni infestati di canne e ginestre, che ogni estate prendevano fuoco.
La strada ostruita si inerpicava tra un antico rimboschimento e arrivava a un altopiano di piccoli colli verso rilievi più alti, che man mano si spogliavano di vegetazione fin che si restava davanti a una ritta parete di roccia, con alcune creste isolate. La frana era consistente, ragione per cui occorrevano mezzi e numerosi uomini, prima per spostarla e poi per imbragare con reti di acciaio il fianco a spuntoni del monte, addossando intanto in basso cassoni di pietre.
Arrivò presto la neve e l’anno finì con le notizie precise arrivate dalla Provincia. Dopo Capodanno si cominciarono a cercare le coperture per finanziare i lavori dato che le province, cui spettava l’esecuzione, erano state abolite ma gli uffici per sostituirle non erano ancora stati incardinati. La primavera successiva non iniziarono i lavori perché non si doveva turbare la nidificazione dei nibbi che allevavano la loro prole. Intanto i finanziamenti erano stati dirottati su impegni più urgenti. Poi si smise di pensarci.
Quando si fonderanno i ghiacci dei poli e si alzerà anche di poco il livello dei mari i paesi arroccati emergeranno come isole in un lago, e il medico di base, che si sta attrezzando per raggiungere le sue località di servizio con un cavallo, dovrà ricorrere a una barca sperando che intanto abbia imparato a destreggiarsi.

Tutto precipitò quando furono proclamate, dopo molti anni, finalmente le elezioni. Già allora i circa mille abitanti di ciascun paese si erano abituati alla immobilità. Erano ormai quasi tutti vecchi, i pochi giovani si muovevano improvvisando percorsi erratici con i trattori lungo i costoni o sulle banchine naturali di pietre deposte dalle piene lungo i torrenti.
I vecchi erano divisi, molti erano ridiventati come l’avaro di Molière o sior Todaro di Goldoni: padroni avari e comandoni, non accettavano niente del nuovo mondo che sfilava in TV davanti ai loro occhi catarattici, in tutto era peggiore di quello che avevano combattuto o sfruttato da giovani. Disprezzo apocalittico verso il presente.
Le donne vecchie e giovani lavoravano con le mani, il cibo le vesti gli oggetti utili ogni giorno, e chiacchieravano insieme. Alla stupidità dei mariti appena se ne accennava, per condividere qualche risata che era amarezza in quella solitudine.
Ai partiti nuovi e vecchi non parve vero di avere circoscrizioni di vecchi immobilizzati da visitare con l’elicottero, rapidamente e con parsimonia. Promettere qualche sollievo: una futura riparazione del ponte, il riempimento di una voragine, una deviazione per la strada crollata.

Il medico arriva a cavallo attraverso le frane e i boschi. Quando il corpo attivo e sano comincia a presentare qualche smagliatura allora si corrono seri rischi. Non di ammalarsi (precipitando lungo un tobòga di crescenti infermità di debolezze e inabilità a provvedere a sostenersi in proprio) ma il rischio di entrare in un cannocchiale che si snoda in differenti stadi successivi di osservazioni esami accertamenti approfonditi e in cui la vita sarà istradata tra sponde estranee ai percorsi scelti fino ad allora. Come rispose  Socrate al tribunale che gli chiedeva come si autovalutasse? “Che cosa merito di patire perché sono così? Qualcosa di buono, cittadini ateniesi, se in verità si deve ricompensare secondo il merito; e qualcosa di buono che mi si addica. Che cosa si addice a un uomo povero che vi ha fatto del bene e che ha bisogno di tempo libero per la vostra istruzione? Non c’è nulla che si addica di più, cittadini ateniesi, di una pensione nel Pritaneo”.[3]
Nel grande ciclo della vegetazione che risorge dal fuoco solare solo i semi sopravvivono nella terra scura. Bruciano le erbe secche, le foglie appassiscono e diventano una grigia rete di polvere.
La dea assicura alla sterilità raggiunta una natura rocciosa e consistente come nodi vegetali millenari e sepolti. Lontani rifioriranno germogli tenerissimi e lucenti. Altra vita bagnata, anche immersa in acque scure e profonde, incurante delle vigili attenzioni predatorie dei nostri discendenti, ondeggerà sinuosa come il fresco spirito leggero saprà ristorarla o saprà nutrirsi del minuscolo plancton.


NOTE

[1] “Il rito de I Matralia, celebrato nell’antica Roma l’11 giugno, era riservato alle donne libere, sposate una sola volta, le matrone, che in processione si recavano al tempio della Mater Matuta, portando in braccio i figli dei fratelli e delle sorelle. In tal modo, assicuravano ai nipoti tutela e affetto nel caso di dipartita dei loro genitori.” http://www.capuanova.it/adottaunamadre/matralia/
In Lucrezio, che è la fonte più antica,  Matuta è dea dell’aurora. Dei Matralia scrivono anche Ovidio e Plutarco.
Nella cultura matrilineare dei Mosuo, gli uomini sono responsabili dei figli delle sorelle, zie e nipoti, e gli viene assegnato un ruolo che devono svolgere con grande responsabilità.

[2] Genesi, 22, 17.

[3]Platone, Apologia di Socrate, 26
Treccani, Pritaneo  “Cuore della città, penetrale urbis, il pritaneo dovette esistere in ogni città greca e custodire fra le sue mura il focolare comune e il fuoco sacro divinizzato sotto il nome della dea Estia […] in esso sono nutriti a spese pubbliche quanti Atene reputi degni di tanto onore.”

Il virus è la mia chance

Pandemia e rivoluzione secondo la meglio avanguardia

di Elena Grammann

L’articolo è ripreso dal blog “Dalla mia tazza di tè” (qui). [E. A.]

In una storica cittadina italiana, prossima alla catalessi come la maggior parte delle storiche cittadine, un editore coraggioso e un gruppo di giovani scrittori hanno intrapreso la riforma delle pratiche letterarie. Passati dall’originario “Sono, quindi scrivo” al più ambizioso “Sono, quindi pubblico”, perseguono la democratizzazione a oltranza della letteratura, per il momento a suon di manifesti. Sono in grado di scriverne anche venti o trenta al giorno.

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“Dancing Birches. Part 5” (4) di Glen Sorestad

traduzione di Angela D’Ambra

Quarta poesia di Glen Sorestad dedicata a Ernest Hemingway. Le precedenti qui, qui e qui . [E. A.]

Two Old Boys of Cojimar [1]
 
  
   When the two old fellows saw us approaching 
   they snapped to like wind-gusted flags. 
   The little fishing village just east of Havana 
   is best known as home of Santiago, 
   Hemingway’s heroic protagonist,who 
   spent two days and two nights adrift 
   far out on the Gulf, bound, will to will, 
   to a magnificent and gigantic marlin[2], 
   until he subdued the great fish, only to lose it 
   to marauding sharks before he could 
   bring his once-in-a-lifetime catch
   home to the village as tangible proof. 
  
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C’era una volta….la Resistenza

tonto giallo Truglia

Dialogando con il Tonto (2)

di Giulio Toffoli

Sono seduto, assieme alla mia compagna, alla caffetteria La Dolce vita, in via della Libertà a Cattolica. La mattinata non è fra le più belle, il cielo è grigio e promette pioggia, ciò nonostante l’aria sa di quel profumo di mare che ti riempie i polmoni. Avevo deciso di cercare un locale dove poter fare colazione in Piazza 1 Maggio, proprio al centro della cittadina. Il nome mi era sembrato evocativo di un bisogno di verità che vado cercando inutilmente in questi torbidi anni. Però non ne ho trovato uno che mi sembrasse decente ed allora mi sono infrattato proprio in via della Libertà. Ho bramato in questo modo di fuggire da una ritualità che più passano gli anni più mi sembra lontana e priva di senso. Infatti oggi è il 25 aprile, la festa nazionale che questa nostra malmessa repubblica Continua la lettura di C’era una volta….la Resistenza