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Guerra in Ucraina. Prese di posizione (12)

 

Il virus della guerra – L’antidoto della memoria

STRALCIO DALL’ARTICOLO DI MARCO REVELLI:

Lì il sottotenente Revelli, ricoverato per una brutta ferita rimediata il 25 settembre in un’azione di pattuglia sul Don, aveva incominciato a capire qualcosa del Paese che l’aveva mandato a uccidere o a morire, con lo spettacolo della corruzione, le ruberie da parte degli imboscati, il menefreghismo e il cinismo dei privilegiati a spese dei poveri cristi in prima linea, tanto da chiedere anzitempo di ritornare al suo caposaldo dove si rischiava ma non ci si vergognava. Così come quattro mesi più tardi, il 25 gennaio, poco più a nord, nella piana tra Nikitovka e Nikolaevka, nella “notte dei pazzi”, che precedette l’ultimo sfondamento disperato per uscire dalla sacca, nei 40 gradi sotto zero, con tutto che crollava intorno, le isbe in fiamme, i congelati abbandonati, l’immensa colonna di sbandati ormai senza guida, e gli occhi dei muli i soli a esprimere un’umanità ormai perduta dagli uomini, aveva – come scriverà e ripeterà infinite volte – “capito tutto”. Troppo tardi, ma capito cos’era il fascismo. E non solo. Quella notte, scriverà, il sottotenente degli alpini in servizio permanente effettivo Nuto Revelli, allievo scelto dell’Accademia militare di Modena, ufficiale modello considerato un “najone” per la serietà con cui interpretava il suo ruolo tanto da aver chiesto nella primavera del ’42 l’invio anticipato sul fronte russo, definito dai superiori “un tedesco”, una medaglia d’argento appena conferitagli, aveva urlato a sé stesso e perché tutti sentissero “Non farò mai più l’ufficiale” di quell’esercito. Allora, dichiarerà in un’intervista molto sofferta a Laura Pariani, “ho maledetto il duce, ho maledetto il re, ho maledetto (una breve pausa) l’esercito… Ho maledetto (una pausa più lunga, come se la parola non volesse uscire dai denti) la patria”. Era incominciata in fondo, allora, la sua “seconda vita” – morto l’alpino nasceva il partigiano che sarebbe diventato, come scriverà nella canzone dal titolo terribile, Pietà l’è morta -. La vita dedicata a combattere il fascismo, ma soprattutto, col fascismo che ne incarnava l’essenza, la GUERRA. Non avrebbe cessato mai di ripetermelo, tra le mura domestiche, e di ripeterlo ai tanti studenti incontrati nelle scuole, che la guerra è il male. Il male assoluto, o, forse meglio, universale. Ogni guerra, anche la più “giusta”, persino la guerra partigiana, che pur ebbe per lui un effetto catartico, di riscatto dei tanti morti lasciati nella steppa e dalla sensazione umiliante si sentirsi “un vinto”, persino quella – mi ripeteva -porta in sé un’ombra, ti lascia dentro cicatrici che fanno male. Perché la guerra trasforma gli uomini. Tira fuori il peggio che hanno dentro. Usava l’aggettivo “bestiale”, come antitesi dell’”umano”. Bisogna evitarla ad ogni costo, perché una volta scoppiata, il suo effetto di perversione non lo fermi più, negli altri, e anche in te stesso…

Nota
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