Nel tunnel di metà settembre (3)

di Donato Salzarulo

AL PRONTO SOCCORSO

Al Pronto Soccorso mi accompagnano la moglie e la figlia Lucia. La figlia ci lascia e va a cercare un parcheggio. Noi, dopo un’attesa brevissima, entriamo nel Triage. Provo a spiegare la situazione al medico. Giuseppina ogni tanto interviene per precisare. In effetti faccio fatica a trovare le parole, mi confondo, sono esausto.
Il messaggio certo che arriva all’interlocutore è il mio odio per la Tachipirina.
«Ma cosa dice, signor Salzarulo, è uno dei farmaci fondamentali. Meno male che è stato inventato.»
«Sarà, non ne dubito. Lo dice lei e lo saprà meglio di me. Ma su di me ha agito come uno spremi-limone. Sembra che mi abbia tolto tutto l’ossigeno.»
«Ma non è stato la Tachipirina. Sarà stato sicuramente il batterio insediatosi nei suoi polmoni.»
Intanto il medico si avvicina, m’invita a stendermi su una barella, mi controlla la pressione, la saturazione e mi fa un prelievo. Sono entrato esattamente alle 15,36. Un quarto d’ora dopo, mi attribuisce il “codice arancione” e mi spedisce all’interno. Sono un paziente a rischio di compromissione delle funzioni vitali. Ho bisogno di interventi urgenti, indifferibili. L’interno in cui vengo portato è difficile da descrivere. La prima impressione è quella di un accampamento con tante barelle messe in fila lungo le pareti o spostate di qua e di là, probabilmente a seconda della gravità del paziente. In mezzo, un cerchio con medici seduti vicino ai computer.
Vengo preso in carico da una dottoressa in pantaloni larghi e blusa azzurra. Mi dice il nome, ma non lo ricordo.
La mia barella è appoggiata alla parete. A sinistra vedo un uomo più anziano di me, a destra una donna, anche lei più anziana di me. Tra di noi non c’è nessun separé. In altre parti del grande salone, invece, ci sono delle tende a padiglione che assicurano al paziente riservatezza e rispetto della sua sfera privata.

La dottoressa che mi assiste, mi visita, mi ausculta, mi fa domande sul mio stato generale, sulle mie malattie pregresse e mi attacca all’ossigeno. Trascorro il resto del pomeriggio sulla barella, vestito con pantalone e maglione.
Dopo qualche oretta, mi portano a fare una lastra al torace.

Verso le 17,30, quando mia figlia può venire a visitarmi, oltre all’ossigeno che mi entra dalle narici, ho una flebo attaccata al braccio sinistro. Alle 18,30 ci portano qualcosa da mangiare, io non tocco nulla. La paziente a destra, invece, che si lamentava da un po’, perché in preda ai morsi della fame, gusta soddisfatta il primo, il secondo e la frutta. Il secondo, ricordo, era una mozzarella.

L’infermiere con la barba corta che continua a spostarla di qua e di là, sussurra alla sua collega: «Ha novantasei anni e non ha assolutamente niente.»
Io l’ho vista arrivare accompagnata dal figlio; dieci minuti dopo la salutava e andava via.

Non ricordo quasi nulla di questa prima nottata al Pronto Soccorso. Forse ho dormito, forse ho sonnecchiato, forse ho continuato a guardare la pancia del mio vicino a sinistra, ho continuato a seguire i movimenti di medici ed infermieri. Non è stata, però, una notte peggiore delle altre trascorse a casa. Mi sentivo preso in carico. Il sintagma non mi piace, ma il senso è chiaro: qualcuna o qualcuno avrebbe fatto qualcosa per me. Forse mi avrebbe tirato fuori dal tunnel angoscioso in cui ero finito. Questo, almeno, era il mio sentimento prevalente e colorava di speranza tutto il brusio e i fotogrammi che continuavano a scorrere nei miei occhi, a palpebre chiuse o aperte.

Lunedi, 23. Cosa ricordo di lunedì? La situazione continua ad essere delirante. Cambio della dottoressa. Ogni giorno, una nuova. Anche di questa non ricordo il nome né la figura. So che, ad un certo punto, mi viene a visitare. Le dico che ho un dolore intenso al fianco destro. Mi guarda la pancia, mi tocca, mi spinge. Poi mi gira. Quando mi volta a destra, mi lamento:
«Ecco, è qui, dottoressa…Mi fa male, se mi giro così.»
«Va bene, adesso ci penso su e, magari, le prescrivo un’ecografia all’addome».

Nel pomeriggio un infermiere robusto e con la barba lunga mi porta nei locali dell’Unità operativa di radiografia, ecografia, ecc. Mi lascia lì.
A dirigere il traffico ci pensa un infermiere napoletano. Ora manda avanti l’uno, ora l’altra. Una madre che aspetta per un’ecografia della figlia ha la precedenza, perché, se un cittadino chiama un certo numero telefonico, avrebbe diritto all’urgenza.
Conclusione: il sottoscritto e un altro paziente, portato lì dallo stesso infermiere barbuto, veniamo tagliati fuori. Non potremmo più fare l’esame perché i laboratori sono chiusi. Allora l’infermiere barbuto forza la situazione e mi porta in una stanza poco lontana.
Mi fanno l’ecografia due giovani: una mi sembra una studentessa; l’altro, invece, uno specializzando. L’esame dura un quarto d’ora. Prima guarda lei, poi guarda lui. Nessuno mi dice nulla.
Io sono preoccupato. Fra poco sono le 17,30. Arriveranno i miei familiari e non mi troveranno. Appena posso, telefono a mia moglie. Ha capito che sono in un altro locale per l’ecografia all’addome, ma non sa come arrivarci.
Alla fine, la novità: l’infermiere mi porta in una grande camera annessa al Pronto Soccorso. Ci sono due letti. In uno dorme l’anziano che stava alla mia sinistra nel salone-accampamento, nell’altro, più vicino al bagno, sistemano me.
Finalmente potrò dormire, penso. Finalmente potrò andare al bagno quando voglio…

OBI, questa la sigla scritta da qualche parte del locale. Significa Osservazione Breve Intensiva. I medici del Pronto Soccorso mi hanno inviato qui perché hanno bisogno di un approfondimento diagnostico. Ma chissà perché o chissà dove leggo che quei locali potevano servire anche a gestire situazioni di emergenza internazionale. Non l’avessi mai letto. Durante la notte dormo, ma nelle mie sinapsi, nelle orecchie consenzienti non faccio che sentire rumori di velivoli in partenza e in arrivo. Il piccolo aeroporto, che immagino nel mio cervello, è tenuto saldamente in mano da squadracce fasciste. Un velivolo deve portare la bara di un camerata morto a Genova. E lì, all’aeroporto, ci sono squadre fasciste per rendergli omaggio e salutarlo. Lo fanno con canti, inni, slogan, colpi sparati in aria. Certamente deliro e, quando si interrompono deliri simili, penso all’impegno preso con le amiche della redazione di Orione. Ho scritto a Gabriella che le avrei mandato per lunedì qualche mio appunto sul suo brief relativo alla poesia. Lunedì è passato senza aver fatto nulla. Insomma, se sonno c’è, è agitato, pieno di farneticazioni e incubi, di promesse non mantenute, di rimorsi. Così l’alba arriva come una liberazione e il felpato compito mattutino di infermieri che fanno prelievi, misurano pressioni, saturazioni, febbre e registrano il tutto, l’invito del personale che porta la colazione a dire se si vuole il tè o il latte, il trambusto delle donne che lavano e puliscono il pavimento del locale, tutto questo diventa un gioioso annunzio di vita. La notte è passata. Dopo giorni di digiuno quasi assoluto, martedì mattina bevo un po’ di tè con due fette biscottate dorate.

Tornando a lunedì sera, quando mia moglie arriva al mio posto, in Pronto Soccorso, non mi trova, impallidisce ed entra in agitazione. Se ne accorge una dottoressa e gentilmente l’accompagna nella camera OBI, dove mi ha lasciato l’infermiere barbuto. Mentre entra è felice di vedermi, mi bacia, ma guarda anche meglio l’anziano alla mia destra. Lo riconosce come un colognese. Sa addirittura il nome e il mestiere. Da quel momento in poi anch’io metto a fuoco. «Ah, siii – dopo un po’ lui mi fa – Tu sei Salzarulo, hai fatto l’assessore alle scuole. Sì, sì.» Insomma, l’uomo anonimo non è più anonimo. È un anziano ultraottantenne che ha il pene schiacciato in malo modo e sta facendo delle trasfusioni. È un signore con un negozio in cui io sono andato diverse volte.

Intanto, Giuseppina mi accompagna in bagno. Mi lavo ben bene. Mi aiuta a togliere il pantalone, la camicia, il maglione e a mettere il pigiama. Finalmente posso sistemare il mio necessaire in un armadio insieme a degli asciugamani e a dei tovaglioli. La sera mangio qualcosa: riso in bianco forse, spinaci e qualche chicco d’uva comprata dalla consorte al “Carrefour express”, al piano meno uno del San Raffaele. Le due pigne le conservo accuratamente sul comodino. Ho la bocca amarissima ed ogni tanto l’addolcisco. Verso le 19 saluto i familiari. Mi rimetto subito a letto. La notte mi addormento, ma nel mio cervello abitano i vaneggiamenti, le angosce, gli incubi raccontati prima. Non mancano neanche frammenti confusi di sogno: madri addolorate, disegnate alla maniera del mio amico Ennio Abate, che salgono il monte Calvario; signore in età che piangono, cortei di compagni, cori angelici di fanciulli e fanciulle. Un canto che mi commuove: Con la mano nella tua camminerò.

Martedì 24 cambio ulteriore di dottoressa. Ne arriva una sorridente, una che mi chiama per nome, una che sembra quasi conoscermi. Si presenta: dice di essere Silvia forse o Laura o Caterina. Francamente dimentico. Ciò che non dimentico è il suo modo di relazionarsi. Per lei non ero un ammalato qualsiasi. Molti sono i colognesi che lavorano al San Raffaele. Ho fatto il direttore a Cologno per un quarto di secolo. Sono stato assessore alla pubblica istruzione fino al 2015. Non è escluso che la dottoressa sia stata alunna in una delle tante classi che ho girato per venticinque anni. Forse mi ha riconosciuto: cosa ci fa qua il mio direttore? Ha letto la mia cartella, ha guardato la mia lastra: cavolo si è beccato una polmonite bilaterale, una malattia seria. Forse ha bisogno di ricovero. In una giornata torna da me quattro volte. Sempre sorridente, sempre gentile. Vorrei chiederle se mi conosce. Ma non me la sento. Potrebbe dirmelo lei se mi conosce, perché sollecitarla? Se non mi dice niente, è probabile che sia soltanto gentile. Almanacco. Faccio del cerebralismo come mia madre.
«Ascolti…», mi dice l’ultima volta. «Io credo che abbia bisogno di ricovero»
«D’accordo, dottoressa…»
«Va bene…Per domani cercheremo di trasferirla in Medicina».

La mattina del martedì leggo e rileggo il brief sulla poesia di Gabriella. Infine, le propongo due integrazioni: quella sulla poesia Giano bifronte, attenta da un lato alle immagini, dall’altro alla sua musicalità e aggiungo una precisazione sulla poesia che nasce dalla tradizione orale. Avrei potuto fare meglio, ma nelle condizioni in cui sono è sufficiente.

«Forse mi ricoverano», dico la sera ai miei familiari.
«Ma dov’è finito il colognese anziano che stava nel letto in fondo?» Mi domanda Pina.
«L’hanno dimesso su due piedi. L’hanno dimesso contro la sua volontà. Gliel’hanno detto nel pomeriggio. Hanno chiamato la figlia e l’hanno portato via. Ma lui si era messo in testa che si sarebbe ripresentato al Pronto Soccorso dieci minuti dopo.»
«Come faccio a stare in casa col catetere?» continuava a dirmi. «Tutta colpa di quel dottore in tuta verdemare che è venuto prima. Lei deve andar via. Ma dove vado col pene ancora tutto schiacciato? In questo Pronto Soccorso è un casino…Questo lo fece costruire in quattro e quattr’otto Berlusconi, durante il Covid, dicendo che lo donava ai milanesi. In verità, poi l’hanno venduto agli olandesi…»
«Non ne so nulla», gli dico. «Avevo letto che aveva donato 10 milioni alla Regione per edificare 400 posti di terapia intensiva alla Fiera, ma poi non ho più seguito la vicenda.»
Non so se il concittadino colognese ne sapesse più di me. So che verso le cinque del pomeriggio, vengono a prenderlo la figlia e il genero, l’aiutano a vestirlo e lo portano via.

Verso le sette e mezza il letto viene occupato da una signora torinese. Si lamenta di dover dormire con me che sono un maschio. Io neanche la guardo. Ho in testa gli intrecci gli affari i complotti. Una signora torinese che finisce in una camera OBI? Allora è vero che qui si compiono operazioni di emergenza e sicurezza? Il mio cervello cerca conferma ai suoi deliri. Così la notte di martedì è un’altra piena di camerati, squadracce fasciste, voli, operazioni internazionali top-secret. Non ricordo di aver dormito. Ricordo che, avendo raccomandato a mia moglie di portarmi per il giorno dopo i miei soliti giornali, ero preoccupato di dover mostrare pubblicamente Il manifesto. Paranoia o quasi. Forse da polmonite bilaterale e mancanza di ossigeno.

Il trambusto mattutino delle donne che lavano e puliscono il pavimento mi regala la voce cristallina di una signora che mi fa: «Ma lei è Salzarulo! Cosa ci fa qui? Io abito in Viale Lombardia, sono un’amica di sua figlia Lucia…» E, rivolta alla signora torinese, aggiunge: «Signora, questa persona è famosa, nella nostra città è stato un direttore e un assessore.» Io mi schermisco: «Famoso? Non esageri signora…» «Ah, interessante!» aggiunge la signora torinese, diventata tutto ad un tratto più curiosa e disponibile nei miei confronti.

Se una persona ci conosce, ci toglie dall’anonimato. Non è necessario metterci sulla cima più alta del mondo, come fa chi ti ama, e come sostiene Pedro Salinas in una splendida poesia che, qualche giorno fa, mi è capitato di leggere. L’importante è toglierti dalla tristezza e dalla solitudine in cui ti trovi, l’importante è che nel letto di un ospedale un attimo di gioia si impadronisca di te e ti sottragga «all’ossario immenso / di quelli che non sono morti / e non hanno più nulla / da morire nella vita.»

Insieme a Salinas, continuo a recitarmi in silenzio alcuni versi ancora di De Angelis:

Invochi il respiro, la giusta
posizione del cuscino, l’accento
che dai limiti del mondo giunge qui,
apre le finestre, chiama
ogni poesia alla guarigione

 

 

 

2 pensieri su “Nel tunnel di metà settembre (3)

  1. dalla cronistoria di una vacanza estiva tutto sommato felice in un clima di ordinaria normalità…o ‘Non è vero’, come da conclusione, doccia fredda? Dei segnali allarmanti c’erano, delle piccole crepe in un muro perfetto, ma sottovalutati e trascurati di fatto. Facciamo spesso cosî rapportandoci al nostro corpo, come fosse un valletto sempre a nostra disposizione…Ma poi quando presenta il conto sono guai grossi! L’ultima cosa da fare, comunque è colpevolizzarsi! Il Pronto Soccorso già di per sè non è una bella esperienza da vari punti di vista, poi segue il resto. Per fortuna lo scrittore è assistito, oltre che da familiari affettuosi, da quella mente lucida e curiosa, per quanto spaventata da incubi e deliri…Quando il malato viene riconosciuto, uscendo dall’anonimato, come persona reale e non come numero, prova sollievo e spera di ricevere assistenza e cure adeguate…Speriamo che nella prossima puntata, Donato ci dia buone notizie sulla sua salute….

  2. Cara Annamaria,
    come giustamente sostieni, il nostro corpo non è un valletto sempre a nostra disposizione. Sono d’accordo con te. Un po’ lo accenno all’inizio della seconda puntata. Perdonami l’autocitazione:
    «È il mio corpo che se ne va per i fatti suoi. È la mia casa del respiro e il tamburo brachicardico del cuore che sembrano andare in tilt.
    Sulla loro musica ho un potere scarso, quasi nullo. Intendo come persona che dice Io, caratterizzata da quella facoltà misteriosa che si chiama coscienza. Come psiche è tutto molto più complicato e dinamico, un mare, una foresta, una montagna su cui preferisco non avventurarmi. Ho un corpo e sono un corpo. Sono scisso e sono unito. Un enigma.»
    Le buone notizie sulla mia salute non posso dartele subito. Si perderebbe la suspense del racconto. Domani uscirà la quarta puntata e, rispetto al delirio del Pronto Soccorso-accampamento, qualcosa migliorerà. Queste mie pagine, per certi versi, rappresentano anche un viaggio nelle contraddizioni della sanità milanese. Non preoccuparti, comunque. Se scrivo, vuol dire che sto relativamente bene. Grazie e un grande abbraccio

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