RICOVERATO: MEDICINA, TERZO PIANO
Il mio compagno di stanza non me lo presenta nessuno, ma do un’occhiata e capisco che è in condizioni di totale dipendenza. Ogni tanto muove le gambe scheletrite.
Devono compilare dei questionari. Prima rispondo alle domande di Pasquale e poi a quelle della dottoressa. Mentre lo compila, seduta al tavolo, leggo sul primo rigo: «Vigile». Meno male. Sono presente a me stesso e capisco con chi ho a che fare. Quando mi rivolge le domande sono attratto dal suo modo di parlare. Il suo accento non è sicuramente lombardo. Come non lo è il mio. Da dove proviene?
Le battute di questo brevissimo scambio mi rimangono impresse. Il respiro è stato una parola chiave di tante mie poesie. La prima che mi viene in mente, la più lontana nel tempo, è questa:
Alle 17, 30 il corteo dei familiari: la moglie che arriva spesso con mia sorella, la cognata, le figlie, Giuseppe, le nipoti…A turno, si accomodano ai piedi del letto. Ed io racconto del mio arrivo in Medicina, della dottoressa che mi ha visitato, delle mie condizioni di salute (dico sempre che mi sento meglio), di ciò che ho mangiato. E, siccome non si fidano che mangi, Giuseppina sempre, spesso insieme a Lucia, aspettano che arrivi la cena e controllano cosa effettivamente metto in bocca. La moglie mi porta quasi ogni sera qualcosa di mio gusto. Mangio per farle piacere. Ma la mia bocca e il mio palato trasformano tutto. Anche i cibi più buoni e saporiti diventano amarognoli e quasi non commestibili. Non parliamo di quelli che già non amo nella vita di tutti i giorni. Una delle prime sere, alla terza forchettata, vomito i fagiolini coi pomodori in insalata.
Quando rimango solo, provo a leggere un po’ i giornali che Pina mi porta ogni sera. Sul Manifesto di ieri leggo la notizia della morte di Frederic Jameson. Il coccodrillo è di Marco Gatto. Ho letto libri sia dell’uno che dell’altro. A giugno di due anni fa ho recensito il libro di Gatto su Jameson (qui). Per ricordarlo, lo studioso militante ora scrive:
«Personalità imprescindibile del marxismo contemporaneo, legato inestricabilmente al pensiero dialettico, Jameson ha attraversato il Novecento e le prime due decadi del nostro secolo concependo le rappresentazioni culturali come sintomi complessi di dinamiche storiche profonde. Il suo lavoro, basato su un confronto costante con le tradizioni di pensiero antiche e moderne, e su un incessante corpo a corpo con le proposte teoriche coeve, nel segno di una generosità intellettuale senza limiti […] costituisce la punta ultima avanzata di quel “marxismo occidentale” che Perry Anderson ha contribuito a storicizzare e che Jameson ha in larga parte rifondato e rimesso in piedi.»
Chissà quando finirà l’ostracismo contro personalità che, se studiate, aiuterebbero a rifondare e rimettere in piedi non solo il “marxismo occidentale”, ma anche la “buona politica”, quella che serve alle classi sociali oppresse e subalterne.
C’è un altro articolo che sul Manifesto mi interessa. È quello di Massimo Raffaeli sul carteggio tra Pietro Ingrao e Attilio Lolini, carteggio pubblicato col titolo «L’azzardo della poesia. Nove lettere dell’anno duemila» (Bordeaux, pp. 144, euro 14) a cura di Tommaso Di Francesco e Alberto Olivetti. Leggo un po’, sottolineo pure i versi di Pietro Ingrao («Frugammo sentieri nei libri reclusi / o, sepolti reperti / d’insorgenze, amari rivolgimenti falliti») e la poesia Zapping di Lolini («Quelli che stanno / di là dallo schermo / mi guardano strani / quando di notte / alzo le mani / a tutti sparando / col telecomando»), ma non riesco a concentrarmi come vorrei e, dopo un po’ abbasso lo schienale del letto, spengo la luce e cerco di addormentarmi. Di fronte ho la parete. A guardare bene il muro verde chiaro non è fermo. Vi sono ruscelli d’acqua che sgorgano dappertutto. Ruscelli d’acqua che s’incontrano e s’intrecciano. Nella parte alta si apre, addirittura, un palcoscenico. È vuoto. Apro meglio le palpebre. Ma davvero vedo ciò che vedo? Ecco un’ombra. A fissarla con insistenza la vedo muoversi. Cosa insegue non si sa. Sembra perdersi dietro un’altra ombra…
Arriva l’infermiere. È uno nuovo. Pasquale ha finito il suo turno. Mi misura la pressione, la saturazione, la febbre. Poi mi porta una pillola rotonda di potassio. Passa un quarto d’ora e arriva con una flebo e una bottiglietta di antibiotico da iniettarmi in vena. Resto sveglio finché non vedo che le gocce smettono di scendere. Allora mi sistemo per addormentarmi. E la prima notte nella stanza 326-2, tra veglia e sonno, fuori nel corridoio illuminato, si consuma un dramma amoroso. È un Lui arrabbiato, imbestialito, fuori di sé che viene lasciato da una Lei timorosa, silenziosa, di poche parole. È un Lui che grida parolacce, che urla insulti nella notte, che le spara addosso tutta l’artiglieria verbale di questo mondo. Nel dormiveglia non capisco il loro stato (coniugati o conviventi?). Sicuramente è uno stato “amoroso” e appartiene alla serie “se mi lasci, ti uccido” e roba simile…Quasi certamente anche questo è un mio delirio.
La mattina del giovedì faccio colazione col tè e sei frollini. Mi piacciono questi biscotti. Sono dolci e mi addolciscono la bocca. Come se ne avessi bisogno. In questi giorni le fette biscottate integrali, quelle che mangio da anni, non mi piacerebbero. Neanche forse con un po’ di marmellata d’albicocche, la mia preferita. Poi cerco di riprendere la mia vita regolare. Verso le 12 e mezza mando un messaggio a mia moglie: sul mio comodino c’è un libro bianco sulla venuta del Regno di Dio, cioè un libro sul cristianesimo. Stasera, per piacere, me lo porti. Fammi una foto della copertina, se hai dei dubbi. Infatti, mi fa una foto. Il libro è di Giancarlo Gaeta e s’intitola «In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi.»
Quando arriva la dottoressa per la visita, le chiedo quanto tempo resterò in Medicina. Mia nipote si laurea il due ottobre a Pavia e vorrei partecipare alla proclamazione. Lei mi dice che farà di tutto. Ma con lei c’è anche la specialista, una dottoressa alta, abbastanza orgogliosa di sé, una di quelle che fra noi dirigenti avremmo detto “presidia il ruolo”. «È troppo presto per fare una prognosi precisa. Tra oggi pomeriggio e domani faremo una TAC.»
Nel pomeriggio riposo un po’; successivamente sfoglio i giornali portati da Pina ieri sera. Su Il fatto quotidiano mi interessa l’articolo di Massimo Villone sull’autonomia differenziata. Quest’autore sta conducendo davvero una battaglia culturale e politica contro la legge 86/2024, legge sciagurata che spezzerebbe l’Italia. Panetta, il governatore della Banca d’Italia afferma che il divario territoriale Nord-Sud «non può essere colmato con misure di natura assistenziale e con una mera azione redistributiva, ma richiede politiche volte a stimolare lo sviluppo delle regioni meridionali». Occorrono politiche sulle infrastrutture strategiche come porti, aeroporti, ferrovie, comunicazione digitalizzazione, energia, ecc. Se il Sud non cresce, il Paese rimane al palo. Villone condivide le tesi del Governatore e si domanda: «se quelle materie fossero regionalizzate e le funzioni essenziali trasferite dal centro alla periferia le politiche necessarie sarebbero ancora possibili?» Chiaro che no.
Oltre a quello di Villone, leggo con attenzione il dialogo su La Repubblica di due politologi: l’americano Yascha Mounk e il francese Olivier Roy. Di ambedue la Feltrinelli ha recentemente pubblicato due libri: «La trappola identitaria» del primo, «L’appiattimento del mondo» del secondo. Ad occhio e croce, anche se generiche, mi sembrano più condivisibili le risposte del francese:
«Per me la chiave è il neoliberismo: l’accettazione, da parte della sinistra, di politiche come la deindustralizzazione che hanno lasciato indifesa la classe operaia. I perdenti si sentono abbandonati dalla sinistra. E allora votano per la destra che, almeno a parole, promette di difenderle.» Se non votano a destra, si astengono, aggiungerei io.
Il mondo è “appiattito” «nel senso che non c’è più nulla sopra e sotto: i valori sono scomparsi, rimangono in piedi solo gli egoismi personali. Non c’è più senso storico, come se avessimo fatto tabula rasa. Il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, è diventato per l’Europa l’anno zero; abbiamo perso traccia di tutto quello che c’è stato prima e l’abbiamo sostituito con il nulla dal punto di vista culturale. Viviamo in un mondo appiattito dal denaro e dai consumi, nel quale la gente è rimasta senza niente di cui essere orgogliosa.»
«Una volta i diritti sociali erano al centro della mobilitazione progressista: erano il cuore dell’ideale di sinistra, sia pure nelle sue diverse declinazioni, socialdemocratica, socialista, comunista. Oggi la sinistra ha poco da dire su questo terreno. E così, anche quando governa, ha poco da offrire, poco per differenziarsi dalla destra».
Mettendo insieme questi tre punti si otterrebbe una scaletta minima di orientamento: finché la cosiddetta sinistra continua ad accettare il paradigma neoliberista, votarla è tempo perso. Il 1989 non è l’anno zero. Senza senso storico non si va da nessuna parte. Occorre riallacciare i fili col pensiero critico. Ieri sera ne ho ricordato uno, leggendo il necrologio di Marco Gatto. I diritti di tutte le minoranze di questo mondo non si possono mettere in contrasto coi diritti sociali: istruzione, sanità, previdenza, ecc. sono beni comuni fruibili anche dalle minoranze.
17,30 ricevimento molto atteso e piacevole coi familiari. Ci sono sempre quasi tutti.
La sera mangio una porzione di scorfano e cicoria ad insalata. Pera finale. Le cene d’ospedale sono sempre molto tristi. La mia no. Non sono solo, sono in compagnia, assistito con amorevolezza.
Alle 20 e trenta mi preparo già per addormentarmi. Mi rimetto l’ossigeno nelle narici e abbasso un po’ lo schienale del letto. Il mio compagno di stanza sta guardando il televisore acceso sulla parete. Gliel’ha acceso la moglie prima di andar via. Gliel’ha messo su Canale 5 ed ora sullo schermo va in onda Striscia la notizia. Appaiono Hunziker e Frassica. Che ci fa il comico qui? Non ci stava Ezio Greggio? Misteri televisivi. Non mi strappa nessun sorriso e, siccome il mio compagno mi sembra già addormentato, aspetto che arrivi l’infermiere per spegnere l’apparecchio. Ma ho fortuna e, all’improvviso, tace da solo. Mi sistemo meglio per addormentarmi. La notte di giovedì è come quella di mercoledì coi ruscelli d’acqua che sgorgano dappertutto e il dramma amoroso delirante che continua a consumarsi nel corridoio del reparto. Sottovoce mi recito i versi di Viola Vocich: