Nel tunnel di metà settembre (6)

di Donato Salzarulo

LE SCOPERTE DEL VENERDI

Venerdì mattina. Mi sembra di star meglio, vado a lavarmi ben bene: i denti, la faccia, il collo, le ascelle; la mia pelle ha lo stesso odore di mia madre, la sento sempre addosso; per dimenticarla mi profumo, mi rimetto un po’ a posto, mi restauro. Ma che fatica! Quasi quanto quella di zappare un quadretto di campo. Mio padre amava questi paragoni.
Intorno alle 13,30 o le 14, un infermiere sconosciuto viene a prendermi per portarmi giù a fare la Tac. Mi accomodo su una sedia e mi spinge, prendiamo l’ascensore e finiamo nel piano -1, in corridoi sconosciuti. Il mio accompagnatore mi lascia in uno di questi, di fronte al locale in cui si effettua l’esame. C’è un paziente già in attesa. Ma poi arriva un signore che ha la precedenza su noi, poi un altro, un altro ancora e un altro. Faccio sentire la mia voce: «Guardate che non ho mangiato! Ho fame! Prima mi fate quest’esame e prima vado a mettere qualcosa sotto i denti.»
Dopo mezz’ora di attesa o forse più, arriva finalmente il mio turno. La macchina per la Tac non è più un tubo. È una galleria, un cilindro circolare. Il medico mi sistema sul letto e mi spinge automaticamente dentro. «Respiri!…Trattenga il respiro!…» Poi mi fa tornare indietro e m’inietta il mezzo di contrasto. L’operazione si ripete. «Respiri!… Trattenga il respiro!… » Infine, mi riporta alla posizione di partenza. «Ora può tornare su in reparto.» Chiedo al dottore il referto. «Non si preoccupi, arriverà direttamente alla dottoressa».
E, a questo punto, non ricordo se aggiunge che ho un’embolia polmonare. Fatto sta che, appena arrivo in reparto, la dottoressa mi viene incontro e, col volto un po’ contrito, mi mette al corrente della brutta notizia…
Rimango male, ma non faccio una piega. Almeno a parole. Non ho uno specchio sottomano per controllare il mio viso. Anzi, cerco di trasformare la scoperta spiacevole in qualcosa che suoni come un’àncora di salvezza.
«Ho scampato dei pericoli più gravi. Magari mortali. Grazie, dottoressa!… Meno male che l’altro ieri mi ha osservato con attenzione e ha notato il mio fiato corto. Meno male che mi ha mandato a fare la Tac. Lei mi sta salvando…Io sono fortunato. Invece di stare qui a parlare, potevo essere in coma, ritrovarmi in uno stato vegetale…».
La dottoressa non mi risponde. Rimane in silenzio, un po’ pensierosa. Io insisto con convinzione: «Meno male che il medico di base non mi ha auscultato, meno male che sono finito nel Pronto Soccorso, meno male che sono stato ricoverato e meno male che ho incontrato lei…C’è una luce in fondo al tunnel…».
La dottoressa continua a non rispondere. Si limita a prendere atto delle mie parole. Si gira e va via.
Dieci minuti dopo, una signora della cucina mi porta un vassoio con un primo, un secondo e una mela. Mangio tutto. Se devo morire, meglio farlo a stomaco pieno. Chissà se è vero. Al mio paese dicevano così.
La dottoressa, intanto, non perde tempo. Ho appena finito di mangiare che viene da me e mi fa una puntura lungo il pollice, verso il polso. La fa con estrema attenzione. Non le chiedo cos’è e a cosa serve. Antonio successivamente mi dirà che forse è l’emogasanalisi. È un test che serve a stabilire la mia funzionalità respiratoria.
Intanto, prima girano per il corridoio e poi entrano in camera due cardiologi. Uno spinge la macchina per effettuare un’eco-cardiogramma. Si avvicinano a me e cercano di capire più che possono della mia storia passata: se avevo subito un infarto e, se non l’avevo subito, come mi ero accorto che avevo le coronarie che non funzionavano, si informano sul mio intervento chirurgico e sui miei tre bypass, sulla terapia che seguo…
In buona sostanza mi sottopongono ad una visita accuratissima. Sono lì evidentemente per consigliare la dottoressa sulla terapia. Nei giorni successivi sospendono la cardioaspirina e vanno avanti ad eparina.
Appena vanno via, la dottoressa invita l’infermiera spilungona, quella che mi ha svegliato in mattinata per il prelievo e poi per misurare pressione e saturazione, a farmi un elettrocardiogramma. Lei non ne vede il bisogno. Mi hanno visitato a lungo i cardiologi. Ma gli ordini sono ordini, si avvicina con la macchinetta e comincia ad incollarmi gli elettrodi.
Provo a scherzare.
«Si ricorda bene come metterli?»
«Certo!…»
«Usa qualche trucco per ricordarsi?»
«Sì…GI RO NE VE» e mi dice dove posizionare il giallo, il rosso, il nero e il verde.
Non capisco bene, ma vedo che lei si è addolcita, è meno imbronciata.
«Stia fermo».
Sto fermo e dalla macchinetta esce il foglietto con le onde che registrano l’attività elettrica del mio cuore.
«Aspetti…Vado a farglielo vedere alla dottoressa.»
Torna dopo qualche minuto.
«Va tutto bene.»
Prende la macchinetta e se ne va. Gli elettrodi rimangono incollati sul mio torace. Non c’è problema. Me li so togliere da solo.
Un quarto d’ora dopo arrivano la dottoressa e un’altra infermiera; mi invitano a sedermi sulla sedia a rotelle. Accanto c’è la bombola d’ossigeno che continua a rifornirmi. L’infermiera mi spinge per un tratto. Stiamo andando all’ambulatorio di chirurgia vascolare per un’ecocolordoppler. Prima di arrivarci restiamo soli io e la dottoressa e mi spinge lei. Le domando se è calabrese. Mi risponde che è sarda. Comincio a ringraziarla. Avverto la sua generosità. Soprattutto la prontezza delle decisioni. Mentre prendiamo un ascensore scherzo un po’, cerco di sdrammatizzare. Riprendo il discorso fatto nel momento in cui mi ha annunciato di avere l’embolia polmonare.
«Dottoressa, non creda in modo assoluto alle mie parole. Sono molto preoccupato. Il mio continuare a dire che sono fortunato è un meccanismo di difesa. Anche se un po’ ci credo. lo sono fortunato, si capisce…»
«Certo, non si può sparare in bocca!»
Lo dice con crudezza, tanto che l’espressione mi rimane impressa.
Mi accompagna dentro l’ambulatorio. L’amica specializzanda mi fa togliere le calze e il pantalone. Sullo schermo del monitor mostra alla dottoressa la situazione delle varie vene. Ad un certo punto, le mostra la trombosi in atto sotto il poplite della mia gamba sinistra. Nella destra le mostra la fibrosi, cicatrice della precedente trombosi. Tutto diventa chiaro. Mi pulisco, mi rivesto, torno a sedermi sulla sedia a rotelle e mi rimetto l’ossigeno.
Mentre attendiamo che la chirurga compili il referto, telefona in reparto per invitare qualche infermiera a venirmi a prendere. Nulla da fare. Allora, recuperato il referto, ricomincia a spingermi lei. Ed io ricomincio a ringraziarla.
«Se non fosse stato per lei adesso non avrei saputo di avere una trombosi ed un’embolia polmonare. Magari mi curavano solo la polmonite bilaterale e me ne tornavo a casa con la spada di Damocle di un pericolo maggiore sulla testa. Meno male che l’ho incontrata. La fortuna può dispiegare le sue ali anche nella sfortuna. È il mio caso.».
«Ascolti, però lei adesso deve capire perché le vengono queste trombosi. La prima volta cosa le dissero?… Fecero delle indagini?»
«No.»
«Però adesso dovrebbe farle. Ci vuole del tempo. Questo significa che non potrà più andare alla proclamazione della laurea di sua nipote.»
«Mi dispiace tantissimo. Ma mia nipote sono sicuro che mi consiglierebbe prima di tutto di curarmi.»
La dottoressa continua a spingere la mia sedia a rotelle, ma non conosce bene la via. Io le dico che mi perdo sempre in quel labirinto. Alla fine vaghiamo di qua e di là. Lei, giovanissima Arianna che ha preso in mano il filo della mia vita, io, vecchio Teseo, che devo affrontare il Minotauro dell’embolia. Silenzioso e un po’ vergognoso, continuo a dar spazio nella mente alla voce narrante che mi vuole fortunato.
«Chieda a quel signore», a un certo punto, le dico. È un signore che sta guidando uno di quei mezzi di collegamento nel sotterraneo. Le dà l’indicazione giusta e finalmente ritroviamo la strada. In meno di cinque minuti mi lascia in camera mia con carrozzina e annessa bombola d’ossigeno.
«È tutto chiaro».
Dopo un quarto d’ora, torna col volto luminoso a spiegare ai miei familiari la chiave dell’arcano.
«La trombosi ha prodotto l’embolia. Ora dobbiamo capire il perché di queste trombosi. Ci vorrà del tempo. Occorre scoprire se è un fatto genetico oppure no…»
Appena va via, cerco di alleggerire a modo mio la notizia.
«Non vi preoccupate: se è un fatto genetico, vuol dire che dovrò fare una terapia anticoagulante finché muoio. Mia madre ha fatto una terapia col Coumadin per più di vent’anni. Vi ricordate la poesia che avevo scritto?»
Clicco su Google, trovo «L’esistenza emorragica» e leggo ad alta voce:

Non si placa
l’emorragia di gennaio

Chissà il cervello, mi dico,
apprensivo, chissà
se prima o poi un grumo
di sangue non esploderà
sul più bello fra i neuroni
e mi lascerà silenzioso
a vegetare, per me che parlare
parlare è la torta del cuore.

A mia madre certe volte il sangue
affiorava spontaneo sui denti.
I capillari scoppiavano spesso.
Aveva lividi sulle braccia,
sul collo, sulle gambe. Seguiva
una terapia anticoagulante.
Temeva urti, tagli, impatti
violenti. L’esistenza emorragica.
Portava sempre con sé fazzoletti
di carta.

Il cuore esplose
all’alba del diciannove aprile
del Novantanove. Le lasciò un rivolo
di sangue all’angolo sinistro
delle labbra e la trasferì altrove.

«Vedete la mia poesia ha previsto che potessi avere un ictus, ma, grazie alla dottoressa, l’ho sventato. Vabbé ora, al massimo, avrò un’esistenza come quella di mia madre. Però il Coumadin non si si usa più e non dovrò andare, come lei, ogni quindici giorni, a controllare il tempo di protrombina. La terapia prevede altre medicine. Insomma, se campo un’altra ventina d’anni così, va bene lo stesso. L’importante è non vegetare.»
E, rivolto a mia moglie:
«Tesoro, domani portami, per piacere, il computer. Così potrò cominciare a scrivere l’articolo sulla poesia per la redazione di Orione.»
Verso le 18,30 arriva la cena. Io e Giuseppina restiamo soli. Ci guardiamo negli occhi. Io comincio a mangiare il riso con le verdure. Poi, tra un boccone e l’altro, le ripeto ciò che già sa. «Vai a casa – le dico – e stai tranquilla. Vai prima che faccia notte.»
Rimasto solo, sfoglio velocemente i giornali che mi ha portato. Il Corriere della Sera, nella pagina degli Eventi, propone dei Percorsi in quota, in Trentino Alto Adige, la montagna incantata. Fa l’occhiolino ovviamente al famoso romanzo di Thomas Mann, ambientato nel sanatorio di Davos. A me viene in mente quello di Napoli, quello verso i Camaldoli, dove lavorava zia Carmela, la moglie di zio Pietro, fratello di mio padre. Non ricordo bene, non avevo ancora compiuto quindici anni, nella primavera del 1964, li andai a trovare e qualche volta andammo a prendere la zia, alla fine del suo turno di lavoro.

Nella sala delle sedie rosse
l’ammalato vorrebbe raccontare
il nemico delle sue forze.

Tutt’uno con la paura
il bacillo insinua gli alveoli.

Fitta d’attesa, la lastra
dirà cosa vera,
sigillo sarà di un’offesa.

2 pensieri su “Nel tunnel di metà settembre (6)

  1. il lungo racconto a puntate ci riguarda tutti perché penso che la malattia sia l’esperienza piu’ trasversale tra gli umani e ci scopre semplicemente animali feriti. Anche il paesaggio di copertina, il mare e il cielo che accompagnano la tempesta, è in tema con lo sconvolgimento di un corpo che lascia meno spazio alla mente per il distacco… Donato rimane vigile e curioso, ma l’ansia straborda, con i ricordi della madre e di tanti che ci hanno preceduto nella malattia seria, che pur è vita! Il resto del mondo un po’ scolora…eppure va al nocciolo del nostro esistere

  2. Grazie, Annamaria. E’ proprio così: la malattia è un’esperienza che riguarda tutti noi. Siamo animali feriti, vulnerabili. Di più: mortali.

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