Mìneche (3)

Narratorio 13

di Ennio Abate

Quando cominciò a dare importanza a quelle foto? Non era più Chiero. Non era più Vulisse. Non era nemmeno più prof Samizdat. Cominciò a riguardarle, a metterle in ordine e a studiarsele che era ormai vecchio. Per età aveva sopravanzato suo padre Mìneche, che era morto a 71 anni nell’aprile del 1967. Sì, sì, prima dello sconquasso del 1968. E aveva già scritto parecchio su Mìneche. Quando era ancora vivo, la poesia del settembre 1963, quella dove diceva di lui: un uomo antico / con frustino di nocciolo /fra le dita di caldarroste. Ma mai gliel’aveva fatta leggere. La poesia non entrò mai nei pochi discorsi che fece con suo padre. Ma anche con gli amici di SA. Eppure quante volte c’era tornato sopra! Nel 1982 variandola e commentandosela. E nel 1992 psicanalizzandosela a modo suo, per conto suo. Verso per verso. Quelli più chiari e quelli più oscuri. Fin a pubblicarla tradotta dall’italiano in dialetto nella Salernitudine del 2003. E poi tanti pezzi di narratorio (ad esempio, qui), che ogni tanto rileggeva, ora chiedendosi: Mìneche era stato fascista o no? E ora: gli somiglio o no? E se sì, in cosa? E dove invece la mia vicenda è altra cosa rispetto alla sua?

Riprese in mano il pacco di foto gialline conservato per tanti anni, assieme alle altre prima in bianco e nero e poi a colori che si erano andate moltiplicando col passare degli anni, anche se ne aveva fatto sempre poche. Erano foto di Mìneche da solo. O di lui e di suoi commilitoni. Tutti giovani ma con la faccia dei giovani di un’epoca lontana. Impenetrabili. In pose fisse, rigide anche.

Dint’a na fotografie Mìneche ere o primme a destra e cinche surdate, tutte cu nu stemme ncopp’o cappielle, na fiamme ‘n centro (chelle re carabbiniere?) e co fucile appoggiate a terre e tenute ‘nmane ra punte.

Un giorno, scontento di quella sua descrizione impressionistica e svogliata, andò a cercare notizie. O stemme in italiano lo chiamavano fregio a canottiglia. Era ricamato a mano con un filo metallico dorato (per sottufficiali e ufficiali) o argentato (per carabinieri, appuntati e brigadieri). L’immagine-simbolo, che lui chiamava approssimativamente na fiamme, era una granata a mano, di quelle impiegate nei secoli diciassettesimo e diciottesimo, con sopra una fiamma a tredici punte piegata dal vento, che doveva far pensare ai concetti di lealtà, fedeltà, ardore e onore.

E arrete a sti cinche surdate nge steva nu mure e na case cu ddoje feneste cue sbarre e fierre. Tutte giuvani, cu na faccia seria. La bocca chiusa, nessun sorriso. A chiù seria o cu nu sguarde ca pareve assente era chella e Mìneche. Così gli pareva. Mo scherzanne, ere cume se ricesse (ma chest’o pense ie): ma cà che nge faccie? L’aria di tutti gli pareva mesta. assente. Nulla di eroico in quei volti. E pensare a quello stronzo famoso di Marinetti e alle cazzate sulla guerra igiene!
Mo, si a fote ere state fatte veramente nel 1917, Mìneche, ca era nate il 30 novembre 1897, allore – dint’a sta foto – teneve vint’anni. E dal foglio matricolare risultava: «20 gennaio 1917. CHIAMATO Giunto in ter[ritorio] Dich.[iarato] in stato di guerra». E a vent’anni, invece, Chiero ere studente. O cercava di esserlo. O, se avesse seguito a vocazzione…Boh!

Ricite a verità: si nunn’avesse zumpate – a capocchia – tutte chella storia ra vocazzione avrebbe potuto essere pure lui in uniforme, ma ra prevete!

E come faceva a capire chi erano stati quei giovani? Voleva avvicinarsi a quelle tracce di un passato, quasi ventiquattro anni prima che lui nascesse, quando Mìneche non era neppure spusate cu Nannìne e faceva il soldato e si trovava in una guerra che poi sui libri sarebbe diventata la Prima mondiale, la Grande Guerra!
Che fatica. S’accorse che – per disperazione? – gli veniva di pensare e scrivere di quelle cose in dialetto. Come se il dialetto potesse avvicinarlo all’esperienza di suo padre e di quelli che comparivano in quella foto assieme a lui. O scriveva in dialetto perché sperava ancora di trovare parenti o amici sopravvissuti, che quel dialetto lo parlavano ancora? E a loro avrebbe potuto ancora chiedere notizie o far leggere quello che andava scrivendo?

Ma cu chi parle, narratò? Qui l’interlocutore potrebbe essere immaginario, una specie di supplente di quelli che non hanno voluto o potuto più ascoltare il mio racconto. Per tanti motivi. Stanchezza, distrazione. Catturati dalla televisione. O per lo sconforto provato quando s’erano accorti che quel mondo era finito. E che vuoi che dica ai vivi d’oggi? Dormite, giovani morti.


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