
di Donato Salzarulo
DIMISSIONI, VULNERABILITÀ E CITTÀ MALATA
Immerso nel giro di pensieri, suscitati dalla lettura degli articoli sul Corriere, non mi accorgo dell’arrivo della mia “salvatrice”. Parlo della dottoressa Marta Secci.
Mi saluta e mi chiede se può visitarmi. «Certo». Mi tolgo la vestaglia e le agevolo l’auscultazione delle spalle e del petto. Respiro e trattengo il respiro. Mi dice che va bene. Intanto, mi alzo dalla sedia, chiudo il giornale, lo metto sul comodino e mi rimetto la vestaglia. La dottoressa si gira e va via.
Dopo un po’ arriva l’infermiera. Mi comunica che devo raccogliere le feci per verificare l’eventuale presenza di sangue occulto. Devo lasciarle su una pala che mette nel bagno.
Raccogliere feci o urina è operazione che procura sempre un certo disagio. Faccio intendere all’infermiera di aver capito e me ne vado in corridoio a fare due o tre giri.
Prima di mezzogiorno, per fortuna, riesco a depositare un po’ delle mie feci sulla pala. Appena incontro l’infermiera, glielo dico, quasi sottovoce.
Ad un certo punto del pomeriggio, la dottoressa Secci torna in camera.
Sto leggendo La Repubblica. Mi alzo dalla sedia.
«Allora, sig. Salzarulo, domani la dimettiamo»
«Come domani mi dimettete?… Ma non dovevamo capire il perché delle mie trombosi?» «Certo…Abbiamo fatto qui alcuni esami, ne farà altri che le prescriveremo.»
Capisco che il pensiero della dottoressa, responsabile del reparto, ha compiuto il suo naturale percorso e dalla sua mente è passato in quelle degli specializzandi. Sono un po’ deluso, ma non è il caso di prendermela con la mia “salvatrice”.
«Dottoressa, però, non può dimettermi domani. Si ricorda che il due ottobre si laurea a Pavia mia nipote?»
«Certo, mi ricordo.»
«Domani tutti i miei familiari vanno a Pavia…Nessuno potrà venirmi a prendere…Tra l’altro, domani piove. E poi stamattina ho fatto l’analisi delle feci…»
«Per queste abbiamo già il risultato. È negativo. Non c’è sangue occulto…Da domani io cambio turno, farò quello di notte. Dirò al mio collega di rinviare le dimissioni a giovedì…»
«Grazie, dottoressa…Ma mi dimettete senza neanche farmi una Tac per verificare lo stato della polmonite?»
«Sarebbe un esame inutile. È necessario che trascorra un certo periodo di tempo per capire la situazione…»
«Va bene…Allora, ci salutiamo…»
«No, non si preoccupi. Passerò a salutarla giovedì mattina, a fine turno…»
«Grazie, per la sua gentilezza…»
La dottoressa si gira e va via. Io torno a sedermi e riprendo a leggere l’articolo di Enzo Bianchi: «Beata debolezza».
L’ex priore della Comunità monastica di Bose ci invita a distinguere fragilità da debolezza, da vulnerabilità, da imperfezione.
«”Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una possibilità di comunione, la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, necessaria per aiutare l’altro che soffre.
La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia. Della fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della vita. Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato.»
In questa camera d’ospedale fragile è il mio compagno di stanza. Io sono il vulnerabile. Io sono colui che posso dargli una mano, che posso chiamare l’infermiere se ha bisogno di essere cambiato, che posso guardarlo in faccia. Io sono un vulnerabile a rischio di fragilità. Cerco di riprendermi, di essere forte, perché la fortezza è una virtù e non coincide con la violenza, ma è consapevolezza della mia situazione di fondo:
«La debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore. Gregorio Magno dice che se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio.»
Enzo Bianchi è stimolante, lo leggo sempre volentieri.
Oltre a quella individuale, penso che esista una vulnerabilità collettiva; chi appartiene a classi sociali oppresse e subalterne vive un’esistenza più a rischio.
Il guaio è che negli ultimi quarant’anni non si parla più di classi sociali. Oggi noi saremmo la “società degli individui”. Di più, come sostiene Francesca Rigotti, in un suo libro, vivremmo nell’«era del singolo».
L’idea di Margaret Thatcher, secondo cui «La società non esiste, esistono solo gli individui», continua ancora a dominare le menti. Si tratta di ideologia neoliberista.
Per fortuna, qualcosa sta cambiando. Forse ancora troppo timidamente. Meglio che niente. Giorgia Serughetti, ad esempio, nel suo ultimo volume, già nel titolo afferma che «La società esiste» (Laterza, 2023). E Pier Giorgio Ardeni, nel suo «Le classi sociali in Italia oggi» (Laterza, 2024), sostiene che anche le classi esistono.
Ricavo queste notizie dal supplemento domenicale de «Il sole 24 ore» di domenica, che ieri non sono riuscito a sfogliare.
«La preoccupazione principale di Ardeni è allora quella di dimostrare come il conflitto di classe abbia ancora senso. Che analizzare la società con lo schema dell’economia sia ancora il paradigma giusto. E non se ne parla solo perché siamo impantanati nella declinazione quotidiana del neoliberismo e dei suoi camuffamenti sociali. Invece il saggio ci spiega che la lotta di classe avrebbe molti motivi per riproporsi a cominciare dalle istanze dei nuovi diseredati e precari verso i privilegi degli ottimati della rendita e della ricchezza diseguale e polarizzata, mantenuta così anche grazie alle mistificazioni del merito e del mito dell’individuo artefice del suo destino.»
Mistificazioni, ma anche condizioni materiali di esistenza che hanno atomizzato gli individui e li hanno rinchiusi nei cinquanta metri quadri dei singoli appartamenti.
Ciò che è successo forzosamente durante l’epidemia del Covid, è diventata per molti la condizione “normale” di vivere. Se si può lavorare da casa, si può anche ricevere a casa la spesa, i farmaci, i libri, le scarpe; si possono ordinare e pagare bonifici (le varie bollette sono già tutte accreditate in banca); si può interagire con le chat politiche, culturali, amicali; si possono seguire corsi on-line, eventi e consigli comunali in streaming, visitare virtualmente musei, si può leggere e scrivere, fare ginnastica, yoga, meditare… Tutto, tutto in casa, fra le quattro pareti domestiche…
A imprigionarsi in casa così, è quasi meglio stare in ospedale. Almeno quattro parole con qualche medico o infermiere sei costretto a scambiarle. In casa, invece, se sei un single con chi parli?…
Qualche decennio fa si parlava di “città-fabbrica”, oggi potremmo, senza tante perplessità, parlare di “città-ospedale”. Salute / malattia sono categorie senza confini, stati in equilibrio precario. Si può pensare di stare bene e morire d’infarto a 55 anni… Si può morire anche di solitudine in casa.
Spesso la vita transita dalla salute alla malattia senza dare avvertimenti. O accendendo qualche flebile lampadina.
Se non avessi usato il mio paese come tapis roulant, nell’estate del 2017, non avrei capito che qualcosa non andava nelle mie coronarie. Bisaccia non è in pianura come Cologno. È un saliscendi. E certe salite sono abbastanza impegnative. Fu così che, spesso in quelle settimane, al ritorno da Piazza Convento, alla seconda salita, quelle delle Forge, sentii il respiro farsi più ansante del solito e, soprattutto avvertii un dolore, sia pure lieve, dal petto. «Appena torno a casa, andrò dal cardiologo…» pensai. Quando rientrai, non ci andai. La pianura padana attutisce certi dolori.
Ritornando a Bisaccia per i morti, l’allarme si fece nuovamente sentire. Mio cugino mi suggerì, addirittura, di andare in ospedale. Dovendo restare in paese pochi giorni, non avevo nessuna voglia di ricoverarmi. Però, appena tornato a casa, questa volta andai dal mio medico curante e mi feci prescrivere la prima visita cardiologica. Prenotai un appuntamento e a gennaio, subito dopo le festività natalizie, mi ricevette una cardiologa, abbastanza nota a Cologno, per la sua bravura e meticolosità. L’otto febbraio feci un ECG sotto sforzo e dall’ambulatorio mi portarono direttamente in Pronto Soccorso. Finii in Cardiologia, feci una coronografia, e alla fine firmai per un intervento chirurgico: tre bypass. Insomma, restai in questo stesso ospedale dall’otto febbraio al 21 marzo del 2018.
Il riepilogo mentale della scoperta della mia cardiopatia ischemica viene interrotto dall’arrivo di mia moglie e di mia sorella. È l’ora dei parenti e dei familiari ed io ho la novità delle dimissioni da raccontare. Siccome domani non ci vedremo – saranno tutti o quasi tutti a Pavia a festeggiare la laurea di Francesca – rimetto il computer in borsa e dico a mia moglie di riportarlo a casa.
La preghiera della notte me la suggerisce Sylvia Plath, nei suoi «Diari» (traduzione Simona Fefé, Adelphi 1998):
«Fammi essere forte, forte di sonno e di intelligenza e forte di ossa e fibra; fammi imparare, attraverso questa disperazione, a distribuirmi: a sapere dove e a chi dare a riempire i brevi momenti e le chiacchiere casuali di quell’infuso speciale di devozione e amore che sono le nostre epifanie. A non essere amara.
Risparmiamelo il finale, quel finale acido citrico aspro che scorre nelle vene delle donne in gamba e sole. Non farmi disperare al punto da buttar via il mio onore per la mancanza di consolazione; non farmi nascondere nell’alcol e non permettere che mi laceri per degli sconosciuti; non farmi essere tanto debole da raccontare agli altri come sanguino dentro;
come giorno dopo giorno gocciola, si addensa e si coagula.»
Frotte di turisti a Bisaccia per la prova da sforzo