Tendenze autoritarie del neoliberalismo

La lezione di Barbara Stiegler a Biennale Democrazia –
Campus Universitario Luigi Einaudi – 27 marzo 2025

di Donato Gervasio

Docente all’Università Bordeaux-Montaigne, specialista di Nietzsche e studiosa di Foucault, Barbara Stiegler è molto presente nel dibattito politico francese, in particolare per le sue riflessioni sul “macronisme”, il sistema di potere legato al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Ha scritto Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico e La democrazia in pandemia. È qui a Biennale Democrazia per parlare delle sue ricerche, che conduce da molti anni, sulla storia del neoliberalismo.

“Neoliberalismo e democrazia: la pace è la guerra e la guerra è la pace”: il titolo della lezione di Barbara Stiegler, che sostituisce quello annunciato (“Una lotta disperata, ma con molto fair play. Società e politica ai tempi del neoliberismo”) è un esplicito riferimento alle parole che, nel mondo creato da George Orwell in 1984, significano il contrario di quello che dicono.
“Il neoliberalismo fa un discorso di pace o di guerra?” Con questa domanda Stiegler comincia la sua riflessione. Prima di rispondere ci offre alcuni punti di riferimento storici: Il neoliberalismo, nato negli anni Trenta del Novecento, è una delle conseguenze della crisi economica del ‘29 e della crisi del liberalismo classico. I neoliberali ritengono necessario un più marcato intervento dello Stato nell’economia e in tutti gli ambiti della vita sociale, combattono i fascismi e si fanno promotori della pace mondiale, condizione necessaria per la creazione di un mercato globale.
“Ma oggi, e in modo davvero sorprendente – afferma Stiegler – i nuovi neoliberali sono i primi a volerci preparare mentalmente alla guerra.” E ci offre due esempi di questo “incredibile capovolgimento”: Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: entrambi si fanno sempre più sostenitori di un “discours guerrier”.
Stiegler tiene a precisare che questo discorso di guerra non si è manifestato in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma ha cominciato ad affermarsi durante gli anni dell’emergenza Covid. Macron, infatti, nel discorso che annunciava alla nazione le nuove restrizioni per combattere la pandemia, ha ripetuto per ben diciassette volte “Nous sommes en guerre” e ha chiamato “la patrie” all’“Union sacrée” contro il virus. Per Stiegler, la gestione autoritaria e repressiva dell Covid è stata dominata dalla metafora della guerra.[1]

La parola “guerra”, in riferimento alla lotta contro il virus, ha ancora un significato metaforico, ma quando Macron afferma: “Nous sommes en guerre contre la Russie”, senza che la Russia abbia attaccato la Francia, vuol dire che siamo al termine di una “conversione guerriera” del neoliberalismo, e questa volta “guerra” non è più una metafora.
Come è stato possibile, si chiede la filosofa, che il discorso di pace si sia trasformato in pochi anni in un discorso di guerra? Per rispondere è necessario esaminare il rapporto ambiguo che il neoliberismo ha sempre avuto con la democrazia fin da quando si è affermato negli anni Trenta.
Stiegler individua in Walter Lippmann, figura centrale di Bisogna adattarsi, il teorico più importante del neoliberalismo. Bisogna adattarsi ad ogni costo a un grande mercato mondiale e pacifico, senza frontiere e chiusure: questo era il credo di Lippmann.[2]
Negli anni Novanta, dopo la fine dell’Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino, è sembrato che l’ideologia del neoliberalismo avesse realizzato tutte le sue promesse: trionfava il capitalismo, trionfava la democrazia liberale, Fukuyama profetizzava la “fine della storia”, la fine dei conflitti, la pace. Una vittoria di breve durata.
“Quello che voglio ora dimostrare – sostiene Stiegler – è che il neoliberalismo, dietro il discorso di pace, ha in realtà sempre sostenuto la guerra. Una guerra che si è voluta mostrare rivestita di pace. È la guerra, intesa come lotta di tutti contro tutti, nel cuore dell’ideologia neoliberale.”

Il neoliberalismo è una teoria economica ma anche una teoria della democrazia e, in quanto tale, reinterpreta i termini greci di demos, “popolo” e di kratos, “potere”, che sono all’origine della parola “democrazia”. Il pensiero neoliberale, afferma Stiegler, rifiutando la nozione di “popolo sovrano”, ha “polverizzato” il demos: “Invece di avere un demos sovrano, abbiamo un aggregato di sabbia, un collettivo di individui isolati e atomizzati in lotta gli uni contro gli altri.”
Questa lotta – il solo legame tra gli individui – è la competizione permanente che si riscontra in tutti gli aspetti della vita sociale: scuola, salute, commercio, lavoro. [3]

Per quanto riguarda il kratos, il pensiero neoliberale – continua Stiegler – riprende la vecchia teoria del governo elitario secondo la quale il popolo, ritenuto incompetente, apatico e indifferente agli affari pubblici, non ha le capacità per governare. Il kratos, dunque, non può appartenere al demos, ma a una élite politica che, con l’aiuto di leader del mercato ed esperti in ingegneria sociale, sa come adattare la specie umana al nuovo ambiente creato dalla globalizzazione.
I liberali del XVIII secolo consideravano ogni individuo naturalmente adatto al mercato. Adam Smith pensava che ognuno fosse “fatto bene” per scambiare del pane con della birra o con qualsiasi altro tipo di merce. Per il pensiero neoliberale questo ottimismo è ritenuto infondato, perché la specie umana è, al contrario, “fatta male”, incapace sia di governare sia di andare sul mercato.

Da dove deriva questa incapacità? Secondo l’antropologia neoliberale analizzata da Stiegler, gli uomini si sarebbero adattati fin dalla preistoria a un ambiente chiuso e stabile, come la vita tribale, la comunità del villaggio, la piccola città. Ma il nostro cervello, il nostro sistema nervoso e le nostre emozioni sono in una situazione di totale incapacità di adattamento al nuovo ambiente circostante creato brutalmente con la rivoluzione industriale e poi con la globalizzazione. Per i nuovi liberali bisogna perciò fabbricare artificialmente gli agenti del mercato, educare la specie umana. Le parole chiave di questa “buona educazione” sono adattabilità, polivalenza, mobilità, flessibilità, capacità di acquisire continuamente nuove competenze.
Stiegler vede così delinearsi una visione autoritaria del potere e delle tendenze estremamente invasive, una ingegneria sociale onnipotente che trasforma tutta la società – scuola, ospedali, infanzia, lavoro… Il demos, espropriato, lascia il potere agli esperti; il kratos educa la società al fine di adattarla al mercato. [4]
La teoria neoliberista è una demagogia che non ha niente a che fare con le due grandi esperienze della storia della democrazia, quella ateniese del V secolo a.C e la rivoluzione francese, dove si ritrova il senso vero della sovranità popolare in quanto il demos esercita il kratos. Per i democratici ateniesi e i rivoluzionari francesi solo il popolo ha la competenza per capire qual è l’interesse generale. [5]

La competizione, gara o lotta, che si instaura tra persone o gruppi, viene presentata come un gioco, come una leale gara sportiva. Per questo la cultura liberale è stata sempre attenta allo sport. Anche la competizione sul mercato viene proposta come competizione leale, fair play. La riflessione sulle regole ci porta ad un altro punto fondamentale, al ruolo del diritto nelle nostre società. La giustizia, secondo Stiegler, è stata requisita: non è più l’espressione del popolo sovrano, è l’insieme delle regole del gioco.

Il neoliberalismo ha fabbricato un consenso di massa enorme e ha esercitato il suo potere seduttivo anche sulle ideologie politiche che lo hanno combattuto. Questo spiega la deriva neoliberale della sinistra italiana o dei socialisti francesi.
Ma oggi, sostiene Stiegler, il neoliberalismo è in crisi e sta cercando nuove strade per creare un nuovo consenso.
“Per molto tempo la sublimazione delle pulsioni guerriere in gioco competitivo ha ben funzionato: il neoliberalismo è riuscito a fabbricare un consenso generale alla globalizzazione e ha fatto in modo che la guerra di tutti contro tutti venisse dissimulata nella competizione in un gioco all’apparenza leale, basato su regole giuste, chiamate “l’égalité des chances”. La guerra di tutti contro tutti è potuta così apparire come un discorso di pace.
Questo equilibrio, a partire dagli anni Duemila, è stato rimesso in discussione dalla coscienza ecologica, dal fatto di aver capito che il neoliberalismo ci sta portando alla catastrofe. Stiegler elenca una serie di altre cause, molto diverse tra loro, che hanno contribuito a far perdere la fede nei dogmi neoliberali: il rifiuto, nel 2005, del Trattato costituzionale europeo, l’arrivo al potere di Donald Trump e di partiti di estrema destra contrari alla globalizzazione, il movimento dei Gilets jaunes. Si è capito che la globalizzazione non significa prosperità, pace e democrazia. Il consenso viene rimesso in discussione da ogni parte: dalla destra, dalla sinistra, dai sovranisti, dagli ecologisti. L’Italia è per Stiegler un buon esempio di questa crisi. L’arrivo al potere di Giorgia Meloni va interpretata come una crisi del neoliberalismo: Meloni è a favore delle frontiere, è per la chiusura su se stessi, è l’amica di Trump.

Oggi il pensiero liberale abbandona il discorso sulla globalizzazione e cerca il consenso non più attraverso il gioco della competizione, ma attraverso la guerra.
Si è già visto il neoliberalismo, contestato da ogni parte, “impadronirsi” del Covid per affermare la propria visione del mondo: l’esercizio autoritario del potere e la digitalizzazione forzata della società. Gli esempi più eloquenti sono stati la scuola – tutte le scuole diventano e-learning – e la sanità.[6]
“Oggi vediamo lo stesso regime utilizzare la minaccia della guerra per liquidare lo stato sociale. Per far fronte alle esigenze della guerra, è necessario lavorare sempre più a lungo. In Italia questo è un discorso che si sente meno, perché Giorgia Meloni rifiuta di inviare i soldati a combattere contro la Russia. Ma noi, in Francia, “siamo in guerra contro la Russia”, e quindi ci viene detto che dobbiamo lavorare fino a settant’anni. In vista della guerra bisogna ridurre le spese dello stato sociale a profitto di una economia di guerra: questo è il discorso dei neoliberali in Francia…
La conversione alla guerra è il volto nuovo del neoliberista degli anni Duemila. Egli è capace di reinventarsi come patriota e come bellicista, conservando in questo modo ciò che ha sempre fatto parte del suo cuore ideologico: la competizione. Non più come gioco sublimato, ma come guerra vera… Ecco perché con il neoliberalismo si può dire che la pace è la guerra e che la guerra è la pace. Questa è la grande confusione dei segni che ci impongono i neoliberali, e lo fanno in modo sempre più visibile e spettacolare, al punto tale che dobbiamo ricordare loro il senso vero delle parole: no, la democrazia non è l’oligarchia e l’oligarchia non è la democrazia, la pace non è la guerra e la guerra non è la pace.”

Dopo il suo intervento Barbara Stiegler risponde ad alcune domande, una delle quali chiede di precisare quale rapporto c’è oggi in Francia tra neoliberalismo ed estrema destra. Nella sua risposta Stiegler afferma che si osserva un’ibridazione sempre più netta tra neoliberali ed estrema destra. Sono uniti, per esempio, quando si tratta di definire il “nemico interno”, che viene individuato nella gauche radicale e nei mussulmani. La gauche radicale combatte affinché i mussulmani, in nome della laicità, possano integrarsi nella società, ma l’Islam è considerato sempre più come non compatibile con la République.

Chiedo a Barbara Stiegler un suo parere sul discorso che il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha pronunciato all’Università di Marsiglia, e precisamente sul punto in cui, parlando delle analogie inquietanti tra la situazione politica degli anni Trenta e quella odierna, definisce l’aggressione russa all’Ucraina della stessa natura del progetto del Terzo Reich. Stiegler risponde che certo, siamo in presenza dell’invasione di un paese libero, le cui cause hanno radici remote, ma quello che non rende solida questa tesi è il fatto che nel progetto politico di Putin, a differenza del progetto del Terzo Reich, non si vede l’intenzione di impadronirsi dell’Europa.



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