
di Donato Salzarulo
LE DIMISSIONI E IL PENSIERO AFFETTIVO
Venerdì. La giornata comincia con un altro prelievo.
«No, un altro giorno qui non ci sto!»
Compiute le azioni che ogni mattina compio da quando sono ospite di questo reparto, mi precipito in corridoio per capire la mia sorte. Nessuno la conosce. Gli unici sono i medici che ancora non si vedono. Finalmente, verso le dieci, il dottore specializzando, in divisa bordeaux, passa a visitarmi e mi conferma che, entro mezzogiorno, riceverò la cartella clinica delle dimissioni. A questo punto, mi tranquillizzo e telefono a Giuseppina. Verso le undici lei e Tina potranno venire in camera. Sono in pigiama e vestaglia. In valigia non ho nulla. Quando ero nella camera di Osservazione Breve Intensiva (in sigla: OBI), mia moglie portò via tutto: pantalone, camicia, maglione.
Dovendo aspettare, sfoglio distrattamente i giornali di ieri. Ogni tanto butto l’occhio al di là della vetrata. Tempo brutto, umido, con pioggia a tratti. Non poteva esserci un po’ di sole? Il cielo non poteva partecipare all’allegria di questo mio momento. Allegria?!… Boh.
Forse sarebbe stato meglio restare qui e fare tutti gli esami che mi prescriveranno. Invece, mi mandano a casa e da lunedì dovrò sbattere la testa tra la “Casa di comunità” di via Boccaccio (adesso la chiamano così) e i CUP ospedalieri. CUP…Centro Unico di Prenotazione. Ormai viviamo in una foresta di sigle ed acronimi. Pazienza.
Torno ai miei giornali. Dopo una mezzoretta ho chiaro quali sono gli articoli che leggerei e rileggerei. Sono più di una decina. Ma mi sono imposto di sceglierne non più di tre.
Oggi i candidati al podio, tenendo presente il mio coinvolgimento emotivo e cognitivo, sono:
1°) La recensione di Roberto Esposito del libro-epistolario di Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos intitolato «Il pensiero affettivo» (Feltrinelli, 2024);
2°) Il percorso di letture di Velio Abati su Fortini insegnante, prendendo sinteticamente in esame quattro libri pubblicati recentemente: il primo è di Chiara Trebaiocchi, «Reschooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini.» (Pacini, 2024); il secondo raccoglie le testimonianze di ex-allievi, a cura di Lauretta D’Angelo, Paolo Massari e Lorenzo Pallini, con una post-fazione di Donatello Santarone, «Allora comincerò… Franco Fortini nel ricordo dei suoi studenti» (Bordeaux, 2024); il terzo è di Lorenzo Tommasini ed è intitolato «Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università» (Quodlibet, 2024) e l’ultimo, a cura di Ennio Abate, è quello al quale partecipai anch’io con un mio scritto. Si intitola: «Se tu vorrai sapere…Testimonianze per Franco Fortini», scaricabile dal sito di Poliscritture.
3°) La nota di commento di Maria Teresa Carbone intitolata «Riflessioni su una generazione che non legge più».
Ho messo al primo posto la recensione sul “pensiero affettivo” perché, qualche giorno fa, mentre scrivevo l’articolo sulla poesia per Orione, verso la fine, per indicare che la poesia non è solo sentimento o solo ragione, ho fatto ricorso al sintagma “pensiero poetante” che Prete usa per Leopardi. Ora mi dico che forse “pensiero affettivo” poteva andare altrettanto bene. Dovrei leggere il libro. Per il momento deve bastarmi ciò che ne scrive Esposito. I contenuti fondamentali su cui Bompiani e Thanopulos si confrontano sono, a suo parere, tre: il primo è relativo al rapporto tra affetto e pensiero, il secondo riguarda la centralità del corpo, il terzo ha per oggetto il significato dell’illusione.
Sul primo punto: è del tutto evidente come affetto e pensiero si intreccino continuamente. L’uno e l’altro sono distinguibili, ma non sono separabili.
«Dove nasce questo rapporto. Nella sfera emotiva o in quella intellettuale? Quale dei due precede e contiene l’altro? È meglio parlare di pensiero affettivo o di affetto pensante? […]
Bompiani parte dall’idea, o meglio dall’intuizione, che l’affetto sia una forma di pensiero, e dunque che il pensiero lo preceda e lo contenga, come il sollevamento dell’arco anticipa lo scoccare della freccia, anche se questa è destinata a volare lontano. Ma ciò non vuol dire in nessun modo ridurre la forza di un affetto che vivifica il pensiero. Essi s’inseguono come yin e yang, stretti in un processo di reciproca trasformazione. La stessa autrice ricorda di essere stata vicina a un malato di Alzheimer che, pur avendo perso l’attività del pensiero, continuava ad amare, soffrire, desiderare. Anche la dichiarazione della preminenza del pensiero sull’affetto nasce da una spinta affettiva, a significare l’indissolubilità delle due esperienze.»
Thanopulos prende posizione contro Freud e contro Lacan. Al primo contesta “l’idea della psicoanalisi come protezione della ragione dall’eccesso pulsionale”, al secondo “la tesi che siamo parlati dal linguaggio”; preferisce accostarsi alle prospettive di Winnicott e Bion.
«Poi dopo aver sostenuto il principio che l’affetto è la forza motrice di ogni pensiero, sembra modificare la propria posizione, facendo propria la tesi dell’interlocutrice. Ma a una precisa condizione: che si sottragga l’esperienza, affettiva e pensante, al primato del linguaggio. Che questo sia presupposto alla vita emotiva è contraddetto sia dalla condizione infantile che da quella animale, entrambe prive di parola, eppure percorse ed animate da affetti. Del resto anche Bompiani afferma, con Manganelli, che Dio è il “non-linguistico”. Se la lingua è lo strumento, non è la fonte della comunicazione, costituita dal silenzio. Non è il silenzio la lingua degli angeli?»
Conclusione su questo primo punto. Mi pare difficile, se non impossibile, indicare o teorizzare la genesi o la precedenza dell’uno o dell’altro. Alcuni esempi che vengono richiamati sono molto istruttivi. Anch’io ho avuto esperienza con un malato d’Alzheimer.
Si tratta di mia zia Francesca con cui ho vissuto notte e giorno per otto mesi e successivamente ne ho seguito l’evoluzione nella Fondazione Martinelli di Cinisello. Le manifestazioni d’affetto non sono venute mai meno. Quanto al suo pensiero difficile dirlo. All’inizio pensavo ad un muro che, giorno dopo giorno, si scrostava fino alla caduta totale dell’intonaco.
Pure la condizione infantile mi è nota, quella che precede l’acquisizione della lingua, così come mi è noto lo scodinzolare di gioia di un cane. Ho avuto in casa, per oltre dieci anni, una cagnetta che si chiamava Milù.
Infine, non so quanto la conversazione epistolare fra la Bompiani e Thanopulos possa essere accostata alle ricerche sull’«intelligenza emotiva» oppure alla «teoria dei sentimenti». Ciò che mi sembra indiscutibile è l’intreccio continuo tra affetto e pensiero.
Il secondo argomento su cui sia la scrittrice che lo psicoanalista convergono riguarda, afferma Esposito, la centralità del corpo:
«Qualsiasi dei due precede l’altro, affetto e pensiero, per esistere, hanno bisogno di un corpo in cui radicarsi. Differentemente da una lunga tradizione filosofica che ha escluso il corpo dal proprio orizzonte, sia Bompiani che Thanopulos insistono sul suo assoluto rilievo. All’origine dell’affetto e del pensiero vi è il respiro dei polmoni e il battito del cuore. Non esiste vita senza questo doppio ritmo, fatto insieme di pulsazione e vibrazione. Sangue e anima sono entrambi legati al corpo. Ma a esso fanno capo tutti gli organi del senso: polmoni, naso, pelle, umori, cuore, sesso. Tutto nasce e tutto muore col corpo.»
Sono assolutamente d’accordo. Sono qui in ospedale per la mia “casa del respiro” ammalatasi improvvisamente e, in questo stesso ospedale, sei anni fa le mie coronarie sono state rinforzate con tre bypass. Sulla centralità del corpo non ho proprio nulla da aggiungere. Anzi, c’è da meravigliarsi che si possa esercitare ancora il “mestiere di pensare”, astraendo dal corpo, facendo finta che non esista.
Infine, il terzo punto in discussione è riferito al significato dell’illusione.
«Entrambi gli autori evitano di confonderla con l’inganno. Essa costituisce un ponte decisivo tra pensiero e desiderio. Rende abitabile e desiderabile il reale. Ma si limita a investirlo o arriva a costituirlo? Su questo i due tornano a dividersi. Se per Thanopulos l’illusione lambisce la realtà, per Bompiani è in grado di produrla, dando vita a qualcosa che prima non c’era. L’esempio che fa è assai calzante: un medico che “illude” un malato incurabile di poter guarire può incidere effettivamente sul suo stato di salute, modificando la sua realtà vivente.»
Questa importanza attribuita all’illusione mi sembra molto significativa. Illudersi non è necessariamente sintomo d’errore o d’infantilismo. Mi pare che sia stato proprio Winnicott a dare al termine una connotazione nuova. Gli “oggetti transizionali” (la bambola, l’orsacchiotto, ecc.) materializzano l’illusione dell’unità primitiva madre buona-bambino. Gli oggetti sono simboli di ricongiungimento con la madre temporaneamente assente.
Questa fiducia si continua a cogliere forse negli adulti che si rapportano agli altri in modo non diffidente o sospettoso, proiettando su di loro il fantasma della “madre buona”. L’idea dei fiduciosi è che le proprie aspettative e i propri bisogni possano ricevere una corrispondenza o, almeno, una risposta positiva dalle altre persone incontrate nel cammino della vita. Che bella fortuna sarebbe. Ovviamente spesso non è così. La madre delude, può essere assente, non riuscire a colmare le tue mancanze, può avere bisogni suoi che frustrano i tuoi…Se succede ad una madre, figurarsi ad una persona che si incontra.
Insomma, la realtà non è quella che immagini, le persone hanno i loro limiti. Tu stesso li hai. Ciò non toglie che quella tua illusione si ripeta, quella capacità di illuderti, acquisita nel rapporto originario con tua madre, non venga in alcun modo compromessa, danneggiata. Sai l’una e l’altra cosa. Sai che t’illudi e sai che la realtà non andrà come t’aspetti.
In ogni caso, che male c’è a dar credito al nostro prossimo? Che male c’è ad amarlo? Al di là di Winnicott e del proprio rapporto con la madre, non c’è un comandamento che lo ordina?
Che male c’è a pensare che una dottoressa, guardandoti con attenzione, abbia notato il tuo respiro corto, ti abbia rivolto delle domande e ti abbia “salvato”, inviandoti a fare una Tac? È ciò che è successo. Se poi questa dottoressa ti spinge in carrozzella e ti porta dalla sua collega esperta di ecocolordoppler, cos’altro puoi pensare, se non che è una persona generosa?… Hai valorizzato elementi reali di una relazione professionale, li hai caricati emotivamente, li hai investiti d’affetto, fino a mostrare, regalandole il tuo libro, le parti più “nobili” di te. Cosa c’è di male in tutto ciò? Nulla credo. Potresti esserti illuso sulla “viva intelligenza”, “curiosità”, “generosità” e “umanità” di questa dottoressa. Può essere. Ma sarebbe un problema suo, non tuo. Tu l’hai innalzata al ruolo di “salvatrice”. Esagerazione? Iperbole? Può darsi. Ma tu non hai scritto che è la “salvatrice” di tutti i pazienti. È la tua “salvatrice”. Essere “salvato” era sicuramente il tuo desiderio, se solo si pensa ai deliri che hai vissuto, all’angoscia delle notti a casa tua e al Pronto soccorso…
Stavo continuando a nutrire questi pensieri sull’illusione, quando Giuseppina e Tina entrano in camera. Ci salutiamo e ci organizziamo per portar via tutto.
Vado in bagno accompagnato da mia moglie e comincio a vestirmi. Nel pantalone grigio-azzurro, di mezza stagione, che prima mi andava un po’ stretto, ora quasi ballo. A casa scoprirò che in questi quindici giorni ho perso quasi cinque chili. Pensavo di aver la cintura nella valigia e non ce l’ho. A casa Giuseppina scoprirà che non avevo guardato bene.
Vivo, come al solito, con la testa tra le nuvole. Intanto, non ho nulla, neanche uno spago, da mettere nei passanti del pantalone e legare sui fianchi. Devo gonfiare la pancia o arrangiarmi con le mani e tirar su ogni tanto. È una situazione un po’ comica, ma non durerà a lungo.
Sulla soglia ecco apparire la responsabile del reparto con l’altro medico specialista, che porta sotto il braccio la mia cartella piena di documenti. La dottoressa m’illustra la terapia anticoagulante che devo seguire: il nome del farmaco e le due pillole da prendere ogni giorno, alle otto del mattino e alle otto di sera. La cardioaspirina è sospesa, mentre rimangono invariate le altre pillole: quella per la protezione gastrica, quella betabloccante, quella per la pressione e quella anti-colesterolo.
Poi mi consegna una busta con dentro la Relazione clinica alla dimissione, il referto di un’analisi del sangue del 30 settembre, il piano per la terapia anticoagulante, e tre certificati: uno per la prima visita di sorveglianza della terapia anticoagulante, un altro per la gastroscopia e la colonscopia e l’ultimo per la TAC del torace e dell’addome con contrasto e senza…Un bel respiro. Ricapitolo e ridico tutto ciò che devo fare per controllare se ho capito bene.
«Sì, ha capito bene», mi dice la dottoressa.
Comunque, non ascolto da solo. Con me ascoltano anche Pina e Tina. Quindi, se qualcosa dovesse sfuggirmi, mia moglie può aiutarmi a ricordare.
Assolto il compito, la responsabile e l’altro medico ci danno la mano e ci salutano cordialmente. Noi prendiamo buste e valigetta e ci avviamo verso l’uscita. Mi copro ben bene. Indosso un giubbotto, il cappello e un foulard di mia moglie intorno al collo. Per fortuna, ha smesso da un quarto d’ora di piovere e possiamo avviarci verso l’uscita con gli ombrelli chiusi in mano.
Io e Tina aspettiamo sul marciapiede dell’ospedale e Giuseppina va a prendere la macchina al parcheggio. Ogni tanto mi tiro su il pantalone con le mani.
Mia moglie non ci impiega molto. La macchina non era molto lontana. Mi accomodo al suo fianco e mia sorella nel sedile posteriore. Parte. Conosce la strada a menadito. L’ha percorsa centinaia di volte. Cologno è quasi incollata all’Ospedale e al capoluogo lombardo. Tina suggerisce di andare per via Milano, così la lasciamo a casa sua, in centro. Noi, invece, andiamo verso Ginestrino, per le strade di un mio vecchio sogno, andiamo in periferia, nel luogo in cui i miei genitori hanno abitato e sono morti.
Per mezzogiorno siamo sul cancello del nostro condominio. Saluto il custode. Cammino sul breve tratto di strada del giardino interno e salgo le scale di casa. Finalmente. Aria di casa. Profumo di casa.
Mi siedo sul divano e comincio a leggere la Relazione clinica firmata dalla responsabile del reparto. M’accorgo subito che qualcosa non va. Sulla diagnosi leggo della mia polmonite bilaterale, dell’embolia polmonare, del rash cutaneo da ceftriaxone, ma non vedo scritta la trombosi venosa profonda al poplite della gamba sinistra. Come mai? All’interno c’è qualche accenno fugace, ma tutto il mio girovagare con la dottoressa Secci che mi spinge in carrozzina per fare l’ecocolordoppler agli arti inferiori proprio non lo vedo.
Glielo dico a mia moglie indaffarata in cucina. Mi suggerisce di parlarne con Antonio. Chi meglio di lui? Convengo e continuo a leggere e rileggere le sei pagine della Relazione, finché non odo la voce di Giuseppina che mi chiama a tavola.
Tortellini in brodo di pollo e relativa coscia. Addio allo scorfano, che pure non era male.
Oggi vorrei esser felice volentieri…
Oggi vorrei esser felice volentieri,
esser felice e incedere frondoso di domande,
aprir per temperamento del tutto la mia stanza, come pazzo,
e reclamare, infine,
disteso sulla mia fiducia fisica,
solo a veder se vogliono,
solo a veder se vogliono provar la mia spontanea posizione,
reclamare, dicevo,
perché mi picchiano così sull’anima.
Vorrei dunque in sostanza esser contento,
agire senza bastoni, laica umiltà, né da asino nero.
Così le sensazioni di questo mondo,
i canti congiuntivi,
la matita che persi nel mio vuoto
ed i miei amati organi di pianto.
Fratello persuasivo, compagno,
padre per grandezza, figlio mortale,
amico e rivale, immensa verifica di Darwin:
a che ora, dunque, verran col mio ritratto?
Alle gioie? Forse sulla gioia vestita a morto?
Ancora prima? Chi lo sa, alle sfide?
Alle misericordie, compagno mio,
uomo ai margini e in osservazione, vicino
dentro il cui collo enorme sale e scende,
sciolta per natura, la mia speranza…
CÉSAR VALLEJO