Tra condizione periferica e solitudine ideologica


La pubblicazione del mio “Nei dintorni di Franco Fortini” è stata un’occasione inaspettata per riallacciare un dialogo con Eros Barone, filosofo marxista e leninista, con il quale avevo avuto alcuni scambi puntigliosi e duellanti sulla storia e le “nostre verità” del comunismo attorno al 2014-2015 sul blog letterario LE PAROLE E LE COSE.  Inaspettata è stata anche la sua acuta e benevola recensione – la prima che  il mio libro, pubblicato da Punto Rosso agli inizi del gennaio 2025, ha ricevuto (QUI). Questa lunga lettera è la sua risposta ad alcune questioni (la  “perifericità” della mia lettura di Fortini, la Totalità, il  marxismo di Fortini, il suo rapporto con la poesia, la  sua particolare religiosità o spiritualità, la sconfitta del ’68 e della nostra generazione) che gli avevo posto commentando la sua recensione in una mail del 7 marzo 2025.  Ringraziandolo, la pubblico su Poliscritture perché, nel panorama di scetticismo disincantato e postmoderno,  scava in modi davvero coraggiosi, accurati e ancora saldamente ancorati   alla lezione teorica ed etica dei nostri antenati marxisti e leninisti, i temi da me forse trattati con qualche inquietudine di troppo. [E. A.]

di Eros Barone

Tra condizione periferica e solitudine ideologica

Quando lessi su «Quaderni piacentini» l’articolo di Franco Fortini intitolato Vicini e distanti, un testo che prendeva lo spunto dal «Doppio diario» di Giaime Pintor, la sensazione che provai fu quella di un lampo che all’improvviso illumina un paesaggio rivelandone, sia pure per una frazione infinitesimale di tempo, ogni piega e ogni anfratto. In effetti, la connessione, che caratterizza quello scritto, tra reazioni personali e reazioni sociali di classe ne fa un perfetto ologramma della storia dei rapporti tra la grande borghesia e la piccola borghesia (storia che, nella sua globalità, non è stata ancora ricostruita, ma che, una volta ricostruita, illuminerebbe di una luce radente molti aspetti delle vicende italiane). In effetti, di là dalle reazioni scandalizzate e censorie che quell’articolo determinò in Luigi Pintor e nella Rossanda il tema che emergeva era proprio quello, sia in senso etico-sociale che in senso psicologico-morale, della “condizione periferica”: tema centrato da Fortini con acutezza straordinaria, e sulla base di una sofferta testimonianza personale vissuta nella drammatica congiuntura creata tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 dalla sconfitta militare e dalla disgregazione politico-istituzionale dello Stato italiano. Sennonché, a parte il giudizio, peraltro ineccepibile, sulla personalità di Giaime Pintor, il nocciolo di quel testo fortiniano era l’affermazione di una continuità, culturale e di classe, tra un certo settore del fascismo e un certo settore del postfascismo (il che ripropone, sulle orme delle analisi di Giacomo Noventa e di Augusto Del Noce, la scottante attualità del tema dei rapporti tra la grande borghesia e la piccola borghesia). Né si poteva considerare irrilevante il fatto che uomini come Elio Vittorini, Giaime Pintor e Pier Paolo Pasolini fossero tutti, in camicia nera, al convegno di Weimar dell’ottobre 1942.

Del resto, il sintagma “condizione periferica”, strettamente unito al sintagma “solitudine ideologica”, è risuonato a lungo nella mia mente e ha polarizzato le mie riflessioni, contribuendo a definire in modo paradigmatico una situazione antropologica, sociologica e morale che, come marxisti e come comunisti, stiamo vivendo da molto tempo: perlomeno a partire dalla liquidazione del PCI, inteso non nella sua sostanza reale di partito comunista progressivamente socialdemocratizzato, ma nella sostanza, percepita da molti ‘in basso’, e che pure ha contato parecchio per molti (sempre ‘in basso’ e a qualche livello ‘intermedio’), di movimento incentrato su una comunità fraterna e solidale cementata da valori alternativi a quelli dominanti nell’ambiente sociale circostante (e si trattava talvolta della nostra stessa famiglia), laddove tale comunità era rappresentata, in primo luogo, dalla sezione territoriale del Partito. Questo è il vero significato del sintagma “solitudine ideologica”. Quanto abbia pesato e quanto abbia contato per ciascuno di noi la condizione descritta da questo sintagma si capisce agevolmente ripercorrendo le nostre vicende biografiche nel territorio, nel luogo di lavoro, nella scuola e anche nei rapporti interpersonali.

Proprio perché ho sperimentato questa solitudine nella forma più pesante, ho ritenuto giusto, caro Ennio, “mon semblable, mon frère”, informarti circa la causa, lo svolgimento, l’esito  e gli insegnamenti della vicenda politico-giudiziaria che mi ha visto coinvolto per oltre un decennio (2006-2017). Su tale vicenda ti ho quindi fornito un ragguaglio legato al parallelo con un’analoga vicenda in cui è rimasto coinvolto recentemente il professor Luciano Canfora, vicenda conclusasi, grazie alla saggezza dimostrata, in questo caso, dalla Meloni, con la decisione di ritirare la querela per diffamazione. Scendendo dal ‘centro’ alla ‘periferia’, sta di fatto che il dispotismo leghista è stato sconfitto all’interno della sua roccaforte, là dove io lo sfidai equiparando in modo del tutto legittimo la sua ideologia e la sua pratica al nazifascismo.

Esterina

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra
l’arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.
La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.
L’acqua’ è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura.
Hai ben ragione tu!
Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.
Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.

(Eugenio Montale, dagli Ossi di seppia, 1924)

Ti domanderai, stimato Ennio, perché io abbia riportato questa mirabile poesia di Montale, e certamente non ti sfuggirà – splendido omaggio alla natura orfica, divinatoria e profetica, della poesia lirica, giacché entrambi sono nomi teoforici – che basterà sostituire al nome di “Esterina” quello di “Giaime” per ottenere, all’insegna della Gattungswesen di marxiana memoria, corretta dall’eurisi per opposizioni di classe, un’equazione sorprendente, che approssima il caso biografico di Giaime, còlto e trasposto perfino nei minuti particolari personali, al caso prosopografico di Esterina veduto e immaginato dal poeta ligure (e il Mar Ligure è un mare profondo…), laddove la condizione che viene descritta è proprio quella, amaramente esemplare e aridamente emblematica, della piccola borghesia, quale è riassunta nel distico finale: «Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra». E per un raffronto, sempre incentrato sul rapporto di classe, emulativo e compensatorio, tra piccola borghesia e grande borghesia, pensa all’ottica narrativa bassaniana, tra omodiegetica ed eterodiegetica, del Giardino dei Finzi-Contini.

Sulla fraternità e sul Partito

Se vi è un fattore che giova ad illuminare la tematica della condizione periferica, aprendo il varco non solo ad una più penetrante disàmina della spiritualità fortiniana, ma anche alla sua corretta trasvalutazione sul piano dell’etica comunista, ritengo che tale fattore consista nella divergenza che intercorre tra un orientamento che si potrebbe definire ‘orizzontalista’, quindi borghesemente cosmopolitico, e un orientamento dialetticamente modulato in senso ‘verticalista’. Si tratta allora di chiarire la differenza categoriale tra i due opposti antitetico-speculari rappresentati dal paradigma “orizzontalista” e dal paradigma “verticalista”, che nel corso della modernità si sono fronteggiati, incrociati e alternati. Laddove per il primo paradigma, caratterizzato dall’immanenza e dagli individui, l’ordine procede (se e quando procede) non da un’‘auctoritas’ centrale ma dalla dinamica spontanea delle interazioni tra i soggetti sociali, e per il secondo paradigma la società è un sistema che funziona secondo un principio di unità che occorre saper identificare, giacché esistono dimensioni trascendenti ed invisibili che informano i soggetti. Naturalmente, l’orizzontalismo conduce costantemente una lotta per l’egemonia contro il verticalismo sia in campo teorico sia nella sfera sociale e istituzionale. Tanto per citare l’esempio storico più noto del paradigma orizzontalista, basti pensare al cosiddetto “libero mercato”, che è il perno attorno al quale ruota il modello istituzionale dominante, ossia il liberalismo e, nelle sue accezioni più radicali, il libertarismo anarchico.

Fra i sostenitori del paradigma verticalista si può invece citare Marx per almeno tre motivi: la demistificazione del ruolo fondativo dell’individuo nell’azione sociale, lo smascheramento della natura verticalista dello stesso regime orizzontale e la denuncia degli esiti catastrofici della regolazione orizzontale (particolarmente evidenti nel caso delle politiche migratorie perseguite sulla base di questo tipo di ‘regolazione). È proprio sul tema del rapporto tra natura e società che Marx rompe decisamente con il paradigma orizzontalista, quando dimostra che la presunta naturalità delle interazioni di mercato (lavoro, terra, moneta) non è altro che “ideologia”, vale a dire un prodotto culturale che maschera i rapporti di dominio nella sfera della produzione, la narrazione che una classe specifica tenta di promuovere al fine di preservare i propri interessi e di consolidare la sua posizione dominante a scapito delle classi subalterne. Per Marx, insomma, l’orizzontalismo è un artificio retorico che serve ad occultare il rapporto di ‘verticalità’ gerarchica tra i detentori dei mezzi di produzione e i detentori della forza-lavoro (il cosiddetto “diritto eguale” con tutte le sue attuali derivazioni: dalla teoria ‘gender’ al femminismo borghese e piccolo-borghese, dall’enfasi sui diritti civili e individuali all’apologia dei ‘migranti’, dall’animalismo ai ‘no-vax’).

Da qui, cioè dalla struttura economica della società, incardinata sul nesso di forze produttive e rapporti di produzione, scaturiscono, attraverso un sistema articolato di ‘mediazioni’ analizzato, a diversi livelli, in tutta l’opera marxiana, l’alienazione e lo sfruttamento, la cui misura è il plusvalore, motore specifico della crescita capitalistica, così come dell’impoverimento dei lavoratori e, ‘last but not least’, delle guerre fra le grandi potenze per la spartizione dei mercati e delle sfere d’influenza, per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, nonché delle vie di comunicazione (“de nobis fabula narratur”!). In definitiva, l’orizzontalismo conduce alla catastrofe, poiché – come Marx dimostra nel Capitale – “la vera barriera alla produzione capitalistica è il capitalismo medesimo” e la società orizzontale è destinata a deflagrare. Concludo questo discorso di taglio diastratico, osservando che forse oggi sarebbe il tempo di recuperare pienamente e radicalmente l’ispirazione marxiana, giacché il regime neo-orizzontalista, in cui siamo immersi fino al collo, richiede analisi all’altezza di quelle formulate da Marx nel XIX secolo. una sfida che da due secoli ci attende e che accomuna studiosi marxisti di diversa tendenza, quali noi siamo: è la sfida, come io penso, della costruzione di un verticalismo progressivo.

Il grande amico

Un grande amico che sorga alto su me
e tutto porti me nella sua luce,
che largo rida ove io sorrida appena
e forte ami ove io accenni a invaghirmi… 

Ma volano gli anni, e solo calmo è l’occhio che antivede 5 
perdente al suo riapparire
lo scafo che passava primo al ponte.
Conosce i messaggeri della sorte,
può chiamarli per nome. È il soldato presago.
Non pareva il mattino nato ad altro? 10
E l’ala dei tigli
e l’erta che improvvisa in verde ombrìa si smarriva
non portavano ad altro?
Ma in terra di colpo nemica al punto atteso
si arroventa la quota. 15 
Come lo scolaro attardato
- né più dalla minaccia della porta
sbarrata fiori e ali lo divagano –
io lo seguo, sono nella sua ombra.
Un disincantato soldato. 20
Uno spaurito scolaro....

(Vittorio Sereni, da Gli strumenti umani, 1965)

Nei versi 5-9 il poeta indica altri requisiti del mitico amico: che non si abbandoni a un facile entusiasmo, sapendo prevedere il venir meno delle forze (la metafora di cui si serve l’autore è quella di un immaginario circuito nautico); e che conosca e abbia amici “i messaggeri della sorte”, cioè che sappia riconoscere i segni della mutevole fortuna. Nei versi 10-15 l’autore ricorda un episodio della propria esperienza militare: il fuoco nemico che, scoppiato di colpo, “arroventa la quota” in un mattino che, con l’”ala dei tigli” e “l’erta che improvvisa in verde ombrìa si smarriva”, faceva pensare a cose ben diverse. E poi, imperniato sull’immagine della scuola e dello “scolaro attardato”, il senso di un’esclusione vissuta come colpa (secondo gli interpreti della poesia di Sereni il fatto di non aver potuto partecipare, lui uomo di sinistra, alla Resistenza). I due ultimi versi – “Un disincantato soldato. / Uno spaurito scolaro….”, da leggere in controcanto rispetto alla qualificazione salvifica di “soldato presago” attribuita al “grande amico” e a quella, incerta ed esitante, di “scolaro attardato” attribuita a sé stesso – suggellano in modo indimenticabile ed esemplare il doppio autoritratto dell’autore.

Orbene, anche a questo proposito, caro Ennio, ti domanderai perché abbia riportato questa mirabile testimonianza di Sereni sul tema dell’amicizia, dedicando ad essa una succinta analisi. La ragione è che mi sembra trasferibile, quasi come “segnacolo in vessillo”, ad un piano più alto e più ampio: quello storico-universale del Partito, visto quale momento e strumento di un processo di lotta, di educazione e di emancipazione delle classi sfruttate ed oppresse, orientato in direzione del socialismo/comunismo: non solo “occhio che antivede / perdente al suo riapparire / lo scafo che passava primo al ponte”, ma altresì “grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce”.

Da questo punto di vista, nel termine di ‘compagno’ vi è, insieme, qualcosa di più e qualcosa di meno che nel termine ‘amico’: di meno dal punto di vista dell’intensità del sentimento di appartenenza (giacché l’amicizia è un sentimento che ci lega essenzialmente ad una persona), di più dal punto di vista della estensione di quello che si può definire un sentimento di co-appartenenza (sentimento che ci lega a più persone che si riconoscono in una prospettiva ideale comune e in un’azione politica solidale). Vi è quindi un modo particolarmente appropriato per formulare il criterio che distingue un quadro comunista, ciò che lo distingue dalle masse popolari e nel contempo lo unisce ad esse: la riforma intellettuale e morale, per dirla con Gramsci. Se il cinismo accomuna i peggiori, vera filosofia di massa del nostro tempo e delle nostre società, ciò che prevale anche nei migliori è invece lo scetticismo. Qualche tempo fa, un compagno ex comunista dell’Ansaldo Meccanico Nucleare, un tempo roccaforte operaia del Genovesato, che stimavo molto e che partecipava, in funzione dell’unità tra gli operai e gli studenti, alle riunioni della Sezione Universitaria “Lenin”, da me fondata (non ricordo il nome, so che abita a Sampierdarena), conversando con me ironizzava sul “Sol dell’Avvenire” e, in tal modo, manifestava il suo atteggiamento critico e disincantato verso la prospettiva del socialismo/comunismo.

Il mio atteggiamento è esattamente l’opposto ed è del tutto continuista. Io credo che contro un simile scetticismo ogni comunista dovrebbe intraprendere una sana battaglia, in primo luogo procedendo alla propria riforma intellettuale e morale: la teoria rivoluzionaria non è soltanto scienza, a fronte della quale tutto il resto è opinione, ma è anche, e soprattutto, arma per la trasformazione della realtà e, insieme, di se stessi. E qui si ripresenta, a livello della classe, il tema della fraternità, che non può non accomunare le persone riflessive, sensibili e oneste che amano la pace, la giustizia e l’amicizia tra i popoli, segnatamente nell’area del Mediterraneo, “quel nostro stagno su cui si affacciano tutte le rane” (così diceva il sommo Platone). Già, proprio la fraternità, il più trascurato dei princìpi della Rivoluzione Francese del 1789, ma anche il più praticato tra i princìpi che informano ed illuminano sia la lotta per il socialismo sia la costruzione di una società socialista. Mi permetto dunque di segnalarti, carissimo Ennio, sempre in tema di fraternità, un breve romanzo storico (o un lungo racconto storico) di Mario Soldati, ambientato in un paese dell’Abruzzo durante la seconda guerra mondiale, La giacca verde (Sellerio editore, Palermo 2005), in cui al tema della fraternità l’autore intreccia, con una finezza e una profondità straordinarie, il tema dell’identità individuale e della simulazione, lasciando trasparire la sua propensione, che io condivido, per la dottrina dell’intelletto universale di Ibn Rushd, noto agli studiosi del nostro paese come Averroè, uno dei maggiori pensatori arabi del medioevo, formidabile anello di congiunzione tra la cultura greca ed ellenistica e la cultura latina ed europea. E termino questa parte della mia lettera, che tu hai avuto la non lieve responsabilità di stimolare, con una frase memorabile che, sempre in tema di fraternità, ricavo da Jean-Paul Sartre: “Un uomo è fatto di tutti gli uomini, li vale tutti e tutti valgono lui”.

Su Franco Fortini

La personalità di Franco Fortini, oggi finita (scilicet, relegata) nell’ombra, si è affermata lungo un arco di tempo che va dagli anni dell’immediato dopoguerra ai primi anni Novanta, e ha esercitato un’influenza così vasta e profonda su un numero così alto di scrittori e di critici, di intellettuali e di militanti della sinistra appartenenti a tre o quattro generazioni successive, fino ad assurgere a simbolo di un’intransigenza intellettuale e politica, morale e stilistica, di cui si potrebbero indicare ben pochi altri esempi nel panorama della cultura italiana della seconda metà del Novecento, che sarebbe impresa troppo ardua cercare di abbracciare le molteplici valenze della sua figura e della sua opera. Ha scritto Renato Solmi in uno dei suoi Sguardi sul passato, e l’ipotiposi, oltre a consegnarci un avventante ritratto di Fortini, è di quelle indimenticabili: «Mi sembra di scorgere davanti a me il suo viso ebraico ed etrusco, che aveva qualcosa di strano e di sconcertante, e che mi guarda di sottecchi con aria interrogativa, e di capire per la prima volta il significato di quella domanda inespressa, che mi era sempre rimasto oscuro ed enigmatico per tutto il tempo in cui siamo stati in contatto. Egli mi chiedeva, senza farsi, peraltro, alcuna illusione sulla mia capacità di rispondere, e quindi con una certa ironia, se mi fossi reso conto di tutto quello che ci aveva dato e che era sempre stato disposto a fare per noi, di tutto ciò che avevo appreso e che avrei potuto ancora apprendere da lui». 1

Sennonché quella testé citata è una delle non rare testimonianze sulla capacità, che aveva Fortini, di tenere unite e distinte la figura dello scrittore e quella del militante. Del resto, tipica era la sua tendenza a passare, attraverso una serie di gradazioni progressive, dall’espressione poetica al ragionamento critico e filosofico, dalle considerazioni di carattere privato e personale a quelle di ordine pubblico e generale, motivo per cui non era, o sembrava che non fosse, in senso pieno e completo, né un poeta né un filosofo. In realtà, la grandezza di Fortini consisteva proprio in questa violazione permanente del tabù della distinzione fra i generi e in questa “prevaricazione” del binomio categoriale della ‘totalità-contraddizione’ rispetto ad ogni tema specifico: violazione e “prevaricazione” determinate dalla sua vocazione critica e ammonitoria, dalla sua perenne ribellione di fronte al conformismo e alla corruzione dominante, atteggiamenti, questi, per cui ben si attaglia al caso di Fortini l’autoritratto di Tommaso Campanella delineato in quel famoso verso: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia».

In tal senso, la continuità dell’opera di Fortini, che non ha mai conosciuto nessuna forma di crisi o di conversione, di pentimento o di abiura, se non forse nell’epoca della sua prima giovinezza, anche se ha vissuto e sperimentato, con la massima intensità, tutte le delusioni che hanno segnato la storia dell’intellighenzia di sinistra nel corso del ventesimo secolo, costituisce una prova inconfutabile, oltre che della sua dirittura morale, anche della giustezza della linea su cui si è mosso per tutto il corso della sua vita. Il verso con cui si conclude la sua ultima opera di poesia – “Proteggete le nostre verità” – è la preziosa e impegnativa consegna che Fortini ci ha trasmesso, squarciando con la lama tagliente della sua intelligenza critica la cappa oscura dentro cui i sicofanti della classe dominante hanno sempre cercato, e cercano, di imprigionare la sua figura. Parimenti, non è solo una speranza, ma una certezza, quella che induce a pensare che gli esponenti più avvertiti delle nuove generazioni non tarderanno a rendersi conto dell’importanza dell’opera che egli ha svolto e della fecondità dei semi che ha gettato nel corso di un cinquantennio di attività ininterrotta.

Sulla totalità

Nell’impresa conoscitiva di Marx sussiste un’organica connessione fra il metodo e il risultato, che è identica, qualitativamente, a quella realizzata da Galileo nel campo della scienza fisica. L’astrazione, che è tipica dei princìpi e dei concetti delle scienze, è infatti la condizione di intelligibilità del concreto: «All’analisi delle forme economiche non possono servire – scrive Marx nella Prefazione al I libro del Capitale – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione». Sennonché, essendo l’eclettismo uno dei capisaldi dell’ideologia borghese contemporanea, si impone, dal punto di vista del marxismo, un coraggioso esame critico e teorico di tale forma di pensiero. Tale disàmina, per fornire rapidi cenni di questa densa problematica, deve consentire di porre in luce la struttura concettuale eminentemente contraddittoria dell’eclettismo, che trae origine, in piena età moderna, dal “compromesso bellarminiano” fra un’ontologia religiosa creazionista e una riduzione strumentalistica della scienza moderna, si manifesta, nel corso del Novecento, per l’appunto attraverso l’interpretazione strumentalistica che caratterizza la “nuova fisica” basata sul principio di indeterminazione, e si configura, nella fase attuale, come la radice di quello che può essere definito uno scacco della razionalità scientifica e, conseguentemente, per il rilievo indiscutibile che tale tipo di razionalità ha assunto nella cultura del nostro tempo, come un fattore propulsivo dell’irrazionalismo (cfr. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Roma 1976).

Occorre, inoltre, precisare che la funzione vicaria (non logica ma ideologica) che svolge l’eclettismo nell’ambito della cultura borghese risulta con particolare chiarezza dalle difficoltà che incontra la ricerca di una sintesi del sapere, la quale, essendo condotta in base ad un metodo combinatorio e sommatorio, cioè antidialettico, si risolve o in una mera aggregazione delle discipline esistenti o in una loro unificazione puramente formale: creare ponti fra due o più discipline, per poi creare ponti di ponti in direzione di una illusoria ‘scientia scientiarum’. In entrambi i casi, sfugge necessariamente al pensiero borghese la categoria dialettica della totalità, che anzi viene confusa, ad arte o per ignoranza, con la caricatura fascista di tale categoria, ossia con una concezione organicistica ed eternitaria, vale a dire mitica, dell’“ordine” sociale, laddove la giusta concezione della totalità riflette, come ogni categoria logica, i rapporti reali (Marx, a questo proposito, scrive che “le condizioni di produzione di ogni società formano un tutto”).2

La categoria della totalità – che costituisce il punto archimedico della teoria marxista-leninista significa, allora, per un verso, che la realtà obiettiva è un tutto coerente, ogni elemento del quale è in rapporto con gli altri elementi, e, per un altro verso, che questi rapporti formano, nella stessa realtà obiettiva, correlazioni concrete, insiemi unitari, collegati fra di loro in modi completamente diversi, ma sempre determinati (Lenin, a questo proposito, riprende l’immagine hegeliana della filosofia come un cerchio la cui circonferenza è fatta di cerchi).3 Nello stesso tempo ciò significa che, essendo la totalità inesauribile ed essendo la conoscenza della totalità relativa, tale conoscenza non può che essere un’approssimazione. Se, dunque, la mistificazione dell’eclettismo si esprime nel falso concetto della verità totale come somma aritmetica delle verità parziali, la demistificazione operata dal marxismo-leninismo si esprime nel giusto concetto della verità totale come somma dialettica delle verità parziali.

L’interprete, oggi maggiormente vulgato, di questo mito liberal-borghese è Edgar Morin. Ma per la demistificazione di tale mito si veda il saggio di Althusser, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, Bari 1976, ove l’autore afferma, a proposito dell’applicazione della matematica alle scienze umane, quanto segue: «La nozione di interdisciplinarità indica non già una soluzione, ma una contraddizione; il fatto, cioè, che esiste un’esteriorità relativa delle discipline messe in rapporto. Questa esteriorità (le matematiche come ‘strumento’…) traduce il carattere problematico di questi rapporti o delle loro forme tecniche (che uso facciamo delle matematiche in psicologia, in economia politica, in sociologia, in storia…? quali complicità sono di fatto coperte sotto il prestigio di quest’uso?)» (Althusser, op. cit., pp. 35-36). Per ultimo, ma solo in ordine di tempo, va detto che la chiarificazione qui addotta riguardo alla funzione deviante dell’eclettismo, quale tratto ‘erasmiano’ dell’ideologia borghese contemporanea, fa emergere come cruciale, insieme con il concetto di approssimazione, il concetto correlativo di errore, considerato non in chiave negativa come un qualcosa da eliminare, ma come risorsa euristica.

Riflettendo, infine, da un’angolatura psicologica ed epistemologica, sul tema della spiritualità di Fortini, credo che dobbiamo riconoscere che, in qualche misura (se non altro nella scelta dei postulati e dei princìpi), siamo tutti credenti in qualcosa. E la ragione di ciò consiste nella relazione dialettica tra la fede e la prassi, come dimostra, per quanto concerne la fede cristiana, la Lettera di Giacomo, che ritengo sia stata oggetto di una particolare riflessione da parte di Fortini (anche se non saprei indicare il luogo specifico in cui egli ha svolto tale riflessione). Questa lettera contiene infatti, nell’ambito della sapienza cristiana,  una delle più potenti affermazioni che mai siano state formulate sia della contrapposizione tra i poveri e i ricchi sia del principio trascendentale della indissolubilità tra la prassi e la teoria (per cui vale l’equazione “fede = prassi”): principio che sarà ripreso da Marx e posto al centro del pensiero contemporaneo. “Se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era.” “Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede.” “Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.” Orbene, il corrispettivo speculare della lettera di Giacomo è rappresentato, nel pensiero marxiano, dalle Tesi su Feuerbach, al centro delle quali si trova la chiave d’oro del marxismo: la conoscenza è radicata nella realtà obiettiva e legata indissolubilmente alla prassi. Insomma, l’introduzione al sapere in senso stretto, e quindi alla scienza, alla filosofia, alla teoria in genere è l’attività umana, la trasformazione del reale: essa costituisce il fondamento della conoscenza, che non abbisogna a sua volta di fondazione, perché è l’inizio e la fondazione di ogni conoscenza. In questo senso, la fondazione della conoscenza è il riconoscimento della prassi come pietra di paragone della conoscenza vera. “Nella prassi l’uomo deve provare la verità del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica.” “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo.” I corsivi sono di Marx.

Sulla dialettica e il materialismo

Anche se non esiste, per ora, alcun partito comunista e rivoluzionario a cui rendere conto, per noi comunisti la disciplina, in effetti, non è solo una categoria sociologica, ma anche – e soprattutto – una categoria epistemologica. È vero che il partito (almeno nella sua piena forma organizzativa) non esiste, ma come comunisti possiamo “agire da partito”. D’altronde, il dibattito nell’àmbito della teoria e della visione del mondo è una componente imprescindibile non solo per la vita dei militanti e dei dirigenti di un partito comunista, ma anche per quei comunisti, come noi, che per ora sono costretti ad “agire da partito”. Da qui deriva con tutta evidenza l’opportunità che i compagni non si organizzino l’uno contro l’altro in correnti e piattaforme contrapposte, bensì insieme lottino, discutendo e approfondendo le questioni fondamentali, per giungere ad acquisire e a formulare conoscenze corrette. Del resto, l’espressione “marxismo-leninismo” ha, a mio avviso, un significato dialettico, in quanto, se per un verso fissa la continuità fra le prime due fasi dello sviluppo della teoria, dall’altro ne pone in rilievo il carattere aperto, mostrando nel contempo che il suo sviluppo non è concluso e che è sempre necessario il lavoro teorico per inquadrare sistematicamente le esperienze  della prassi – quindi del lavoro, della lotta di classe e della sperimentazione scientifica -, esperienze che sgorgano dalle nuove fasi della storia.

Per quanto riguarda la questione del materialismo dialettico, partirei innanzitutto, al fine di comprenderne le affinità e le differenze, dalla distinzione dei vari tipi di materialismo. Storicamente, il primo posto spetta al materialismo metafisico che è presente nell’antichità e che deriva dalla concezione ilozoistica della natura. Vi è poi il materialismo scientifico, che cerca di dimostrare scientificamente che la materia è il principio unitario da cui deve essere tratta tutta la molteplicità dei fenomeni. Vi è anche, come è noto, una forma di materialismo di carattere, se si vuole, “volgare” o, meglio, naturalistico, secondo cui i processi spirituali devono essere identificati con determinati processi cerebrali. Questo tipo di materialismo viene talvolta espresso nella formula secondo cui l’uomo è ciò che mangia, a proposito della fondatezza della quale si potrebbe osservare che purtroppo le cose non stanno così, che l’uomo non vive di solo pane, ma anche delle ideologie che gli vengono cacciate in testa, e che in certe situazioni lo portano persino a scegliere situazioni come le guerre o il nazifascismo. Proseguendo in questa scolastica, ma forse utile, rassegna dei vari tipi di materialismo, vi è inoltre il materialismo antropologico che cerca di ricondurre tutti i fenomeni sociali all’uomo concepito come un essere naturale. Orbene, se si considera la sua genesi, la teoria marxista è essenzialmente la critica appunto del materialismo antropologico, poiché contro questa riduzione statica e astorica di tutti i fenomeni all’uomo ha fatto nuovamente valere il principio hegeliano del movimento e della contraddittorietà interna. Da questo punto di vista, il materialismo dialettico rappresenta sostanzialmente l’antitesi sia del materialismo “volgare” sia del materialismo antropologico. Va detto ancora che il materialismo non è necessariamente empiristico; al contrario, il materialismo di Marx, così come quello di Engels e di Lenin, si basa su categorie, come quella di sistema e di processo complessivo, che – come tu ben sai – corrispondono al concetto hegeliano della totalità. E nella concezione dello scopo finale, della ragione che si realizza attraverso la storia, Marx è stato veramente l’erede della filosofia classica tedesca. Ma non basta, perché occorre aggiungere che il materialismo si distingue dal realismo, che pure in alcuni casi è un suo prezioso alleato, in quanto non ritiene  che la realtà si identifichi con il fatto immediato, ma la considera come intrinsecamente mediata dalla società. Una delle conseguenze che si possono trarre da questa concezione è forse che un materialista, nella sua prassi, può essere quello che il materialismo “volgare” chiamerebbe spregiativamente un idealista. In realtà si può dire che, secondo Marx, il mondo borghese è idealista nella sua ideologia e materialista nel suo contenuto, mentre la teoria di Marx è, sì, materialistica, ma quello che egli ha in mente è una costituzione del mondo e anche del pensiero che è situata al di là della dicotomia di materialismo e idealismo.

Per quanto concerne la cultura marxista occidentale (il cosiddetto “marxismo occidentale”), così carente a causa del suo eclettismo e, in definitiva, a causa della mancanza di rigore teorico, è doveroso rilevare da un punto di vista coerentemente materialistico che un limite della ricerca marxista, che ha contrassegnato tale cultura e, in modo assai marcato, quella italiana, è consistito nel fatto che raramente il problema degli esseri umani come parte della natura è stato oggetto di analisi. Tanto più merita apprezzamento e costituisce una felice eccezione, come salutare correttivo alle varie infiltrazioni dell’idealismo e dello spiritualismo, l’opera di Sebastiano Timpanaro: un autore in cui questo tema ha un posto centrale. Non ho pertanto difficoltà ad ammettere che questo autore, malgrado le divergenze che mi dividono da lui sul tema della dialettica materialistica, mi è molto caro, e per più ragioni, fra le quali vanno sottolineati la chiarezza espositiva, il rigore storico e filologico, la coerenza politico-ideologica e l’onestà intellettuale.

Infine, considerando un altro importante studioso, cioè Lucio Colletti, osservo che la posizione di quest’ultimo, il quale non solo distingue ma oppone Lenin ad Engels, e insieme Materialismo ed empiriocriticismo ai Quaderni, è chiaramente antitetica allo stesso progetto di un materialismo dialettico, che a questo studioso non appare per nulla diverso da una ‘dialettica della materia’, talché la sua rivalutazione di Materialismo ed empiriocriticismo non si fonda sulla comprensione autentica del contenuto teorico di questo libro, ma resta legata ad una sostanziale incomprensione, in quanto, secondo lui, l’unico merito del libro di Lenin sarebbe quello di essere antidialettico. Valga il vero: l’Introduzione premessa da Colletti in qualità di curatore dei Quaderni filosofici per la casa editrice Feltrinelli (1958) è, per estensione (oltre centocinquanta pagine), contenuto e tono, un vero e proprio ‘manifesto’ antihegeliano e antileninista, in cui l’allievo di Galvano Della Volpe, anticipando il suo futuro orientamento neokantiano e popperiano, svolge la sua palinodia per i ‘peccati’ giovanili consumati in tema di dialettica.

Ben diversa, su questo piano, è la posizione di Althusser, a cui spetta il merito di aver pienamente riscattato lo spessore teoretico di Materialismo ed empiriocriticismo e di averne motivato la dignità filosofica, che va individuata nel disvelamento della mistificazione filosofica e nel rifiuto di lasciarvisi coinvolgere (sicché le accuse di rozzezza e di dilettantismo, il senso di irritazione provato da tutti i filosofi, compresi quelli marxisti, nel leggerlo, rappresenterebbero i sintomi della rimozione che la filosofia compie della propria funzione mistificante). Facendo allora non un discorso di filosofia, ma un discorso sulla filosofia, e partendo da questa premessa, Althusser giunge poi a formulare la tesi secondo cui la filosofia non è scienza, ma lotta di classe nella teoria: tesi che trova la sua specificazione nella tesi della doppia rappresentanza operata dalla filosofia: rappresentanza della scienza presso la politica e della politica presso la scienza.

Concludo questa lettera, caro compagno Ennio, ponendo in risalto un’istanza fondamentale, che dobbiamo sempre tenere ben presente. Mi riferisco all’istanza di un’analisi storico-materialistica della nostra stessa vicenda di comunisti in quanto espressione di un’aspra lotta di classe nazionale e internazionale, istanza che va soddisfatta perché è ciò che ci garantisce la nostra identità di comunisti: identità che comprende entro di sé Marx, Engels, Labriola, Gramsci, Lenin e – perché no? – Stalin e Mao Tse-tung: identità che – come vuole la dialettica – è identità di identità e di non-identità. Solo da una critica fondata sul piano teoretico e condotta con metodo dialettico possiamo infatti attingere la forza per riconquistare l’iniziativa strategica. Questa, in ultima analisi, è la ragione per cui, muovendo dall’opera di Fortini, questo nostro scambio di idee sui temi della condizione periferica, della fraternità e della totalità, ha un senso, un valore e uno scopo.

                                                                           Un abbraccio fraterno.

Eros

Genova, 12 aprile 2025.

Note

1 R. Solmi, Testimonianza personale in luogo di introduzione, in «Discussioni» 1949-1953, Quodlibet, Macerata 1999.

2 Si veda l’Introduzione alla marxiana Critica dell’economia politica (1857) e, in particolare, il terzo capitolo concernente Il metodo dell’economia politica. L’opera può essere consultata in Rete al seguente indirizzo:

https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1857/introec/index.htm#topp.

3 V.I. Lenin, Quaderni filosofici, Feltrinelli, Milano 1970, p. 245 e passim.

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