Due minimi suggerimenti per ricominciare a pensare fuori dalla retorica festaiola un 25 aprile da subito monumentalizzato o sfregiato o edulcorato.
Oggi:
Ottant’anni dalla Liberazione. Due cose mi piacerebbe leggere/sentire/vedere nelle tante manifestazioni/commemorazioni che ci saranno. La prima: meno martirologi e più fierezza, più orgoglio, di aver fatto fuori un po’ di criminali fascisti e nazisti. La seconda: il fascismo è stato battuto, è nato uno stato con una bellissima costituzione ma non dimentichiamo che quella costituzione in fabbrica non ci è entrata fino al 1970, con lo Statuto dei Lavoratori. Salvo casi eccezionali (tipo Olivetti). E questo non tanto per rispolverare il vecchio mito della “Resistenza tradita” quanto per parlare dell’oggi.
Con quale faccia celebrare la fine del fascismo senza pensare che si è cittadini di uno stato dove è tornata la schiavitù? Quando prelevano degli immigrati da un centro d’accoglienza, sequestrano i loro passaporti e li portano con un pulmino a lavorare per 3/4 euro l’ora in un centro logistico o in un campo di pomodori, non è schiavismo questo? Non è roba che viola i più elementari diritti umani? Spero che tutti abbiano letto Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud di Alessandro Leogrande (Feltrinelli 2017). Io lo sto facendo, con imperdonabile ritardo, e scopro che a 88 anni suonati non so ancora in che paese vivo. E aspetto che mi arrivi il VII Rapporto su Agromafie e caporalato, novembre 2024.
(da Memoria come pratica politica 23 Aprile 2025 Di Sergio Fontegher Bologna)
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Ieri:
(da Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), edizioni quaderni piacentini 1976)
Tutto vero quello che dici, Ennio. Non ci si dovrebbe vergognare di aver eliminato assassini, torturatori che si muovevano secondo una logica di sterminio. Il fascismo fu questo, oltre al sacrificio della libertà e al massacro immane causato dalla guerra e dall’alleanza con Hitler. Ma è giusto, secondo me, dare spazio a momenti di gioia collettiva, che sono serviti anche a far fallire quasi in tutta Italia il tentativo di impedire la celebrazione dell’ottantesimo dalla Liberazione con il ridicolo invito alla “sobrietà”.
“Ma è giusto, secondo me, dare spazio a momenti di gioia collettiva”
Si, se ci fosse una forza politica capace di trasformare questa gioi in progetto politico che rompa questa falsa dialettica tra sfruttatori “sobri” ( tipo il PD della Schlein che – leggo da una pagina FB che ha pubblicato l’articolo di Travaglio di ieri – “aveva appena finito di parlare al Parlamento italiano contro gli “ipocriti della destra” che “non hanno mai dato ascolto agli appelli del ‘Papa degli ultimi’ e ora cerca di seppellire nella retorica il suo potente messaggio contro chi deporta i migranti, toglie soldi ai poveri, nega l’emergenza climatica e le cure a chi non se le può permettere”. E ieri i suoi eurodeputati, una volta tanto compatti, han votato Sì al Programma per l’industria europea della difesa proposto dalla Commissione Von der Leyen per i nuovi investimenti militari”) e sfruttatMeglio ricordarsi delle avvertenze di Leop:
“Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave. “
Soprattutto la citazione di Montaldi mi trova concorde, chè troppo la Resistenza è stata utilizzata come glorificazione di una democrazia immaginaria, e troppo poco invece si è parlato di come la volontà di comunismo sia stato il nucleo duro che l’ha resa efficace, che ha animato i Gap e la discesa da dai monti
La ricorrenza del 25 aprile è ormai alle nostra spalle; tuttavia, siccome è lecito ritenere che la Liberazione, per il suo significato e il suo valore, meriti e, insieme, solleciti una costante riflessione etico-politica ed un’assidua ricerca storico-scientifica, non è mai troppo tardi per svolgere alcune considerazioni sui limiti e sulla importanza della Resistenza.
Ragionando sui limiti della Resistenza, occorre fissare con chiarezza gli obiettivi della discussione, che sono storiografici in quanto riguardano la ricostruzione di certi avvenimenti, storico-politici in quanto tendono a presentare un determinato punto di vista nell’interpretare tali avvenimenti, politici in quanto mirano a trasmettere alle giovani generazioni quel punto di vista. Del resto, i tre obiettivi nei fatti coincidono: la verità storiografica è anche il punto di vista più rivoluzionario e quello più indicato per essere trasmesso alle giovani generazioni.
La prima questione da affrontare è quella relativa alla data, laddove non può sfuggire quanto sia delicata la definizione, che vi è strettamente connessa e ne discende, del tipo di periodizzazione in cui si inscrive la Resistenza. Orbene, la guerra è incominciata per l’Italia il 10 giugno 1940, mentre la Resistenza, anche volendo identificarne l’inizio con gli scioperi del marzo 1943, è cominciata, su una scala crescente sia come continuità sia come estensione, soltanto l’8 settembre 1943. Nessuno studio serio sulla Resistenza può sottrarsi all’impegno di chiarire il significato di queste date (soprattutto se intende rivolgersi alle giovani generazioni). E non si tratta di date qualsiasi: tra quelle date erano caduti eventi come El Alamein (luglio-novembre 1942), lo sbarco angloamericano in Nord Africa (novembre 1942), lo sbarco angloamericano in Sicilia e Calabria (luglio 1943), la caduta del fascismo (luglio 1943). Questa serie di eventi militari aveva un significato inequivocabile: la guerra era persa, e non solo per l’Italia, ma anche per la Germania: in altri termini, il rischio che si affrontava aderendo alla Resistenza riguardava solo più la durata, non l’esito del conflitto (e questa non è una piccola differenza).
È certo che almeno le classi dirigenti erano ben consce di questo; gli altri, probabilmente, lo intuivano ugualmente bene. Eppure, tutta la letteratura ufficiale sulla Resistenza ha parlato e parla come se essa fosse cominciata nel 1940, cioè in coincidenza con l’inizio della guerra. È evidente che la rettifica della prospettiva cronologica porterebbe a profonde differenze di prospettive politiche. Eccone qualcuna. Cadrebbe, ad esempio, ogni fondamento al generoso entusiasmo di Salvemini che paragonava la Resistenza alle Cinque Giornate di Milano. Sennonché le Cinque Giornate erano dirette contro un nemico ben vivo (anche se con qualche difficoltà in casa). Questo basta a mostrare come la rettifica delle date incida anche sul tema dei rapporti tra Resistenza e Risorgimento. Deve anche cadere – sempre se si vuol essere presi sul serio – la pretesa di collocare senz’altro la resistenza italiana nel quadro della Resistenza europea: vicino cioè alla resistenza francese, olandese, greca, jugoslava, russa, che combatterono contro una Germania vincitrice (tutti movimenti che ebbero inizio, appunto, nel loro “10 giugno 1940”). Per chiarire le reali dimensioni della Resistenza italiana è poi sufficiente confrontare i dati relativi ai caduti nella lotta di liberazione (circa 45.000) con i dati relativi ai caduti angloamericani (335.000) e tedeschi (365.000) nella campagna d’Italia 1943-1945.
Continuando in questa rassegna di mitemi resistenziali privi di fondamento, non potevano mancare a questo appello in chiave europeista, oggi reiterato nei modi più sguaiati all’insegna dell’eurosciovinismo e della russofobia, gli storici che sostengono la tesi ridicolmente tautologica secondo cui il “secondo Risorgimento” doveva ricollocare, come già il primo, l’Italia nell’Europa. Parimenti, Togliatti, il gestore opportunista della “svolta di Salerno” (aprile 1944), vedeva nella Resistenza il «solo mezzo per presentarsi con un nuovo volto dinnanzi ai vincitori» e dichiarava «che gli italiani non avevano combattuto nella guerra fascista» (nel dicembre 1943, dopo tre anni e mezzo di guerra!). Tralasciando la storica abitudine delle classi dirigenti italiane ad attribuire a soggetti esterni la responsabilità dei propri errori, in realtà nessuno crede nel mondo alla versione ufficiale della Resistenza codificata in Italia, e perciò sarebbe tanto bello che finalmente una nuova generazione di storici mettesse in discussione quella versione di comodo e si decidesse una buona volta a chiarire le cose.
Come è stato affermato da Santo Peli, uno degli studiosi più qualificati della Resistenza, rispetto alla difficoltà dei progetti di rinnovamento della società italiana e alla radicalità delle aspirazioni, la Resistenza è durata troppo poco, né il ‘rush’ finale per giungere prima degli eserciti alleati a liberare le città del Nord, così come l’insurrezione e il sostegno popolare ad essa, sono stati in grado di compensare la sua strutturale brevità (venti mesi).
Che altro vi è da aggiungere per dimostrare che la Resistenza italiana è, in larga misura, una costruzione retorica, la cui funzione eminentemente ideologica è stata quella di legittimare una repubblica democratico-borghese asservita al mondo imperialista anglo-americano e le cui basi storiche sono fragilissime?
“e perciò sarebbe tanto bello che finalmente una nuova generazione di storici mettesse in discussione quella versione di comodo e si decidesse una buona volta a chiarire le cose.” (Bontempi)
Una solida opera di smitizzazione delle versioni di comodo o “iperpatriottiche” della Resistenza (senza però svalutarla ad accessorio della “liberazione” degli Alleati) l’ha fatta lo storico Claudio Pavone con “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”
https://www.ibs.it/guerra-civile-saggio-storico-sulla-libro-claudio-pavone/e/9788833916767/recensioni?srsltid=AfmBOoogOq9UnIMEmOhPoBhLsTilxnto0HMaDSb5UlCnsN_HK680YUgZ