
Paul Klee, Ricordo di ciò che hai sofferto, 1931 R 16, olio e acquerello su tela applicata su cartone e tempera, collezione privata ©Peter Schälchli Zürich
di Rita Simonitto
Non so, ma, almeno da me, lei non si presenta durante il giorno. Sento però che gironzola e dà segni di sè ma si tiene distante anche se ogni tanto tenta di fare una incursione.
Sa che l’ho in antipatia, ma questo pare non turbarla più che tanto. Un giorno ho sentito il suo fiato sul collo e ho cercato di dribblarla. “Che fai? Scappi? Perché non rispondi?”, mi ha incalzato. Ricordo la mia battuta: “Non rispondo alle domande stupide perchè sarebbe una concorrenza sleale alla mia stupidità”. L’avrà capita? Non ne sono sicura data la sua ottusità.
Nello stesso tempo ero caduta nella trappola di equiparare il mio non sapere a stupidità. Mentre la sua è stupidità vera perché del sapere non gliene importa niente. È a fronte della sua stupida banalità che si colloca la mia antipatia. Antipatia? Ebbene, sì. Non mi piace quella avidità che fagocita tutto senza discrimine alcuno, nonchè il suo essere lontana da ogni approccio ragionevole.
In questo periodo le mie giornate scorrono più lente e il paniere del tempo non è più rappresentato dall’immagine della cornucopia nel suo fantasmagorico tripudio di diversità, pastellature e contrasti dentro cui i sensi si perdono inebriati, eccitati.
Oggi una vita grama si è infiltrata in modo subdolo e, con monotona cadenza, sta occupando lo scenario di giornate nelle quali la terragna realtà delle necessità quotidiane prende il sopravvento mentre le spinte espansive di sogni, desideri e progetti si afflosciano già nel momento della loro formulazione.
Intuitivamente so che questa ritirata è anche frutto di quella rete che lei ha gettato da tempo e che ora, piano piano tira a riva. Sembra che aspetti con pazienza che la mia intolleranza per questo stato di cose mi spinga, paradossalmente, a fare quei movimenti inconsulti che inevitabilmente mi porteranno a scivolare nel suo dominio. Intuisco anche con un orrore da cui non mi so difendere che è ciò che lei si aspetta e su cui conta.
Non so dire se mette in campo una qualche forma di astuzia in questa sfida. Ne dubito perché, se così fosse, la competizione potrebbe avere un andamento diverso, anche stimolante per me nella ricerca dei punti insostenibili e delle possibili vie di fuga. Ma ci si può confrontare con il ‘vuoto’? Con una ‘entità’ che annulla il concetto stesso di entità? Eppure, in quella ‘non entità’ – perché questo è il dato – avverto la sua potenza a fronte della quale non so che cosa contrapporre. Forse la “bellezza che salverà il mondo”? Oppure l’idolo della Dea Ragione a sconfiggere le iniquità? O l’infinito susseguirsi di ideologie salvifiche?
Come spezzoni di pellicole sottratte alla rottamazione scorrono immagini, scenari di cui riconosco la realtà ma che stridono con un presente la cui cifra portante è la cacofonia, nulla che risponda al suo senso. Anche lo stupore ha cambiato di segno: non più quello guidato dalla curiosità bensì quello desolato a fronte di una sconfitta.
Ma durante il giorno questo sentire viene, appunto, assorbito dalle necessità quotidiane, penalizzate da una socialità che sempre più mostra i suoi limiti contraddistinti da un “dover essere” anziché da un “essere genuino”.
Così lei arriva con le prime ombre della sera e incomincia ad acquattarsi negli angoli bui da dove può preparare, al pari dello scorpione, il suo finale attacco di coda.
Certo, non la vedo ma individuo la sua presenza in piccoli indizi legati alla mia percezione del tempo (è oggi, ieri o domani?) e dello spazio che sembra restringersi sempre di più fino ad arrivare al limite corporeo. Sono certa che c’è lei dietro i traffici di memorie perse nel passato e che lo rendono perso del tutto. Soprattutto là dove, nel gorgo di frenetiche solitudini, le dita ossute di lei facevano già intuire la sua presenza. Nocche dure che, nel buio della notte, sfiorano con macabro scricchiolio non solo i libri dalle copertine sontuose, sacri testi che hanno trasmesso storia, ma, inframmezzo, anche normali album di fotografie che testimoniavano eventi non solo individuali ma memorie collettive di un tempo che fu glorioso, ricco di fermenti orientati alle trasformazioni. Ed è lì, lo colgo benissimo, che ‘ravanano’ le sue dita dissacranti. Là dove il ‘vero’ di allora si frantuma contro il ‘non più vero’ di oggi.
Mi sento investita, quasi travolta, da un analogo dubbio sulla mia ‘essenza’. Si può ‘non essere’ mentre si è?
Allora accendo le luci nelle stanze, vagando in una specie di peregrinare bisognoso di dare un nome e una storia agli oggetti che sfioro mentre più difficile e complicato è accendere le lampadine di una ragione sempre più insofferente ai vincoli imposti dalla stupidità e banalità.
Così, quando lei gira ma non si appalesa, so che nemmeno io voglio vederla. Non voglio saperne. Ma è un non voler sapere particolare, ovvero non è la scelta che si tiene perché, sapendo, poi delle decisioni devono essere prese. Non voglio quel sapere che non sarà usufruibile nè trasmissibile, un sapere senza futuro.
Nello stesso tempo, in un movimento delirante per voler mettere a tacere la mia paura di prendere contatto con lei, vorrei affrontarla, toccarla e frantumarla nei suoi stessi impasti. Epperò questo non può che accadere lungi dalla mia corporeità. Posso denunciarla quando lei si nasconde ambiguamente dietro lugubri liturgie che inneggiano a vittorie solo per mascherare la difficoltà a confrontarsi con le disfatte. Far capire che il sole che si alza radioso non rappresenta la sconfitta della notte, è solo ‘altro’ in un alternarsi di differenze. Come la notte oscura tutto indifferentemente, così il sole illumina tutto ma non dà voce a ciò che fa vedere. Non dà parola. La parola: qualche cosa che va “oltre” il visivo, il percepito.
A partire da un misto di storia, cultura e memoria, ho la dolorosa intuizione che lei abbia intenzione di intrufolarsi ostilmente proprio in quell’ “oltre” che è portatore di senso. E combatterlo perché è dal senso che lei si sente tagliata fuori. E annichilita.
Lo so, lo so. Sono io che vaneggio. Io che mi sto confrontando con un manifestamente noto o saputo ma che oggi sembra aver cambiato veste. Allora ‘tocco’ gli oggetti sia concreti che mentali. Oggetti che conosco ma che ormai vedo solo in una sbiadita trasparenza. Ma quel velo sottile che mi stacca da loro non ha a che vedere soltanto con i miei occhi appannati che, ormai, stanno esaurendo il loro compito. Purtroppo viene rappresentato l’esito di quel muto grido che separò lo sguardo dalle consapevolezze. E dalle domande. Un vedere senza prenderne atto. Certo, ci fu anche chi sparse sale sulla tagliola e l’incauta daina ebbe il muso tranciato e il dolore del suo bramito si perse nel silenzio. Ma non voglio entrare in un rincorrersi di colpe.
Così in questo inedito gioco a scacchi in cui cerco di evitarla perché so che non riuscirò a vincerla, la sfido in un ‘fuori’, in una realtà dove lei si muove indisturbata.
Là dove osservo con pena le rivolte che vengono contrabbandate come rivoluzioni, dove niente si trasforma e tutto si distrugge. Forse mi illudo che in quel “là fuori” si possa verificare qualche cosa di creativo che, come un grembo fertile, permetta di far pulsare la vita.
Credo di sapere perchè il mio desiderare che l’avvento di una creatività si produca in un ‘fuori’ aperto a tutte le possibilità. Perché se volgo lo sguardo verso me, gli occhi che più non vedono, la musica della parola che più non si sente, il corpo che non si scalda più agli abbracci verrei travolta da un turbine di tristezza vana e mi risuona il verso di G. Ungaretti in “Soldati”: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie“.
Conegliano, 25.04.25