
di Donato Gervasio
Perché Salzarulo ci racconta, fin nei minimi dettagli, la sua vicenda ospedaliera? Quale necessità profonda lo spinge a farlo?
Certo, dal letto di un ospedale si guarda l’ esistenza da una prospettiva inedita: forse è questo a dettare l’urgenza della scrittura. E attraverso la parola fissata sulla pagina si cerca di dare un senso all’esperienza disorientante della malattia e della degenza, di riannodare i fili della propria identità. Sembra che il progetto di scrittura sia nato appena varcata la porta dell’ospedale.
Figure della gentilezza
Le prime pagine del racconto registrano i momenti frenetici del ricovero al Pronto Soccorso. Le giornate si susseguono al ritmo incalzante degli esami. Le notti angosciose si popolano di incubi: urla deliranti di una coppia che litiga, squadracce fasciste, “madri addolorate… che salgono il Monte Calvario”.
In questo scenario di vulnerabilità fisica ed emotiva, emerge un tema che tenderà ad invadere sempre più il campo: la gentilezza. Donato è attentissimo al modo in cui medici e infermieri si relazionano con lui. Un sorriso, una parola pronunciata con garbo, il semplice sentirsi chiamare per nome sono gesti preziosi che lo sottraggono alla solitudine e all’anonimato del “malato qualsiasi”. Esprime gratitudine verso l’infermiere che “veglia” su di lui, che cerca “delicato” sul braccio il punto migliore per un prelievo, o verso la dottoressa che lo visita “accuratamente” e lo chiama per nome. E annota con affetto il benvenuto cordiale nella stanza, il “caro” con cui viene interpellato. Gesti ordinari sono percepiti come atti di profonda umanità.
La dottoressa che, sorridente e gentile, lo chiama per nome suscita in lui una lusinghiera sorpresa: forse si sono già conosciuti, o forse lei ha riconosciuto l’ex direttore scolastico o l’ex assessore di Cologno.
È proprio la gentilezza all’origine del primo importante flusso poetico che ha generato le “sette sorelle”, sette poesie scaturite di getto, un mattino. Salzarulo esprime pensieri di gratitudine verso coloro che si stanno prendendo cura di lui. Il poeta, che si scopre “corpo d’amore”, è affascinato dall’immagine di una donna che, eco del primordiale amore materno, lenisce la sofferenza fisica del compagno di stanza:
Per lo sguardo di chi mi ama
sono un corpo d’amore.
Penso a come ieri sera la moglie
del mio silenzioso compagno
di stanza gli curava le ferite
del corpo scheletrito.
L’amore materno si insinua profondamente nella scrittura di Salzarulo. Penso, per esempio, al bel racconto Verso il tempo della resistenza al tempo, dove la madre, come una Beatrice gentilissima, gli appare in sogno e gli detta dei versi. Qui, nel racconto ospedaliero, viene ricordata la morte della madre e la sua “vita emorragica” (“A mia madre certe volte il sangue/affiorava spontaneo sui denti./I capillari scoppiavano spesso”). Presenza che si manifesta anche attraverso una sensazione inquietante e quasi fisica: “La mia pelle ha lo stesso odore di mia madre, lo sento sempre addosso”.
In fondo, la scrittura ospedaliera di Salzarulo, con la sua premura e il suo desiderio di protezione, si configura come una richiesta d’amore, rivolta sia agli altri che a se stesso. È forse in questa dinamica che si inseriscono le riflessioni di Alessandro Poggiali sulla scrittura del dolore, citate da Ennio Abate nel suo commento. Ne scelgo una: “Il dolore, mentre si scrive, si riscrive nell’alveo accogliente della scrittura.”
Tra le figure della gentilezza spicca Marta Socci, la dottoressa “salvatrice”, la cui diagnosi tempestiva ha salvato Salzarulo dal pericolo (“Se non fosse stata per lei, adesso non avrei saputo di avere una trombosi e un’embolia polmonare”). Con l’embolia, lo stesso male che ha portato via sua madre, ritornano i fantasmi della vita emorragica (“Chissà il cervello, mi dico,/apprensivo, chissà/se prima o poi un grumo/di sangue non esploderà/sul più bello fra i neuroni/e mi lascerà silenzioso a vegetare, per me che parlare/parlare è la torta del cuore”).
Salzarulo è toccato dall’umana solidarietà che si crea tra lui e la dottoressa: li vediamo attraversare i corridoi labirintici del San Raffaele, lui sulla carrozzina, personaggio più che altro beckettiano, e la dottoressa che lo spinge: “Lei, giovanissima Arianna che ha preso in mano il filo della mia vita, io, vecchio Teseo che deve affrontare il Minotauro dell’embolia”.
Energia
L’altro tema che percorre il racconto è quello dell’energia intellettuale, un’incessante attività della mente che si contrappone alla fragilità del corpo. Salzarulo si ritaglia uno spazio mentale per sentirsi vivo, reagire alle avverse notizie sulla salute e rendere più tollerabile la monotonia ospedaliera: il vecchio Teseo non si lascia fiaccare dall’atmosfera stagnante di una stanza d’ospedale.
Legge voracemente libri, articoli di giornali, supplementi culturali. Ogni spunto diviene materia di riflessione e commento. Dalla scomparsa di Frederic Jameson alle politiche neoliberiste, dai problemi dell’Africa alle liriche di Cucchi e Pontiggia, dall’autonomia indifferenziata alla didattica della letteratura. In una prosa intellettuale e civile, dove etica e scrittura si fondono, Salzarulo non perde mai il contatto con il corpo sociale, con il contesto storico in cui viviamo, tanto più se si tratta di un tempo segnato da una forte reazione politica, di un tempo in cui “il nemico non smette di vincere” (Benjamin).
Di notevole interesse è il decimo capitolo. Commentando degli articoli che hanno come tema principale il nostro rapporto con il passato, Salzarulo evoca
la morte del padre e si interroga sulla sua eredità spirituale (“Semianalfabeta ha nutrito in me una grande voglia di sapere e un desiderio inesauribile di lotta contro i padroni”). Ma prende atto che è difficile capire la “verità” che la persona scomparsa lascia dentro di noi, e riconosce che per lui esiste una “questione Domenico” (è il nome di suo padre) non ancora risolta: “La sua vita continua ad incombere su di me”.
Tuttavia, il corpo insopprimibile reclama i suoi diritti e la quotidianità ospedaliera interrompe il lavoro intellettuale: “Mentre leggevo e sottolineavo un’intervista così importante, è arrivata la dottoressa… Ha appoggiato lo stetoscopio sul petto.” Oppure, mentre trascrive un passo tratto da “L’esperienza del termine ultimo” di G. Gaeta e medita sull’annuncio del Regno di Dio, “arriva l’infermiera con la pillola di potassio”. Legge le quindici pagine dell’inserto del Corriere sull’Africa e ci ricorda che ha i tubicini dell’ossigeno alle narici. Distoglie lo sguardo dal giornale per osservare il vassoio del pranzo appena servito: “Riso con verdure e una particella di scorfano”. L’interruzione può giungere dal vicino di letto che “tartaglia e mugola”, o dal “corteo dei familiari” in visita. E poi ci sono le brevi passeggiate in pantofole, “giri” e “giretti” nel corridoio, che danno la misura del “piccolo recinto del mio quotidiano” . Un recinto che, nella riflessione di Salzarulo, è destinato ad allargarsi, ad inglobare la vita che attende al di là delle mura ospedaliere.
Scrivere sull’acqua
I modi attraverso i quali Salzarulo stabilisce un rapporto con la realtà sono essenzialmente due: le idee e la poesia, quasi due forme di intelligenza che dialogano tra loro: la prima, astratta e discorsiva, l’altra, quella poetica, in contatto con l’inconscio e pronta a captare “flussi”, “onde”, “voci interiori”. La “verità” dell’esperienza ospedaliera non emerge tanto dal confronto con i temi storici e culturali, quanto dalla poesia, e in particolare da quel nucleo di poesie che concludono l’episodio intitolato Farsi da sé e confluiscono in un
testo più ampio, Scrivere sull’acqua: titolo che interroga il senso stesso dello scrivere. Sono versi che nascono da quelle esperienze sotterranee e remote che riaffiorano nei giorni in cui si pensa alla vita “con la speranza quasi ridotta a una candela” e “l’angoscia della notte che mi ingoia”.
Il poeta immagina un “volo radicale”, da interpretare come un ritorno alle origini della formazione dell’io e del suo dire poetico, al termine del quale c’è un tentativo di dialogo con una figura dal volto radioso:
Potermi reincantare,
poter tornare a guardare il tuo volto
come onda increspata dal vento,
ciliegio fiorito, fronda d’oro
di mimosa, cespuglio solare.
Viene evocato un perduto incanto infantile ma, come in quei sogni in cui il volto della persona scomparsa ci accoglie dapprima sorridente e poi si trasforma – noi commossi fino al pianto per l’inaspettato incontro – in maschera dai tratti duri e severi, così quel volto solare, probabilmente il padre, cela un essere insensibile, la cui durezza nega la comunicazione:
Sondarti è inutile
è scarso il tuo sforzo di reagire
ai miei pensieri, di avvertire la ferita
che s’apre nascosta tra le righe,
il mio farfugliare, il subbuglio
cresciuto tra le pieghe dei ricordi.
È questa figura ambivalente all’origine di quella ferita nascosta che si è aperta nella zona sensibile e profonda del linguaggio, generando angoscia e inibizione e lasciando emergere solo il “farfugliare”, “il subbuglio”.
Insieme a questa figura appare il tema dell’acqua:
Sto scrivendo la mia vita sull’acqua
della fontana che incontravamo
ogni volta, tornando dalla vigna
di Valle Fiumata, l’acqua sgorgata
dal cuore del monte Calvario
così pieno di ginestre.
Valle Fiumata è un luogo mitico dell’immaginazione di Salzarulo, simbolo di un flusso originario che è fiducia istintiva nella parola e nella poesia. Ma l’acqua che sgorga dal “cuore” del monte Calvario evoca anche la ferita, il sangue, la passione. La fiducia nella parola e nella poesia, l’atto stesso dello scrivere, è al contempo, un segreto dissanguamento. Quella ferita tra le righe prefigura un destino, una vita poeticamente emorragica. “Ma non è che il destino ce lo creiamo pure con le nostre poesie, i nostri pensieri, i nostri libri?”
I versi di Scrivere sull’acqua vanno letti in connessione con Mi piace scrivere al vento, titolo che raccoglie un gruppo di poesie scritte nell’autunno del 2023, in occasione dei tragici fatti di Gaza.
Mi piace scrivere al vento.
Mi piace scrivere al vento sapendo che non mi leggerai.
Il castagno, che a maggio si colora di rosa coi suoi fiori a grappolo,
alla festa di Ognissanti non ha più foglie.
È chioma scheletrita, immobile.
Anche qui la scrittura si confronta con una forza che la disperde e la vanifica, il vento, e con la consapevolezza di essere “ un Niente che parla”, una voce inascoltata (“Mi piace scrivere sapendo che non mi leggerai”). Non per questo il poeta rinuncia a testimoniare e a nutrire una speranza. Se la poesia non è esperienza condivisa, non si esclude la possibilità che un lettore, quel “tu”, si concretizzi in futuro. Permane una tenace speranza nella capacità della parola di germogliare altrove, come i semi trasportati dal vento. Un altro elemento di speranza è la presenza solida del castagno scheletrico, che evoca la morte, ma è in attesa della primavera.
In questi versi risuona come un’eco la sentenza e l’imperativo di un altro padre, di Fortini: “La poesia/non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”.
Ma in Scrivere sull’acqua gli elementi contrapposti, lo “scrivi” e le forze che lo vanificano, tendono sempre più a divaricarsi e la tensione culmina nei tre endecasillabi finali dove l’io poetico è oscurato dalla stessa luce che contempla:
Mi stai rendendo di nuovo oscuro
stai erigendo il muro invisibile
il salice amaro della paura.
Un muro divide il poeta da sé e dal mondo, presagio di un lungo e sofferto lavoro, di una lotta tra disintegrazione e ricostruzione dell’io, che lo attende al di là del tunnel di settembre.
Nota
Le quindici puntate di Nel tunnel di metà settembre si leggono qui su Poliscritture scrivendo il titolo in ‘Cerca..’ [lente d’ingrandimento] in alto a destra
grazie a Donato Gervasio per l’analisi dettagliata e sensibile del lungo raccontarsi di Donato Salzarulo Nel tunnel di metà settembre…Degente in ospedale per una e più malattie piuttosto serie, le riflessioni e le poesie alternatisi sembra normale il loro riferirsi spesso a quell’esperienza ultima che spetta a tutti noi. Tuttavia in tutte le scritture di Donato da me lette, quel rimanere costantemente in mezzo tra la vita e la morte, dialogando con loro, cercando di farle dialogare tra loro, mi è sembrata una caratteristica costante…Per cui la vita, bellezza e gioia, è pur venata di quel sangue che rigava il corpo della madre e il dolore per le sofferenze fisiche estreme è, pur nella paura, una sorta di passione piacere alla maniera delle mistiche cristiane…Infine l’acqua è l’elemento più vicino a far entrare in dialogo la vita e la morte…
SEGNALAZIONI
1.
Vorrei segnalare l’esperienza affine che registrai nel mio Diario d’ospedale del 1977 ma soprattutto gli interessanti commenti che si ebbero nel novembre 2019, in particolare quello di Luciano Aguzzi:
https://www.poliscritture.it/2019/11/30/diario-dospedale-1977/
2.
Copio anche dalla pagina FB di Angelo d’Orsi un suo recente commento, che tratta in modo davvero drammatico sia un caso di ospedalizzazione “infausta” che l’attuale condizione ospedaliera in Italia:
Angelo d’Orsi
dsSnrteoopi3:37le2 1209llafa4 79r37e281559 5ohp83uhr7l31h 57e ·
Ringrazio quanti hanno espresso preoccupazione suppongo per la mia salute, che non sta benissimo, ma non era un problema relativo a me, alla mia salute, la ragione per cui ho annullato lo spettacolo, ma piuttosto alla salute di altra persona, un’amica a me carissima. Un’amica che per un quindicennio ha avuto con il sottoscritto un rapporto personale intensissimo, di collaborazione intellettuale, di passioni civili e culturali condivise, una donna dalle qualità immense, una “leonessa in un corpo di farfalla”, come l’ha definita felicemente una comune amica.
Marina Mar, Mar di Mar, alias Marina Penasso, amica di Facebook, amica vera, donna intelligente, sensibile, colta come poche, pochissime; animo gentile, dotato di capacità di empatia straordinaria, amante della fotografia (tanti tra voi hanno ammirato i suoi scatti bellissimi qui o su Instagram), e del cinema (una cinefila impenitente), della letteratura, e specialmente della poesia, dei viaggi e delle scoperte, dell’arte e della natura (ah, il suo meraviglioso giardino!), del mare specie del Sud, il Cilento in particolare (lei, piemontese, si considerava una “meridionale ad honorem”), ma anche in montagna andava volentieri, purché non alta (la sua meta preferita era Oulx, nel Piemonte che guarda verso la Francia e le montagne alte, e ne sanno qualcosa i migranti).
Marina era una persona davvero speciale. Pedagogista e documentalista, la dottoressa Penasso lavorava in Sanità, e si occupava della salute dei piemontesi, ma anche al di fuori dei confini regionali, leggendo migliaia di pagine in varie lingue per documentarsi, e fornire basi scientifiche all’ASL, servizio di Epidemiologia regionale.
Era redattrice di Historia Magistra, responsabile in particolare della rubrica “Piccolo e Grande Schermo”, che ha portato alla perfezione, per ricchezza e valore e varietà dei contributi.
Ne parlo al passato, mentre piango, perché non riesco a credere che Marina non ci sia più, non nella sua delicata, graziosissima forma corporea. Marina è spirata ieri, 27 aprile (il giorno della morte di Antonio Gramsci), alle ore 18. Io che ero appunto in viaggio, per raggiungere l’Umbria dove avrei dovuto recitare il mio “Gramsci mai visto” (un progetto di cui Marina è stata parte essenziale fin dal suo primordio), sono giunto in ospedale dove giaceva da due mesi e mezzo, alle 18,05.
Erano queste le “gravissime ragioni personali”. Volevo arrivare in tempo al suo capezzale per un ultimo saluto. E invece non ce l’ho fatta. Non me lo perdonerò mai. Mai. Mai nei tanti o pochi anni che mi restano da campare.
E mi fa tanto più male pensare che sia mancata una persona che aveva tanti anni meno di me. Anche di più mi tormenta il pensiero delle sofferenze (mi hanno torturato, ripeteva sconfortata, ma indomita fino alla fine) alle quali i sanitari l’hanno sottoposta. Per salvarla, certo. E lei fino alla fine mostrava una forza incredibile, una capacità di sopportare il dolore, le “torture”, le privazioni, e tutti i vari incidenti di percorso che una sorte maligna le ha voluto far provare.
Ora però mi chiedo se non avremmo dovuto avere la forza di portarla via, di ricondurla alla sua casa, al suo letto, al suo giardino, alla sua gatta Bianca, o Bianchina, a suo figlio Stefano, intanto rientrato precipitosamente da Berlino, per stare accanto alla mamma. Stefano che perse il babbo da bambino, a causa di un incidente stradale, i cui responsabili non vennero scoperti.
Quanto a me ho passato in ospedale tutti i giorni nei quali sono stato a Torino, da febbraio a oggi, condividendo l’angoscia con lui, Stefano, e in parte con lo zio, fratello della mamma, e con l’amica – quasi sorella – Ornella Granito. E ho creato un gruppo di sostegno ideale con 35 amici e amiche e colleghi di Marina, che hanno mostrato un’amorevole dedizione quasi stupefacente, e ora che ho dato l’annuncio del tutto inatteso della morte (tre giorni prima i medici continuavano a dire che era in miglioramento, e che “i valori sono a posto”, e avevo ingaggiato un fisioterapista e due badanti), ora sto registrando quanto amore, quanta empatia, quanta capacità dialogica aveva saputo suscitare e distribuire a coloro che entravano in contatto con lei, la nostra Marina.
Non so se e quando tutti noi riusciremo ad accettare questa morte assurda, repentina, dolorosissima.
Marina era entrata in clinica per una operazione banale ha contratto una polmonite bilaterale, poi trasferita in ospedale pubblico, è stata flagellata da una seconda polmonite da pneumococco, e infine da una infezione da Clostridium, che l’ha stremata.
Naturalmente mi chiedo se ci fossero più medici, più infermieri, più “OS”, più apparecchiature (per Tac, per RMN eccetera) e maggiori spazi, in modo da evitare che una paziente fragile come Marina non fosse esposta a contagi, ma venisse protetta, e invece lei è stata messa, in tutte le occasioni, in camera con pazienti infetti, mi chiedo se le cose non sarebbero andate diversamente. E mi convinco, a maggior ragione, quasi fuoriosamente, che la spesa sanitaria invece di essere ridotta dovrebbe essere moltiplicata per 10, a beneficio non di pochi ma di tutti.
In un contesto siffatto, le nostre classi dirigenti pensano di arricchire i produttori di armamenti, invece di aiutare i popoli che dovrebbero “guidare” nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti, nella difesa del suolo, nella tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico e così via.
Sono contro la guerra, contro il “sistema guerra”, da sempre, e da oggi ancor più decisamente, drasticamente, ferocemente, di quanto lo fossi fino a ieri. Per le tante Marine, dobbiamo lottare contro questo abominio di pretendere di preparare la guerra per difendere la pace. E pace vuol dire salute, ossia salvezza.
Marina non si è salvata. E io vorrei mettere sul banco degli imputati non i medici e i loro collaboratori (certo ve ne sono di mediocri e di pessimi, ma di buoni e di ottimi, e molti fanno grandi sacrifici per sopperire alle inefficienze del sistema sanitario), ma ministri, sottosegretari, in”governatori”, e soprattutto l’inutile e dannosa ciurma dell’Unione Europea, a cominciare dalle “autorità” che la s-governano.
Ma ora, ora, mi rimane soltanto la forza di piangere per un’amica che non si è “risanata”, contrariamente al poema di Foscolo, menzionato nella Nota conclusiva del mio libro “Catastrofe neoliberista”, con una dedica proprio a Marina, con i versi di quell’amato poeta. Ora la sua copia del volumetto le è accanto nel feretro. E condividerà l’ultimo viaggio di Mar di Mar, Marina Mar, la nostra amatissima Marina Penasso.
3.
Il valore universale della sanità: dalle origini alla crisi attuale
di Angelo Castellani
https://www.leparoleelecose.it/?p=51370
Stralcio:
“La forza della ricostruzione di Giorgi è la profondità dello sguardo, sorretto da una miriade di documenti e di fonti che rendono il testo solido e la proposta interpretativa convincente. L’ampio spazio dedicato a mettere in evidenza i tentativi di costruire e istituzionalizzare un progetto di salute pubblica e integrata con l’ambiente fanno emergere in maniera evidente il fallimento di queste proposte. Un fallimento che non ha nulla di casuale, ma che è anzi frutto di una chiara visione politica che si è strenuamente opposta al valore universale del SSN, preferendogli una proposta di salute individuale, privatizzata e decontestualizzata.”