
Riordinadiario 2020/1° maggio
a cura di Ennio Abate
POLISCRITTURE su Facebook
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Samizdat
Dimmi come critichi e ti dirò chi sei. Ancora sul caso Agamben e non solo
In tempi di epidemia da coronavirus (e di infodemia: eccesso mostruoso dell’informazione “contundente”) la polemica – cattivista, furbastra, “di pancia”, narcisista o ammantata di sottigliezze – è trionfante. Ne ha fatto le spese il filosofo Giorgio Agamben, uno dei pochissimi intellettuali “di fama”, che ha sollevato dubbi sulla effettiva pericolosità del coronavirus e sui rischi delle (colpevolmente tardive) misure governative per contenerne i danni in Italia. Colpisce l’abbondanza di improperi (più che di critiche) e l’accanimento (spesso autoesibizionistico) che sono piovuti su di lui rispetto alle difese d’ufficio di governanti come minimo imprevidenti.
Tra gli intellettuali “non di chiara fama” e “del tutto sconosciuti” sono stato anch’io uno dei pochi che ha rifiutato i “crucifige”, i “vai a cagare”, i “ma questo si è rincoglionito” e le altre meschinità lanciate contro Agamben.(Cfr. precedenti post qui su POLISCRITTURE FB). Non perché “agambiano” o imbambolato da una figura culturalmente prestigiosa, ma, semplicemente perché cerco ancora di ragionare.
Ora in ritardo ho letto le critiche ad Agamben di Alessandro Visalli (qui) e anche gli interessanti commenti sulla sua pagina FB. Fa piacere risalire ad un altro livello di confronto. Visalli, infatti, entra nel merito della presa di posizione di Agamben, ne riconosce la legittimità (a differenza degli sbeffeggiatori o denigratori compulsivi) e gli muove critiche sempre puntuali.
Tuttavia, di esse non condivido – e lo dico in breve – due cose:
il rifiuto dei punti di verità (e in particolare dei rischi) presenti nella posizione di Agamben. Più vecchio di Visalli, ricordo bene l’atteggiamento che ebbe F. Fortini nei confronti delle posizioni politiche altrettanto “scandalose” (nel clima drammatico degli anni ’70) della Autonomia Operaia. Ne individuava i limiti (ripetere le «tragiche coglionerie delle avanguardie»), ma si sforzava (ed era in grado) di riconoscere alcune verità sia pur dette «con le parole dell’errore» (Disobbedienze II, pag.171);
il loro statalismo. Agamben potrebbe avere anche torto marcio sul punto della letalità del coronavirus, ma tiene ferma la critica allo Stato. Il venir meno nelle posizioni di Visalli di questa critica quasi in assoluto e la conseguente sottovalutazione delle responsabilità per la mancata difesa preventiva dall’epidemia mi pare grave. Visalli parla di semplici e contingenti “forzature” e “abusi” e concede un ampio e del tutto immotivato credito allo Stato (“Chiaramente non appena l’emergenza dovesse retrocedere bisognerà che tutto [le restrizioni fondate e infondate] sia smantellato”).
P.s.
Anche se in buona parte riferito alla situazione in Francia, trovo conferma alle mie perplessità sulla adesione quasi incondizionata di molti intellettuali pensanti allo statalismo in questo articolo:
Sovranità di Stato o solidarietà comune di Pierre Dardot, Christian Laval (qui)
Ennio, la critica della debolezza dello Stato nel lasciare inermi davanti all’emergenza del coronavirus, o per dirlo diversamente dello Stato neoliberale nel farlo, smantellando le protezioni è la prima cosa che ho scritto in assoluto. Nel primo post della serie. Tutto si può dire della mia posizione, ma questo proprio no.
Alessandro, non dico che tu non critichi le debolezze dello Stato (liberale). Dico piuttosto che di fondo la tua posizione mi pare statalista, cioè si è allontanata dalla critica allo Stato di tipo marxista. (Concedimi di poter anche sbagliare. Per due motivi: 1. non riesco a seguire puntualmente tutte le tue ammirevoli e rigorose analisi; 2. sono rimasto ancorato a schemi “rivoluzionari”).Buon lavoro comunque.
Alessandro Visalli
Quanto alla “critica dello Stato” in quanto tale, sai che non la condivido. E’ chiaro che questa è l’ispirazione di Agamben ed anche dei trotskisti Dardod e Laval. Ma io non sono trotskista, e neppure anarchico, questo penso che tu lo sappia. La mia posizione si desume dall’insieme dei miei interventi (peraltro tutti parziali) non da una sola. Alla fine farò anche un post di sintesi, ma temo verrà molto lungo.
Neppure io sono trotskista o anarchico. Ma sono forse più attento a cogliere le “verità” presenti in quelle impostazioni di pensiero. ( Perciò ho richiamato le critiche di Fortini ad Autonomia Operaia degli anni ’70).
Ma, sai Ennio, anche io ho letto, e per tempo, sia i libri di Trotsky (anche se non tutti) sia quelli di Kroptkin, Bakunin, etc., e peraltro Foucault, Derrida, etc. e non nego la loro importanza. Il fatto è che ogni cosa ha il suo tempo e oggi mi pare che l’agenda sia diversa. O, in altre parole, sento altre urgenze.
Comunque anche se a volte sono distratto da troppe cose apprezzo il dialogo con te. Mica dobbiamo essere per forza d’accordo.
io vi leggo volentieri
Alessandro Visalli
link (qui) TEMPOFERTILE.BLOGSPOT.COMDisorganizzazione e riorganizzazione. Coronavirus e cronache del crollo.
Leggerò
Alessandro Visalli
link (qui)TEMPOFERTILE.BLOGSPOT.COM Paura, governo, sovranità e coronavirus.
Ennio, non ti pare che nel tuo ragionamento vi sia una contraddizione tra l’accusare lo Stato (che sembra si voglia neutro, benevolo ed efficiente quando serve) di non aver, colpevolmente, adottato misure preventive adeguate in vista del rischio del verificarsi di un epidemia e l’accusarlo ex post di adottarle, in uno stato di crisi conclamato, per limitarne socialmente gli effetti? Lo Stato dovrebbe quindi funzionare solo per garantire, in linea di principio e di diritto, la libera attuazione delle invocate “libertà individuali” ed astenersi dall’operare per definire misure collettive di limitazione della possibilità che l’esercizio di dette libertà sia esposto al rischio di subire un vulnus definitivo che ne pregiudicherebbe ogni futuro concreto esercizio?
Sarei in contraddizione se – come scrivi – io accusassi lo Stato prima di non aver fatto prevenzione e poi lo accusassi anche per aver cercato di rimediare. Né mi pare che io l’abbia criticato SOLTANTO perché non rispetterebbe le “libertà individuali” (che poi non sono così separabili da quelle “sociali” e così trascurabili, quasi fossero un “lusso” rispetto alle “sociali”).
P.s.
Trotskisti o meno le cose che dicono Dardoti e Laval in questo passo vanno meditate:
“nvocando lo Stato in quanto entità metafisica protettrice, sorta di Padre politico che ci salverà, si dimentica che quest’ultimo è, innanzitutto, una macchina amministrativa fatta per dominare una popolazione nazionale, una macchina presieduta e costituita da governanti che, una volta eletti, fanno a loro piacimento, o piuttosto fanno ciò che l’ordine del mondo gli impone, dominato a sua volta dalla logica del capitale globale. Al contrario, ciò che la popolazione si aspetta è uno Stato che stimoli, coordini e finanzi la solidarietà, uno Stato dei servizi pubblici, uno Stato che tenga conto degli interessi vitali della popolazione, uno Stato di cittadini fatto per i cittadini, uno Stato di operatori sanitari, di operatori ecologici, di insegnanti, di assistenti sociali, uno Stato che garantisca l’approvvigionamento alimentare, che si prende cura degli anziani, dei senzatetto, dei più poveri e dei disoccupati che si moltiplicheranno. L’esatto contrario dello Stato neoliberale, insomma. Eppure, la situazione che si sta profilando è quella di uno Stato autoritario ridipinto con i colori nazionali, uno Stato violento, liberticida, iperverticista, uno Stato costruito contro la sua popolazione, contro i cittadini e i loro diritti civili, sociali e politici. “
Non ho quasi nulla da obiettare a quello che scrivono qui Dardot e Laval. Per me lo Stato non è un feticcio e credo sia giusto pretendere che possa svolgere le funzioni quì auspicate. Bisogna però essere realisti e la critica “distanziante” secondo cui lo Stato si profili ora, univocamente, come “autoritario ridipinto con i colori nazionali, uno Stato violento, liberticida, iperverticista, uno Stato costruito contro la sua popolazione, contro i cittadini e i loro diritti civili, sociali e politici.”, mi pare non tener conto che il governo di uno Stato, non è un polo centrato, ma sempre la sintesi di una serie di interessi spesso confliggenti tra loro e per lo più espressione degli interessi delle classi dominanti o delle istanze dei poteri/ideologie dominanti, oggi, in larga parte affermate su una scala sovrastatuale. La necessaria democratizzazione delle funzioni statuali non si ottiene, però, per via del rilancio di una polarizzazione secca politiche pubbliche di governo (per quanto contraddittorie, inadeguate e criticabili che siano) ed una dimensione astratta in cui si esercitetebbero ed affermerebbero liberamente i diritti della sfera dell’agire individuale/relazionale, che, come sai meglio di me, sono sempre determinati dal vincolo dei rapporti (e dei ruoli) sociali.
ma insomma si è espresso anche Sabino Cassese dicendo che questi decreti sono stati fatti male e incostituzionali, basterebbe partire da qui senza toccare i massimi sistemi (i quali mostrano l’esigenza di una revisione dell’idea di Stato come affermava anche Michel Clouscard)
Alessandra Roman Tomat
Maurizio Bosco certo, si! Perché no? Più seriamente, se vuoi. Lo Stato deve fare prima e innanzitutto il suo lavoro di Stato ed eventualmente sacrificare (il meno possibile, con tutte le garanzie e per un tempo limitato ecc ecc) le libertà individuali e sociali ad eventuale rinforzo della sua azione sul piano organizzativo, sanitario, economico ecc ecc. Non il contrario. Come è stato fatto. Buttare su di noi le inadeguatezze del sistema statale e (a cascata, drammatica cascata in Lombardia) regionale. Così è andata. Non volete vederlo perché? Si può anche dire vabbè ormai, ma almeno ammetterlo perché non succeda più. Non continui a succedere.
Ennio Abate
Maurizio Bosco Premessa en passant (per Paolo Emilio Antognoli). A me pare necessario anche muoversi sui cosiddetti “massimi sistemi” (senza restarci possibilmente…). E allora:
Maurizio, adesso sono io che vedo una certa contraddizione tra dire che “lo Stato non è un feticcio” (e quindi è istituzione criticabile – almeno in teoria, che diamine! – transeunte, modificabile, sostituibile da “qualcos’altro”) e – per supposto “realismo” – mettere tra parentesi (o sorvolare o tacere) sulla sua natura (storica!) di strumento atto, quantomeno, più a soddisfare gli “interessi delle classi dominanti” che di quelle – diciamo – che hanno bisogno di uscire da una condizione di sottomissione, alienazione, conduzione precaria o affannosa della loro vita. Certo, esso è ANCHE un’istituzione dove si manifestano “interessi spesso confliggenti tra loro” (tra frazioni di potenti; tra potenti solidamente e tradizionalmente ben insediati nei suoi gangli più vitali e rappresentanze degli interessi dei dominati, che soltanto nei periodi di intense lotta sociali e di crisi hanno potuto penetrarvi fino a sfiorare le cosiddette “stanze dei bottoni”).
Ma quella che chiami “ necessaria democratizzazione delle funzioni statuali”, secondo me, può essere – lo dico in modo drastico – soltanto uno specchietto per le allodole. Risulterà sempre parziale, sempre limitata, sempre riassorbibile. Perché o i movimenti di lotta raggiungeranno una forza tale per dare una spallata allo Stato e sostituirlo con “qualcos’altro” (finora indicato con i nomi generici di ‘socialismo’ e ‘comunismo’) o nello Stato il peso degli “interessi delle classi dominanti” sarà sempre quello decisivo, e dunque prevalente ( anche quando la sua “democratizzazione” raggiungesse il – lo dico grossolanamente – il 60-70%).
La domanda che ancora ci dovremmo fare è questa: che idea avevamo dello Stato noi che abbiamo assorbito un po’ la lezione di Marx, Luxemburg, Lenin, Mao? Quanto si è annacquata o dileguata nel corso del Novecento? Da quale idea è stata sostituita nelle menti di quelli che ancora criticano questo Stato (capitalista, neoliberale, di sorveglianza, ecc.)?
Il discorso sarebbe lunghissimo ma potrebbe essere fatto confrontando esempi di pensatori di ieri ormai “superati” e pensatori d’oggi “nuovi” o “novissimi”.
Ennio, cerco di chiarire il mio pensiero. Io dico che lo Stato per me non è un feticcio perché credo che tutti le parole d’ordine del “più Stato meno mercato”, mettano tra parentesi cosa sia concretamente lo Stato oggi e che si rende necessaria una conoscenza, in larga parte incompleta o parziale di come funzione praticamente la macchina statuale anche in rapporto contraddizione con la funzione governativa. E, sì, è necessaria una riflessione da riprendere sulla natura dello Stato oggi. Sebbene io resti abbastanza vicino alla lettura marxista classica ed alla definizione che Althusser ha dato dello Stato come “macchina che funziona a lotta di classe”, credo che in attesa di “spallate” definitive, che non so se mai potranno determinarsi, si debba operare concretamente, sulla base naturalmente dei rapporti di forza attuali, che ci vedono in netto svantaggio, per difendere, rimanendo dentro l’attuale cornice della sua attuale esistenza, per difendere alcuni argini democratici e costituzionali dal tentativo di smantellamento totale del sistema dei diritti e delle politiche a favore delle classi svantaggiate magari; e per forzare verso un avanzamento della possibile democratizzazione della vita pubblica. Sia chiaro, il funzionamento dello Stato si avvale di una serie di apparati esplicitamente, repressivi e, non meno, ideologici, che servono a consentire la riproduzione degli attuali rapporti sociali e tuttavia non possiamo ricorrere realisticamente, qui ed ora, ad un appello all'”estinzione”della macchina statuale, prefigurata come obiettivo ultimo (ideale?) conseguente al raggiungimento della scomparsa delle classi in lotta tra loro, come da (certo) canone marxista. Se guardiamo all’esperienza sovietica Rita di Leo, nel suo “L’esperimento profano” ha giustamente fatto rilevare come coloro che si ispiravano al programma dell’estinzione dello Stato, ne siano stati i più strenui difensori e conservatori. Io ho una visione un po’ discosta dal dogma marxista, in questo. Credo che in qualsiasi tipo di società futura che si possa immaginare non si potrà fare a meno di ricorrere all’esistenza di apparati, anche burocratici, che si facciano carico dell’organizzazione della vita sociale e credo poco al raggiungimento di una condizione di “autogoverno sovrano” della produzione associata che possa prescindere da un luogo Altro, strutturalmente inaggirabile che costringe la vita della società e dei suoi componenti individuali a confrontarsi (anche confllittualmente) con una struttura ineliminabile di regole sedimentate e sovraindividuali e delle sue appendici ideologiche. Questo per me, dal punto di vista di uomo, che è per formazione debitore ancora nei confronti delle categorie della modernità, è un assunto addirittura pre-politico, che discende dal mio debito verso alcune condizioni della costituzione soggettiva, individuale e collettiva. Confesso di essere debitore nei confronti del pensiero hegeliano sull’articolazione delle componenti del mondo associato, ma anche del Freud del “Disagio della civiltà”. Questo non impedisce naturalmente che si debba negare legittimità a tutte le lotte, che peraltro si producono costantemente, per una trasformazione possibile di questo assetto e per per la necessità, che tu giustamente rivendichi, di continuare ai esercitare un’azione critica (e pratica) nei confronti delle condizioni qui ed ora date, purché non ci si muova in vista di condizioni futuribili e definitive che ricordano solo la tendenza a ricadere in una cattiva infinità. Grazie per la tua attenzione ed il tuo contributo, sempre generoso alla discussione su temi tanto complessi.
Sì, forse le tesi marxiste sullo Stato (o soprattutto le formulette da esse ricavate?) sembrano chiudere il discorso sullo Stato, invece di aprirlo. Ma non vale anche per le tesi (o le formulette) della POSSIBILE “democratizzazione” dello Stato?
Si tratta soprattutto di evitare le formule (e i dogmi) di entrambe le impostazioni: la “rivoluzionaria” e la “riformista” (con il vecchio “dialetto” del fu movimento operaio); e di studiare con rigore e passione sia le trasformazioni reali intervenute nel frattempo sia le costanti tuttora intatte della funzione statale nella vita sociale.
Credo perciò che, sì, abbiamo avuto un “dogma marxista” (come c’è un dogma liberale o neoliberale), ma dobbiamo fare più attenzione oggi al rischio di sostituire nuovi dogmi con i vecchi. E oggi a me pare che, assieme al “dogma marxista”, ci si sia sbarazzati anche di quella parte dell’analisi dello Stato di matrice marxista, rozza quanto si vuole, che però dogma non era. Quanto alla tua “credenza”( o più seriamente: ipotesi) che “in qualsiasi tipo di società futura che si possa immaginare non si potrà fare a meno di ricorrere all’esistenza di apparati, anche burocratici”, farei notare che essa finisce per abbandonare, quasi automaticamente, qualsiasi “credenza” (o ipotesi) di società senza Stato (“ una condizione di “autogoverno sovrano” della produzione associata che possa prescindere da un luogo Altro”). Posso concedere che la tua ipotesi è più probabile dell’altra. Eppure, ammesso per l’oggi e per un lunghissimo tempo che lo Stato non si possa né “abbattere” né “cambiare” (né in un sol colpo né con un lungo lavorio da talpe), cosa impedisce di pensare che esso non sarà orizzonte permanente e imprescindibile? Che dalle sua contraddizione non si possa passare ad una contraddizione più alta (che era poi il comunismo di cui parlava Fortini)?
Ovviamente uno dirà che questi sarebbero discorsi oziosi, irrealistici, fumosi. E’ vero. Molto pensiero utopistico infastidisce anche me. Eppure come non vedere che la ricerca su questi problemi viene amputata? E con quali conseguenze? E perché disturba tanto la credenza o ipotesi di un cambiamento “assoluto”? Solo perché sarebbe “cattiva infinità”? E ancora: perché troppo facilmente i cosiddetti “realisti”, che vedono la forma Stato, se non proprioimmutabile, duratura per chissà quanti secoli ancora, danno facilmente addosso solo a chi la rifiuta (anarchici o la mette in discussione), svalutano fin troppo le lotte “non guidate”? (Anzi sostengono che non possono che essere guidate da “emissari dello Stato” o “nemici del popolo” e scivolano in un’adesione acritica alle scelte dello Stato esistente, come si è visto ora in occasione dei decreti governativi di Conte “contro” il coronavirus?)
Ennio, le mie opinioni valgono quello che valgono. Per il futuro io non esludo nulla e non sono per l’accettazione acritica dello Stato e delle sue funzioni, tanto meno di quello neoliberista che, peraltro, ha mutato e continua a mutare le caratteristiche che gli riconosciamo ogni giorno. Dico solo che la “democratizzazione” delle forme di vita associata e degli apparati che la presiedono, dipende dall’evolversi degli scontri sociali e dall’affermarsi di ideologie che sappiano informare il senso comune. Su questo piano non intendo buttare a mare quello che la tradizione marxista ci ha consegnato. È una questione di lunga durata ed un cammino tutto in salita. Per il resto credo che la natura dello Stato (capitalistico) debba tornare ad essere al centro dello studio, che è cosa diversa dalla mera denuncia anti-statalista, così come dalle fantasie ed evocazioni di un possibile Stato ideale, in cui anche suoi critici anarchicheggianti si impegnano. Anche questi, però, sono compiti che richiedono nuove modalità dell’agire pratico collettivo e richiamano problemi che non si possono risolvere semplicemente “discutendone”, per quanto anche il dibatterne possa risultare di qualche utilità. Ciao
Maurizio Bosco Sono d’accordo.