Su “Dolore e furore” di Sergio Luzzatto

Un oggetto di speculazione storiografica:
le Brigate rosse

di Eros Barone

1. Una tesi che piace alla borghesia “di sinistra”

È vero che, come diceva Marc Bloch, “lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana”, ma Sergio Luzzatto, a furia di scrivere biografie (fra queste quella del “Corpo del Duce” relativa alla sorte del cadavere di Mussolini, quella della “Mummia della repubblica” relativa alla sorte del cadavere di Giuseppe Mazzini, nonché quella di Padre Pio anch’essa incentrata sulla corporeità del santo); a furia di scrivere biografie, dicevo, si è talmente ingozzato di quel cibo da farne indigestione.
Il risultato è un tomo di 700 pagine, del quale, tenuto conto dei puntuali rilievi mossi da vari critici alla base documentale e testimoniale della ricostruzione e alla rielaborazione spesso romanzesca, fuorviante quando non fallace, cui quella base mette capo, il meno che si possa dire è, secondo un famoso adagio degli antichi, che “mega biblíon mega kakón” (un grosso libro è un grande male). In effetti, la tesi sostenuta dall’autore – essere state le Brigate rosse un prodotto confezionato da alcuni professori universitari di via Balbi (rione di Genova dove si trovano le sedi delle facoltà umanistiche) – è una mezza verità, che può piacere a quella frazione della borghesia intellettuale cui piace flirtare con i rivoluzionari, ma l’altra mezza verità, quella che qualitativamente è decisiva per l’interpretazione della genesi della lotta armata in Italia, ci dice che le radici più profonde delle Br vanno ricercate in una certa composizione di classe operaia e popolare, quindi non ad Albaro, quartiere residenziale alto-borghese di Genova, o in via Balbi o a San Martino, quartiere quest’ultimo dove si trovano le facoltà scientifiche, ma, oltre che ad Oregina, a San Teodoro e nel Centro Storico, nel Ponente industriale, nella Valpolcevera delle grandi e piccole aziende, fra Sampierdarena, Cornigliano e Campi, quartieri schiettamente proletari.
Se l’autore di “Dolore e furore” (titolo programmaticamente romanzesco desunto da un’endiadi di provenienza rossandiana) proverà a ispezionare questi luoghi della Genova proletaria e industriale avrà modo di notare il grande numero di gabbiani che si affollano sul greto del torrente Polcevera e si nutrono di scarti. Ebbene, ricordando anche l’impietosa stroncatura fatta da un eminente critico e storico della letteratura, quale è stato Alberto Asor Rosa, di un “Atlante letterario” curato da Luzzatto in veste di factotum per la casa editrice Einaudi, il paragone che mi è venuto in mente è proprio quello con i netturbini alati e palmati.
Per esprimerci in termini non metaforici, io ritengo che, socialmente e ideologicamente, il Luzzatto sia un intellettuale borghese della “zona grigia”, la cui appartenenza ad una sezione dominata della classe dominante (per dirla con il sociologo Pierre Bourdieu, cui si deve questa esatta definizione del ceto intellettuale) fa di lui il classico prototipo di chi è amico del nemico (la classe or ora indicata) e nemico dell’amico (la classe di cui si finge “compagno di strada”).

2. Una clamorosa omissione: la “banda Cavallero”

Da questo punto di vista, non sorprende, anzi è del tutto coerente, sul terreno squisitamente storico della ricostruzione della genesi della lotta armata, la clamorosa omissione, in cui è incorso Luzzatto, di quel precedente altamente significativo in rapporto a tale genesi che è rappresentato dalla vicenda della “banda Cavallero”: un’omissione talmente singolare che si sarebbe tentati di attribuirla all’ottica sostanzialmente perbenistica e ideologicamente subalterna che impronta il libro dello storico genovese.
Il 25 settembre 1967 le vie di Milano furono infatti teatro di una sanguinosa sparatoria tra un gruppo di rapinatori che, dopo aver dato l’assalto a due banche, stavano fuggendo a bordo di un’automobile, e le volanti della polizia che li inseguivano. Al termine di quella folle corsa durata quasi un’ora, corsa che si era snodata attraverso le vie della città coprendo una distanza di dodici chilometri, vi furono quattro morti e quattordici feriti tra i passanti e otto feriti tra le forze dell’ordine. Aveva così termine, con un furibondo conflitto a fuoco e l’arresto di tutto il gruppo nei giorni successivi, l’attività della “banda Cavallero”, che aveva operato tra Milano e Torino mettendo a segno i suoi colpi per quasi nove anni. I suoi componenti rispondevano ai nomi di Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez e Danilo Crepaldi. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo dei tre principali imputati e pene minori per gli altri due coimputati. Prima del processo, su questo clamoroso episodio di apparente cronaca nera non mancò neanche un film, Banditi a Milano, realizzato dal regista Carlo Lizzani, che dètte il suo virtuoso contributo alla ‘mostrificazione’ della “banda Cavallero”.
Ma l’aspetto più sorprendente della vicenda, quello che contribuisce, come si è detto, a spiegare il “lapsus memoriae” di Luzzatto, fu quello che si ebbe nel corso delle udienze del processo, poiché gl’imputati, più che a discolparsi dei reati commessi, puntarono a rivendicarne le finalità ideali, appellandosi alla prospettiva di una rivoluzione proletaria per finanziare la quale ritenevano necessario dare l’assalto alle banche, emblematici “santuari del capitale”. Così, in coerenza con tale motivazione, quando i giudici dettero lettura della sentenza, i tre principali componenti della banda Cavallero si alzarono in piedi e, levando il pugno chiuso, intonarono “Avanti, siam ribelli”, celebre ‘refrain’ dello storico canto di protesta intitolato “Figli dell’officina”.
Del resto, la “banda Cavallero”, se da un lato evocava, insieme con la tesi politica della “Resistenza tradita” e con il mito romantico del bandito che insorge contro la società dei padroni, le esperienze reali vissute da coloro che, finita la Resistenza e il momento epico della lotta partigiana, non erano riusciti a reinserirsi nella vita normale – esperienze come quelle raccontate da Fenoglio nel romanzo “La paga del sabato” -, rispecchiava anche, da un altro lato, quella composizione di classe operaia e proletaria che, nel volgere di un breve lasso di tempo, avrebbe trovato, almeno in parte, la sua espressione politica e militare nel modello della lotta armata metropolitana elaborato e praticato dalle Brigate rosse. Non a caso, quando durante il sequestro Moro queste ultime chiesero allo Stato la liberazione dei prigionieri rivoluzionari in cambio della liberazione di Aldo Moro, misero Sante Notarnicola all’inizio dell’elenco dei detenuti politici da liberare: riprova, questa, del ruolo politico riconosciuto a un militante comunista che era stato uno dei principali componenti della “banda Cavallero” ed era, in quel periodo, uno degli esponenti più lucidi e combattivi della rivolta contro il regime detentivo e il carattere totalitario dell’istituzione carceraria.

3. “Gli imprendibili”

Ben diversa da quella di Luzzatto è l’ottica di Andrea Casazza (pur citato di scorcio in Dolore e furore), il quale nel 2013 pubblica il saggio “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse”. In questo saggio, che va considerato esemplare, viene ricostruita, sulla scorta di una vasta, minuziosa ed articolata documentazione, la lunga e complessa storia delle Brigate rosse genovesi. Genova è infatti la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, con la formazione della “banda XXII Ottobre”, collegata con i Gap fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, ebbe inizio la storia della lotta armata in Italia. Il clamoroso sequestro di Mario Sossi nel 1974 e l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta nel 1975 furono le azioni compiute dalla colonna genovese delle Brigate rosse: il primo era stato il pubblico ministero nel processo alla “XXII Ottobre”, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della «banda» richiesta dalle Brigate rosse in cambio della liberazione del magistrato sequestrato.

Da quel momento e fino al 28 marzo 1980, data dell’uccisione, compiuta dai carabinieri, di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del “pentito” Patrizio Peci, la colonna incarnò il mito dell’imprendibilità. Un periodo di sei anni in cui la formazione brigatista partecipò al rapimento dell’armatore Pietro Costa, attuò quindici “gambizzazioni” di esponenti della Democrazia Cristiana, di dirigenti industriali e del vicedirettore del quotidiano «Il Secolo XIX», e consumò gli omicidi di quattro carabinieri e di un commissario di polizia. Ma ciò che impressionò maggiormente fu l’uccisione di Guido Rossa, operaio e militante del Pci, punito per aver contribuito all’arresto del brigatista Francesco Berardi, sorpreso mentre diffondeva volantini delle Brigate rosse all’interno della fabbrica nella quale entrambi lavoravano.

Nonostante il duro colpo subìto in via Fracchia, nel 1980 la colonna arrivò all’acme della sua forza politica e militare, potendo contare su una settantina di militanti, oltre che su un’ampia rete di simpatizzanti. Con l’arresto fortuito di due militanti minori, alla fine di quello stesso anno, si aprì, a quel punto, un processo di disgregazione. I due arrestati decisero di collaborare con le forze di polizia determinando così la distruzione definitiva della colonna e del suo mito di imprendibilità. Ma questa storia è intrecciata con un’altra, non meno complessa e significativa: l’incriminazione, posta in atto da alcuni collaboratori del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che nel 1979 portò in carcere una quindicina di militanti dell’estrema sinistra genovese ingiustamente accusati di appartenere alle Brigate rosse. Un processo che crollò dopo dodici anni e che comportò, per quattro vittime di quegli arresti, il tramutarsi delle sentenze di condanna in assoluzioni piene.

4. Limitatezza di coscienza e di visuale

Tornando al libro di Luzzatto, è opportuno sottolineare che l’involuzione ideologica che, nel corso del tempo, ha contrassegnato le scelte di carattere tematico e le modalità discorsive dell’autore trova un preciso riscontro anche sul piano dello stile, che è caratterizzato dalla tendenza verso un livello basso-mimetico e da una prosa che oscilla costantemente fra il tono burocratico-referenziale, il tono romanzesco-evocativo e il tono critico-saggistico: una prosa che rivela la sua natura pretenziosa e insieme posticcia nelle note acrimoniose e derogatorie con cui l’autore, animato dal chiaro intento di denigrare, svalutare e banalizzare il significato storico, politico, intellettuale e morale della esperienza della lotta armata in Italia, incornicia, sigla e commenta gli episodi rievocati e i personaggi descritti.

In questo senso, è davvero rivelatrice la prosopografia di Riccardo Dura, visto come prototipo del soggetto marginale e ribelle, tanto affascinato dai “cattivi maestri” del sovversivismo universitario quanto spietato nell’azione politico-militare con cui tratta, convertendole in antagonistiche, le “contraddizioni in seno al popolo”: tale quindi da assurgere, nella visione ad un tempo lombrosiana e deamicisiana dello storico genovese, a simbolo individuale della composizione di classe delle Brigate rosse.

Nel complesso, dunque, la ricostruzione offerta da Luzzatto non fa compiere un passo avanti alla storiografia sulla lotta armata né in termini di approccio né in termini di metodo, nonostante un apparato documentario ponderoso ma anche, come si è notato, unilaterale, ‘giocato’ tra archivi pubblici e privati e fonti orali non sempre controllate né controllabili. Così, la ricostruzione minuziosa, talora pleonastica e talaltra lacunosa, è posta al servizio di una tesi storica il cui carattere predominante è esplicitamente endosistemico e apologetico. A riconoscerlo, d’altronde, è lo stesso autore: costui, nell’‘explicit’ di un libro dedicato alla storia di una formazione rivoluzionaria, non si perita di rendere omaggio al padre, poiché questi, coniugando «la lucidità dell’insider e la lucidità dell’outsider», gli avrebbe insegnato saggiamente, «più che il salto in lungo del rivoluzionario, il passo lento del riformista». È difficile immaginare una definizione più calzante della limitatezza della coscienza ideologica e della visuale storica che sono proprie di un esponente intellettuale della borghesia “di sinistra”.


* L’articolo è già comparso su Sinistra in rete.

11 pensieri su “Su “Dolore e furore” di Sergio Luzzatto

  1. Quanti, come me, avevano 25/30 anni all’epoca, pur antagonisti (più che rivoluzionari) , considerarono le assurde mescolanze di quei personaggi! Mancava una forza unitaria che potesse indirizzare il cambiamento. Restammo dispersi e derisi, e impotenti. Il voto… nel ’75 nelle elezioni regionali il PCI arrivò a livelli mai più raggiunti. E al compromesso storico. Ma poi, l’omicidio di Moro…

  2. DALLA PAGINA FB DI POLISCRITTURE SU FACEBOOK

    Alberto Rizzi

    Mi son sempre chiesto se, dietro gli slogan della Banda Cavallero, ci fosse un progetto di lotta (militare) politicizzata, o se si trattasse solo di romanticherie costruite per giustificarsi. Non so se Notarnicola (dal punto di vista politico persona credibilissima e per certo in buona fede), abbia dato conferma di quella possibilità.

  3. Notarnicola, vivente (gestisce un’osteria nel centro di Bologna), è, fra i componenti del gruppo creato da Cavallero, quello che ha avuto nel corso dei decenni successivi, trascorsi in gran parte in carcere a studiare, scrivere, discutere, istruire e organizzare rivolte, l’evoluzione politicamente e culturalmente più significativa (importante e pregevole è, ad esempio, la sua produzione poetica). Da questo punto di vista, si può legittimamente affermare che le lotte animate da Notarnicola e da altri detenuti, come lui coscienti e combattivi, hanno contribuito a rendere possibile la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 e la legge Gozzini del 1986. Notarnicola, dopo avere scritto un libro autobiografico sulla sua drammatica esperienza nelle carceri, intitolato L’evasione impossibile e pubblicato da Feltrinelli nel 1972, tentò anche materialmente di evadere. Così ha raccontato in un’intervista la sua “evasione impossibile”: «A Favignana le celle erano state costruite su una vecchia cava di tufo, l’umido aveva creato una camera d’aria […]. Noi l’avevamo capito e così scavammo un lunghissimo tunnel che finiva oltre il muro di cinta […]. Ci volle un anno e mezzo […]; infine riuscimmo a guardare le stelle in libertà, ma non a scappare. Eravamo su un’isola». Occorre aggiungere che Notarnicola e i suoi compagni di carcere non avevano né mezzi né protettori, sicché furono tutti catturati.

    1. Mi scuso per l’inesattezza, ma ho controllato soltanto dopo avere scritto la risposta. Notarnicola è scomparso tre anni fa.

  4. Grazie a @Eros Barone, ma io mi riferivo al periodo in cui la banda operava a pieno ritmo: conosco benissimo la storia di Sante, il suo impegno anche nei fatti e la sua coerenza dal momento dell’arresto in poi.
    Ma mi chiedevo se fosse emerso che, prima, nella banda si fosse parlato di qualche programma “pratico” una volta procuratisi i soldi.

    1. Ringrazio a mia volta Alberto Rizzi, che mi offre l’opportunità di approfondire il discorso sul ruolo svolto dalla Banda Cavallero alle origini della lotta armata. Approfitto dell’occasione per segnalare, quale importante fonte storica, l’autobiografia di Bianca Guidetti Serra, realizzata assieme a Santina Mobiglia, “Bianca la rossa”, Einaudi, Torino 2009. L’autrice, avvocato penalista per quasi mezzo secolo, è stata una nobile figura – si sarebbe detto nell’Ottocento – di “avvocato degli umili e degli oppressi”. La sua testimonianza di costante e disinteressato impegno civile, politico e professionale costituisce, soprattutto oggi, una lezione preziosa e appassionante. Desidero inoltre ricordare, in questa sede, un’altra nobile figura di professionista del diritto politicamente impegnato, che conobbi personalmente negli anni Settanta: l’avvocato genovese Edoardo Arnaldi, partigiano comunista, difensore dei militanti di sinistra e attivo nel Soccorso Rosso, il quale muore suicida a Genova il 19 aprile 1980, quando i carabinieri vanno a casa sua per arrestarlo.
      Ciò detto, occorre precisare che le radici della “banda Cavallero” affondavano nell’ambiente proletario della barriera di Milano, uno dei quartieri operai della cintura torinese dove era maturata quella rivolta personale e istintiva contro la società borghese-capitalistica e le sue ingiustizie, che aveva trovato il suo sbocco nella scelta della lotta armata. Non a caso, l’esordio del gruppo, i cui componenti provenivano tutti da un passato di militanza comunista nel quartiere, era stato lo svaligiamento a mano armata delle casse della FIAT. Nel 1971, in tribunale, Cavallero dichiarerà di essere un precursore della lotta armata praticata dai gruppi filocinesi, e che il suo obiettivo era quello di compiere atti di propaganda capaci di impressionare l’opinione pubblica. Cavallero era infatti la figura carismatica del gruppo, il modello su cui si plasmò il giovane Notarnicola, arrivato a Torino dalla Puglia nel 1953. Questo giovane proletario meridionale tratteggerà la figura del ‘capobanda’ in questi termini: «In quel tempo conobbi Cavallero. Egli era dotato di una forte personalità… ed aveva un séguito di giovani che gli giravano intorno. Conobbi anche Crepaldi, il quale per me aveva un fascino particolare essendo stato uno dei più giovani partigiani; nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, fu il primo operaio torinese che innalzò la bandiera rossa su una ciminiera della FIAT. […] I miei idoli allora erano Lenin, Stalin, Togliatti e non i campioni sportivi o altro. […] Arrivò il 1956, il nuovo corso del partito comunista sovietico; smettemmo di sognare […]. Un giorno mi dissero che Stalin era stato un criminale; Togliatti diceva che non c’era più la rivoluzione. Nel partito c’era il caos. […] Ero turbato, confuso, erano caduti certi nostri miti. Cominciò così un periodo di lunghe discussioni e ripensamenti […]. Intanto Crepaldi, Cavallero ed io facevamo discorsi sulla maniera migliore di scuotere le masse: era necessario ricorrere al terrorismo per scuotere le masse? […] Cavallero proponeva di assaltare le banche; anche io ritenevo ciò politicamente giusto. […] Poi si decise di rompere gli indugi e attaccammo decisamente».
      L’idea che animava il gruppo era quella di accumulare le risorse finanziarie per porre le basi di una organizzazione rivoluzionaria. I componenti del gruppo percepivano un modesto stipendio mensile e mantenevano, anche per non dare nell’occhio, il livello di vita precedente. Una parte del denaro accumulato fu investita in imprese economiche (una rimessa, una carrozzeria ecc.), che però non ebbero il successo sperato in vista del salto organizzativo sul terreno politico. Ma soprattutto quello che mancò fu un organico progetto politico, sicché, vuoi per l’isolamento prepolitico in cui rimase confinata vuoi per le carenze di elaborazione che ne condizionarono la prospettiva, la “banda Cavallero” fu soltanto un sintomo, ancorché politicamente premonitore, del crescente disagio socio-politico degli ‘anni del boom economico’, ma non ebbe la forza, le radici di massa e l’incidenza che caratterizzarono successivamente l’attività delle Brigate Rosse e degli altri gruppi combattenti: attività molto più articolata, diffusa e complessa in quanto filtrata dal grande ciclo delle lotte operaie e studentesche esplose nel ‘biennio rosso’ 1968-’69.

  5. “ma non ebbe la forza, le radici di massa e l’incidenza che caratterizzarono successivamente l’attività delle Brigate Rosse e degli altri gruppi combattenti: attività molto più articolata, diffusa e complessa in quanto filtrata dal grande ciclo delle lotte operaie e studentesche esplose nel ‘biennio rosso’ 1968-’69.”
    Ma come si poteva ragionare, già in quegli anni, su schemi di 50 anni prima? Ma quale rivoluzione? Ma quale progetto politico? Possibile che non si comprendesse dove eravamo effettivamente? L’enorme estensione della piccola e media borghesia (me too) apriva a un altra società.
    Come si può ragionare politicamente sul passato?

  6. Erano gli schemi di allora.D’altronde la continuità con la frazione comunista della Resistenza era un dato costante: il nostro primo Comitato Operaio all’AlfaRomeo nacque incentrato su di un ex gappista, all’Innocenti il Comitato Operaio, che comprendeva operai sia delle auto/Lambrette sia della fabbrica di macchine utensili (al di là della strada) aveva al cuore i vecchi operai comunisti ed ex partigiani.
    Ma l’analisi di classe che facevamo era assai diversa del discorso che tu fai di ‘piccola borghesia’: le tesi della Sapienza, la prima occupazione di università nel ’67, venivano dall’elaborazione del gruppo che si rifaceva ai Quaderni Rossi, e dicevano chiaramente che gli studenti erano forza-lavoro intellettuale in formazione che già produceva valore; e su posizioni analoghe era AO.
    E d’altronde quello che si è sviluppato a livello sociale in quegli anni è stato in questa direzione: una proletarizzazione forzata e massiccia, con una forte componente di impiegati anche (che producono valore esattamente come gli operai) ; il guaio è che, come diceva già Lenin, si formavano le ‘aristocrazie operaie’ (marcia dei quarantamila impiegati della Fiat) e il PCI a queste era legato.
    E se vogliamo ancora fare un salto storico, Lenin scrive ‘Stato e Rivoluzione’ per allearsi cogli anarcosindacalisti e costruire la 3a Internazionale, dopo aver visto che la 2a era perduta-appunto come rappresentante della aristocrazie operaie al seguito della borghesia.
    Mi scuso per la schematicità ma è per ragioni di brevità. Ma se vogliamo ripercorrere quegli anni la nostra storia politica può essere vista come il tentativo di ripercorrere i passi leninisti, partendo come minoranza radicata e arrivando a conquistare la maggioranza del movimento operaio. Nel ’69 questo sembrava possibile: quando nelle grandi fabbriche la nostra influenza era superiore a quella del PCI (ancora attaccato alle Commissioni Interne: ricordiamo che è proprio grazie al 69 e a noi che vengono sostituite da organismi più rappresentativi), quando nella assemblee operaie libere in piazza (non quelle controllate burocraticamente all’interno della fabbrica) 5000 operai tolgono la parola al rappresentante ufficiale CGIL per darla a me potevamo pensare che fosse un percorso possibile. Il tutto ricordiamo mentre il momdo era pieno di lotte e sommovimenti. E va detto chiaramente che le Brigate Rosse sono figlie di quel movimento, ma il loro radicamento ‘di massa’ (così come quello di Senza Tregua) è il risultato della consapevolezza della sconfitta di quel disegno. È quasi una necessità fisica: tutta l’energia, le speranze e i sogni accumulati in qualche modo dovevano trovare sfogo. Per Cavallaro e Notarnicola è qualcosa di analogo. In qualche modo queste storie ricordano la storia del GAP di Genova (ne ‘La sega di Hitler’) e il suo dileggio per i partigiani ‘ufficiali’ che giocavano coi tedeschi ad ‘avanzi tu retrocedo io, e viceversa’ nel tranquillo delle montagne…e dopo la Liberazione si trovano a lungo spaesati.

  7. ” E va detto chiaramente che le Brigate Rosse sono figlie di quel movimento” ( Di Marco)

    Vallo a dire a Luperini e Corlito!

  8. Parto dalla stessa premessa, che ha illustrato Paolo Di Marco e con la quale concordo: le organizzazioni che in quegli anni scelsero la via della lotta armata sono state una parte integrante del movimento operaio (e in questo senso è del tutto corretta, di là dall’intento denigratorio, la riconduzione della loro genesi storica al cosiddetto “album di famiglia” del comunismo italiano e della sua esperienza storica). Sbaglia chi pensa di liquidare una siffatta esperienza evocando un’estraneità totale di quelle forze alla “sinistra” o, come tanti hanno fatto e ancora fanno, agitando lo spettro della loro eterocefalia per opera dei servizi segreti che si proponevano l’obiettivo di impedire al PCI di andare al governo (si pensi al goffo opportunismo da struzzi che per non vedere nascondono la testa sotto la sabbia, esemplificato da vestali del neoliberismo progressista del tipo di Luperini e Corlito). In realtà, organizzazioni come le Brigate Rosse o Prima Linea nacquero all’interno, e sull’onda, del movimento di classe, proletario popolare e intellettuale, degli anni Sessanta e Settanta, nelle fabbriche e nelle università (e in questo furono diverse da altre esperienze europee, come ad esempio la Rote Armee Fraktion nella Germania Ovest). Naturalmente, dal punto di vista del leninismo, è necessaria una critica di quelle esperienze (senza dimenticare, però, che anche il grande rivoluzionario russo promosse, ben prima dell’insurrezione dell’ottobre 1917, la lotta armata: si veda su questo argomento il bel libro di Jacques Baynac, “Kamo, l’uomo di Lenin”). Sennonché ogni critica che ignori l’esistenza di una vasta base sociale favorevole alla lotta armata, è una critica fuorviante. Ciò detto, sono da ritenere estranee al punto di vista del leninismo sia una idealizzazione romantica delle figure e delle esperienza di quegli anni, sia la condanna legalitaria e istituzionale della lotta armata in nome della “non violenza”. E’ invece giusto affermare, pur con il massimo rispetto per chi cadde combattendo in quel periodo di aspri conflitti, che negli anni Settanta la scelta della lotta armata fu una scelta avventurista e volontarista fondata su una valutazione errata della situazione. Così, chi volle vedere nella lotta armata praticata in quegli anni un potenziale sbocco rivoluzionario sbagliò l’analisi della fase e fu vittima della stessa illusione che coglie un viaggiatore quando, seduto all’interno di un treno che rallenta, ha la sensazione che il treno affiancato, che sta superando quello in cui egli si trova, stia procedendo ad una velocità crescente. In altri termini, la situazione verificatasi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, ammesso e non concesso che fosse stata rivoluzionaria, si stava rovesciando e preludeva (non alla fase apicale di un “assalto al cielo” ma) ad un riflusso inesorabile. Del resto, spesso accade nella storia del movimento operaio che ad una deviazione opportunistica corrisponda, in qualche misura, una deviazione estremistica da parte di chi vi si oppone. Non è forse questo ciò che è successo nel secondo dopoguerra? Ma, se la lotta sui due fronti richiede che si combattano entrambe le deviazioni, il fulcro di ogni valutazione critica sulle esperienze del movimento operaio e comunista italiano va ravvisato nella scelta, compiuta dal PCI, di abbandonare la prospettiva strategica della conquista del potere politico di Stato per mezzo della insurrezione armata (scelta sancita, come è noto, dalla formulazione della “via italiana al socialismo” adottata nel 1956 dall’VIII Congresso del PCI). Fu, innanzitutto e soprattutto, questa, la scelta che ha determinato le sorti della classe operaia e infine, attraverso una serie di passaggi intermedi che hanno condotto dal revisionismo al liquidazionismo, la situazione di perdurante e ingravescente arretratezza, in cui resta impantanato il movimento di classe del nostro paese (a differenza, tanto per fare un esempio comparativo, di quello greco).

  9. A parte il tono, che mi ricorda certe riunioni con tanto di commissario politico, concordo con la tesi generale di Baroni.
    Dunque, un abbraccio a tutti.

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