Meriggiare pallido e assorto

di Donato Salzarulo

Ossi di seppia, il primo libro di poesia di Eugenio Montale, fu pubblicato da Piero Gobetti nel 1925, anno delle “leggi fascistissime” e della svolta dittatoriale del regime mussoliniano. Nel 1922 c’era stata la “marcia su Roma”, il 10 giugno del 1924 l’uccisione di Matteotti e Gobetti stesso, salutato dal poeta, il 3 febbraio del 1926 fu costretto all’esilio a Parigi, dove, in seguito alle percosse degli squadristi fascisti, dodici giorni dopo morì. Fin dal primo momento l’opera fu recepita dall’ambiente gobettiano torinese e da numerosi intellettuali e amici del poeta come espressione di una tensione etica e politica antifascista: «Codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Non va, del resto, dimenticato che Montale nel maggio del 1925, un mese prima che la raccolta venisse pubblicata, aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce.

L’occasione del centenario degli Ossi ha spinto la Fondazione Mondadori, il Palazzo Ducale di Genova e la Direzione di Electa a lavorare insieme per ricordare e celebrare degnamente l’evento. Da qui l’idea non della solita mostra agiografica, ma di un’esposizione che aggiungesse qualcosa all’opportuno omaggio istituzionale. Questo qualcosa è rappresentato da 100 fotografie, una per ogni anno, frutto della lettura, del dialogo e dell’interpretazione dell’importante raccolta. Le foto, equamente suddivise, sono state scattate da Iole Carollo, Anna Positano e Delfino Sisto Legnani. Trentatré per tre: novantanove. La centesima foto è quella famosa di Ugo Mulas che rappresenta il profilo del volto di Montale a colloquio muto con l’upupa, calunniata da Foscolo, Parini e Carducci come uccello luttuoso del malaugurio, difesa, invece, dal poeta ligure in uno dei suoi Ossi, come allegro annunzio del magico tempo della primavera.

Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l’aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;
nunzio primaverile, upupa, come
per te il tempo s’arresta,
non muore più il Febbraio,
come tutto di fuori si protende
al muover del tuo capo,
aligero folletto, e tu lo ignori.


La mostra, intitolata Meriggiare pallido e assorto e sottotitolata “Eugenio Montale: 100 immagini per i 100 anni di Ossi di seppia”, è visibile gratuitamente dal 13 maggio e resterà aperta fino al 29 giugno 2025.

Il 14 decido con Giuseppina di fare una gita a Genova. Lei vuole vedere l’Acquario, io la mostra; tutti e due vogliamo trascorrere una giornata diversa; perciò alle 9 e 08 prendiamo il treno da Pietra Ligure e intorno alle 10 e 30 approdiamo alla stazione Principe di Genova.
Non è la prima volta che scendo in questa stazione. Forse è la quinta. Ma ogni volta è come se fosse la prima: allora mi ricordo che la piazza su cui mi sto affacciando si chiama Acquaverde, che a sinistra c’è un imponente monumento a Cristoforo Colombo, che la strada da prendere è Via Balbi, lungo la quale si incontra l’Università e il Museo nazionale di Palazzo Reale; poi si sbocca in Piazza della Nunziata, a sinistra c’è una basilica maestosa dedicata sicuramente all’Annunziata (finora non ho mai messo piede dentro). Dalla piazza si sale su Via Paolo Emilio Bensa finché si incontra la Galleria Garibaldi, che ho completamente rimossa. Veramente neanche Giuseppina ricorda che ci fosse. All’uscita giriamo a destra per Via Giorgio Interiano e poi imbocchiamo via XXV Aprile, tutta adornata con grandi farfalle colorate.
«L’altra volta c’erano appesi tanti ombrelli femminili…Ricordi?..»
«Sì, mi ricordo. Sono convinta, però, che abbiamo fatto un’altra strada. Questa Galleria Garibaldi è la prima volta che la percorro.»
Dopo i settant’anni, la gara a chi ricorda di più è quasi naturale.

Intanto arriviamo a Piazza De Ferrari con il monumento a Garibaldi di fronte al teatro a Carlo Felice. Stiamo cercando di andare verso Palazzo Ducale, ma la Piazza è affollata e facciamo fatica. Da Piazza Matteotti continua a salire un corteo di bambini e ragazzi con docenti, giovani e vari adulti al seguito. Hanno cartelli che invocano la pace e altri che indicano le zone del mondo in cui sono in corso guerre. Leggo: GAZA, UCRAINA, MESSICO, PAKISTAN, SUDAN…
«La terza guerra mondiale a pezzi», come la chiamava Papa Francesco, è in atto in 56 conflitti e coinvolge 92 Paesi. Evidentemente le tante classi, che si stanno radunando nella Piazza, hanno partecipato a qualche progetto educativo relativo al ripudio della guerra. «La pace è il futuro», leggo su uno striscione. Dopo un po’, vedo dei rappresentanti della Comunità di Sant’Egidio.
Proprio nella zona del Palazzo Ducale, dove noi dovremmo entrare, avverto il via vai di un gruppo di organizzatori. Forse parleranno. Quasi sicuramente qualcuno o qualcuna racconterà, spiegherà, farà notare la piega attuale che il mondo sta prendendo. Giuseppina fa delle foto. Anch’io ne faccio qualcuna. Infine riusciamo ad entrare nel Palazzo. Una giovane impiegata dell’Ufficio mi spiega che la mostra è nel sotto porticato di Piazza Matteotti.
«Deve uscire dalla porta di fronte, scendere le scale e girare a destra…»

Obbediamo. Scendiamo le scale. La Piazza Matteotti è per buona parte occupata da lunghe file di bancarelle con tettoie, sopra vi sono pile di libri usati in vendita. Giriamo a destra e vediamo un gran tabellone quadrato, diviso in due zone. Da un lato c’è la rappresentazione di un’agave, dall’altro il titolo in rosso della mostra, il sottotitolo in nero, i nomi degli autori delle fotografie e la durata dell’esposizione. Mentre stiamo per entrare, una signora col marito sta uscendo. Superata la soglia, la prima cosa che notiamo sulla parete di sinistra è la riproduzione su un foglio, grande quanto un manifesto, di Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra fronde il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
Sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Terminata la lettura, quasi ad alta voce, con Giuseppina al mio fianco, le domando, con un po’ di nostalgia:
«Sai, quando ho letto per la prima volta questa poesia?»
«Quando andavi a scuola…»
«Sì, nell’ultimo anno dell’Istituto magistrale, nel 1967…Sai che la so a memoria?…»
«Immagino, ma non voglio sentirti…»
Lei non vuole sentirmi, ma io tutte le volte che rileggo questa poesia vedo il paesaggio ligure: il sole di mezzogiorno che abbaglia e all’orizzonte il palpitare del mare; alle spalle la terra, con i suoi picchi senza vegetazione, con i suoi orti recintati da muri, con le sue muraglie che fanno spesso da contrafforte alle costruzioni abbarbicate sui versanti collinari…Del resto, in piazza Acquaverde basta alzare gli occhi in alto a sinistra.

Di fronte, c’è un custode seduto con un tavolino davanti. Gli chiedo se ha del materiale illustrativo. Mi risponde di no. Non sa neanche se c’è un catalogo («Si rivolga su, al personale dell’Ufficio»). Resto in silenzio. Giuseppina, che ha già dato un’occhiata veloce all’ambiente, non proprio luminoso, e alle pareti, preferisce uscire e starsene al sole, io m’avvio a guardare le foto.
Prima, però, leggo le due colonne di un cartellone introduttivo intitolato: «Le immagini (e i numeri) di Montale a 100 anni dagli Ossi e 50 dal Nobel». Vero. Il Nobel gli fu attribuito nel 1975.
Nel primo capoverso si dice sinteticamente chi è Montale («narratore irresistibile, critico letterario e musicale di rango, traduttore e pittore […] poeta per eccellenza»), le opere poetiche più importanti (Le occasioni, La bufera e altro, Satura), con gli Ossi di seppia, che rimangono, però, «il suo primo e più popolare libro di poesia». A questo punto, la temperatura linguistica s’innalza con una similitudine. Dopo cent’anni, «alla stregua di un’agave sullo scoglio, regge all’usura del tempo e reagisce agli schiaffi del vento».
Nel secondo capoverso, viene allora richiamato opportunamente il trittico intitolato L’AGAVE SU LO SCOGLIO. Il suo messaggio viene sintetizzato in cinque righe. Per me diventa un’occasione per rileggerlo. (Cfr. Appendice)
Nel terzo capoverso si informa che alla miniera di immagini verbali, contenute nei versi degli Ossi, da oggi si aggiungono le 99 fotografie esposte che, ovviamente, sono immagini visive. Chi ha scritto l’introduzione questa differenza non la fa. Ma per me è importante. Le fotografie non sono poesie e le poesie non sono fotografie. Dopo di che i linguaggi possono contaminarsi. Le poesie possono ispirarsi a fotografie, descriverle, interpretarle simbolicamente; la stessa cosa possono fare le fotografie con le poesie: illustrarle, evidenziare un dettaglio, una particolare immagine.
Nel quarto, quinto e sesto capoverso si indicano alcuni motivi degli Ossi:
a) «Innanzitutto il paesaggio, quello naturalistico ma talvolta allucinato, e allucinate sembrano certe agavi fotografate da Iole Carollo».
b) «Il secondo motivo è l’amore, “sotto forma di fantasmi” che frequentano i versi degli Ossi e provocano “le intermittenze del cuore”; e se squillasse per cercare un contatto il telefono non messo a fuoco di Delfino Sisto Legnani in una fotografia?»
c) «Infine “l’evasione, la fuga dalla catena ferrea della necessità, il miracolo, diciamo così, laico” che sarebbe la “maglia rotta nella rete” all’inizio della raccolta; e lo sono gli inserti fotografici di Anna Positano, per esempio il telo aperto o squarciato su un ponteggio che campeggia sulla sterpaglia».
Come si sarà notato, vengono associate certe arie o atmosfere poetiche montaliane con quelle delle fotografie: agavi allucinate, telefoni sfocati, il telo aperto o squarciato come la “maglia rotta nella rette” che si legge nella prima poesia degli Ossi, intitolata In limine (letteralmente: sulla soglia) e che fa da introduzione alla raccolta.

Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine


Ora posso cominciare a guardare le foto di Iole Carollo. Potrei fotografarle, riguardarle a casa e descriverle accuratamente. Operazione faticosa e sicuramente noiosa per chi sta leggendo questo testo. Appare poco proficuo anche limitarsi ad un elenco del tipo: 1) Vasta parete di roccia con dettagli compositivi vari: lastre su massi rotondi, fenditure, grandi fori, ecc.; 2) Fila di foglioline rotonde verdescuro (forse fiori di loto) cresciute in una pozzanghera di roccia blu scuro. Fotografia scattata probabilmente di notte. 3) Scoglio in mezzo al mare in primo piano. In campo lungo, cielo pieno di nuvole grigio scure in alto, e grigio chiare in centro con brevi sprazzi di azzurro. Foto scattata alle prime luci dell’alba o sul crepuscolo inoltrato…Insomma, seguirò gli organizzatori della mostra che, opportunamente, all’inizio delle fotografie ne hanno riassunto il senso complessivo in un manifesto di presentazione dell’artista. Nel caso di Iole Carollo, si sostiene che il suo progetto fotografico «prende forma dal concetto di frammento, osservato all’interno del paesaggio, della memoria, del tempo.» Da qui la fila di foglioline, lo scoglio, dei segmenti di foglie d’agave, un lembo di roccia stratificato, di mare argentato, ecc.
La fotografa «alterna il dettaglio ravvicinato all’ampiezza del paesaggio. […] Per osservare il modo in cui la natura si scompone e si riorganizza, trasformandosi continuamente: piante, rocce, scogli e particolari del paesaggio naturale marino, terrestre e anche urbano raccontano la frammentazione della materia e la stratificazione del tempo.»
Nelle foto non vi sono uomini, donne, giovani, bambini. La presenza dell’uomo si avverte nei paesaggi, appunto, antropizzati: le due case sul mare con la ferrovia, la banchina portuale, il muro di cinta di un orto coi rami di limone protesi fuori ed in alto, il vicolo di un borgo con il profilo di un portale, ecc. In tutte le foto si avverte un senso di desolazione, di abbandono, di smarrimento, «un senso di deiezione in cui il soggetto, immerso in un ambiente che si stratifica e si mineralizza, si scopre parte di un processo inarrestabile».
Ci sono tre foto in cui appaiono delle figure umane: la prima è la scultura del volto di un fanciullo con gli occhi che guardano all’insù, col naso e le labbra erose; la seconda è il volto di un uomo che sembra scolpirsi in un ciottolo ovale; la terza è una statua michelangiolesca, con la testa calata e priva di braccia; appoggiata su una roccia a picco sul mare, sembra sorreggere la tettoia di un trullo o qualcosa di simile.
«L’inserimento di frammenti archeologici e dettagli di statue crea un legame tra passato e presente, tra il mondo naturale e le tracce della storia che vi si depositano. La memoria, rappresentata da questi reperti, non è solo una raccolta di frammenti, ma anche un simbolo della pietrificazione della vita, evocando la condizione di paralisi e aridità in cui consiste il male di vivere.»

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


Le foto di Anna Positano colpiscono subito per un particolare: sulla prima foto, quella più ampia, ne compare un’altra come se fosse un incastro o un riquadro. Così, ad esempio, su un promontorio roccioso, col mare e il cielo sullo sfondo, ecco apparire il ritaglio con dei blocchi di cemento; oppure su un’ampia foto che rappresenta l’intrico di un canneto, con uno sprazzo di cielo azzurro, si sovrappone un ritaglio con dentro grandi rettangoli di cemento che fanno da contrafforte alle costruzioni. Il senso mi pare che sia quello di mettere in contrasto il paesaggio naturale con quello antropizzato, urbano. La prima foto, infatti, è quella di una fila imponente di blocchi di cemento. Formano una diga che si rispecchia nell’acqua.
Sul manifesto introduttivo si può leggere: «Le fotografie mirano a decostruire gli stereotipi legati all’immaginario ligure attraverso una selezione precisa dei soggetti da rappresentare, l’inserimento di elementi contemporanei destabilizzanti con inquadrature scarne e nette.» Non mancano, però, foto in cui il paesaggio si impone nella sua naturalezza: radici tortuose che spaccano il terreno e s’offrono alla vista, una collina ocra priva di vegetazione, una vasta insenatura di mare azzurro fra due promontori col cielo sullo sfondo, l’intrico di un canneto, l’acqua che scorre tra grandi sassi e ciottoli di una roccia o che verdemare lambisce un angolo di roccia marmorea…
«Lo sguardo cerca di interpretare la posizione di impassibilità cui ambisce Montale: un distacco che non è indifferenza, ma uno spazio di riflessione sulla disarmonia del mondo. In questo senso, la sequenza fotografica si pone come anti-narrativa e disarmonica, richiamandosi alle dissonanze musicali di Claude Debussy per tradurre visivamente la tensione tra equilibrio e frattura.»

Non rifugiarti nell’ombra
di quel fólto di verzura
come il falchetto che strapiomba
fulmineo nella calura.

È ora di lasciare il canneto
stento che pare s’addorma
e di guardare le forme
della vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde
che impigra in quest’ora di disagio
non buttiamo giù in un gorgo senza fondo
le nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilaccicarsi
in ragnatele di nubi;
tali i nostri animi arsi

in cui l’illusione brucia
un fuoco pieno di cenere
si perdono nel sereno
di una certezza: la luce.

Chi sembra prendere alla lettera i tratti di questa percezione, sempre più visionaria della realtà naturale, è il terzo fotografo: Delfino Sisto Legnani. Le sue foto rappresentano immagini sfumate, fuori fuoco, in trasformazione.
«In queste immagini l’utilizzo dello sfuocato – realizzato con macchine analogiche, stampe e pannelli traslucidi – diventa uno strumento per evocare le atmosfere montaliane senza illustrarle in modo didascalico. Così, come nei suoi versi Montale lascia spazi di silenzio e vuoti offrendo al lettore la possibilità di colmarli, le fotografie invitano lo spettatore a costruire la propria soggettiva interpretazione.»
Guardo le foto. Mi sembra di avere ancora le cataratte o di avere un velo sugli occhi. Alcune immagini le riconosco: il mare che palpita con le sue scaglie d’argento, la pagina aperta su una poesia degli Ossi (mi pare che sia Incontro), il busto di un bagnante forse marocchino, un interno di bagno coi sanitari, un’altra pagina di poesia del tutto illeggibile, una palma, MAREZZO (titolo di un altro Osso), un angolo di campo con un albero in primo piano, la pagina di un altro Osso col primo verso leggibile (Il fuoco che scoppietta / nel caminetto), un angolo con un gabbiotto e sullo sfondo una ruota di luna park, una mensola nera col bordo rosso in un angolo di muro con sopra un vecchio telefono analogico e una lampada paralume. Tutte le altre foto tendono all’astrazione, al gioco delle linee, delle forme e dei colori. Sono composizioni molto gradevoli, ma le immagini sono sgretolate. Un po’ come la vita che si sgretola nei versi di Montale.

Il fuoco che scoppietta
nel caminetto verdeggia
e un’aria oscura grava
sopra un mondo indeciso. Un vecchio stanco
dorme accanto a un alare
il sonno dell’abbandonato.

In questa luce abissale
che finge il bronzo, non ti svegliare
addormentato! E tu camminante
procedi piano; ma prima
un ramo aggiungi alla fiamma
del focolare e una pigna
matura alla gesta gettata
nel canto: ne cadono a terra
le provvigioni serbate
pel viaggio finale.

Quest’Osso fa parte della serie intitolata SARCOFAGHI. Qui il sonno (mortale) del vecchio stanco si contrappone alla fiamma (vitale) che il camminante alimenta. Siccome neanche io sono pronto per il viaggio finale, mi avvicino al tavolo della mostra dove, sottovetro, sono contenute gli esemplari delle varie edizioni della raccolta montaliana: quella edita da Gobetti del 1925, quella per Ribet del 1928, quella del 1931 per Carabba e quella del 1942 per Einaudi. Dall’ottava del 1948 subentra Mondadori che nel 2003 pubblica l’edizione commentata da Pietro Cataldi e Floriana D’Amely, recentemente riproposta. Negli ultimi 20 anni questo libro ha venduto 200 mila copie.
Ci sono anche due pagine di rivista aperte sulla notizia del Nobel attribuito al poeta. «Il clamore del premio ha rotto la silenziosa solitudine di Eugenio Montale». L’articolo è di Domenico Porzio. Ovviamente, lo fotografo e mi avvio verso l’uscita.
Salutando il custode, noto delle cartoline sul tavolino e domando se posso prenderle. Mi risponde di sì. In una è riprodotta la foto dell’agave allucinata di Iole Carollo, in un’altra quella dello scoglio, lambito dall’acqua marina, di Anna Positano e, infine, la mensola col vecchio telefono e la lampada paralume di Delfino Sisto Legnani.
All’uscita Giuseppina mi sorride. Ci aspettano i cavallucci marini, i pinguini, le foche, i delfini.


APPENDICE: L’AGAVE SU LO SCOGLIO


Datato 15-25 luglio 1922, questo poemetto rappresenta tre momenti del rapporto fra il poeta e il paesaggio marino o, più in generale, del soggetto con la natura. Nel primo momento domina lo Scirocco, nel secondo la Tramontana, nel terzo il Maestrale.
Di fronte a un rabbioso scirocco, che inaridisce un terreno gialloverde già arso, l’Io vive ore perplesse e avverte «i brividi / d’una vita che fugge / come acqua tra le dita». Il soggetto vive eventi che non comprende, luci ed ombre, cambiamenti improvvisi. Si identifica, a questo punto, con l’agave:

ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.


Quanti di noi oggi sentono questa immobilità come un tormento? Se non immobilità, impotenza. In Piazza, mentre venivo a guardare questa mostra, circa duemila bambini, ragazzi e giovani cercavano di far sentir la loro voce. Con quale risultato? Il giorno successivo non ho letto la notizia neanche sulle pagine genovesi de La Repubblica.
Vabbé. Noi ci abbarbicheremo al crepaccio dello scoglio e sfuggiremo alle “braccia d’alghe” del nostro viscido presente.
Il secondo momento è quello della resistenza all’aggressione della Tramontana, che «spazza l’aria / divelle gli arbusti, strapazza i palmizi / e nel mare compresso scava / grandi solchi crestati di bava»

E tu che tutta ti scrolli fra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.


Le radici rappresentano stabilità, resistenza, durata. Ogni vita, per quanto sottile, ne ha. Noi abbiamo le nostre. Sono dentro la storia del Movimento operaio nazionale e internazionale, hanno confini di classe e sono pacifiste come quelle delle giovani menti che manifestavano di fronte al Palazzo Ducale.
Il terzo ed ultimo momento è quello della fioritura, quello del Maestrale, del vento del bel tempo:

O mio tronco che additi
in questa ebrietudine tarda
ogni rinato aspetto coi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:
sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
“più in là!”


Dopo l’immobilità tormentata e la resistenza all’aggressività degli elementi, ecco lo stato di felicità tardiva, la fioritura, la mobilità continua della ricerca. Tutte le immagini portano scritto: «più in là!».







1 pensiero su “Meriggiare pallido e assorto

  1. QuaNte riflessioni,quanti stimoli ti scatena la visita alla città di Genova…Io ci vivo ,ci lavoro e capisco chi si scatena nel pensiero…..

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