“In piedi”

di Rita Simonitto

“In piedi!”
Suor Enrica era piccola di statura ma il tono perentorio di quel giorno la faceva percepire più alta a noi bambini di quarta elementare, impacchettati nei grembiuli azzurri e rosa e irrigiditi dal vistoso fiocco al collo. In quel mattino in cui il sole si faceva strada tra i banchi dell’aula e invitava a piacevoli scorribande sarebbe arrivata non solo la Madre Superiora ma l’Ispettore Generale che avrebbe interrogato qualcuno di noi, scelto a caso, onde verificare la nostra preparazione. Per quanto fosse di prammatica la canzoncina di benvenuto a quella autorità, nel contempo i nostri cuori cantavano altre canzoni contaminate dalle fronde dell’albero di ciliegio che, proprio in quell’angolo di giardino gestito dalle suore, incominciava a far intravvedere la presenza dei rossi frutti: oppure dolenti della triste prigionia di moti dell’anima confusi dove solitudine, fragilità e aspirazioni si mescolavano in un impasto inestricabile.
“In piedi!”. L’ispettore (laico) era un signore corpulento e rubizzo come alcuni frequentatori dell’osteria del paese e non avrebbe fatto timore se non per il potere che rivestiva il suo ruolo, al punto che anche la Madre Superiora, solitamente impettita, accompagnava ogni espressione di lui accondiscendendo con un inchino reverenziale. Accanto all’ansia di essere interrogata prendeva spazio in me una inquietudine ancora sonnacchiosa, forse legata alla paura che il potere della Madre Superiora – che avrebbe potuto difendere le mie competenze in caso fossero state chiamate al confronto – avrebbe dovuto sottostare ad un potere di natura superiore e di cui non capivo l’essenza, il perché: almeno la Reverenda Madre era – sia pure distanziata da vari gradini – in contatto con il Padre Eterno! E vuoi mettere!
Oggi non saprei ricostruire di più al di là di quella sensazione di spaesamento che perdurò nella tarda mattinata di maggio e che mi fece tornare a casa cupa e disorientata.
Mio padre, era seduto a tavola con il suo ‘breviario’, quel vocabolario di italiano che, nel fuggire dai bombardamenti alleati su Milano, assieme a sua moglie incinta di me, raccattò dalle macerie di una casa bombardata. Su quel grosso volume (ricordo la copertina verde in parte bruciacchiata e che poi fu ricoperta dalla ‘carta zucchero’ avanzata dal pizzicagnolo) lui trascorreva il suo tempo sottolineando a matita i termini che aveva visitato. I puntini accanto alle parole stavano invece a significare quante volte quella era stata consultata. Era un libro ‘sacro’ per lui. Libro che sul canterano si appaiava all’altro libro sacro che era di proprietà di mia madre: un messale dalla copertina nera da cui pendevano i colori del segnalibro. Da quello che potevo capire, lì dentro oltre alle liturgie ci stavano parabole evangeliche e non so quant’altro.
E dunque trovai lui che, dopo aver rovesciato sul tavolo il tarassaco che aveva raccolto nei prati, invece di curarlo – avrebbe costituito il nostro pasto serale perché quello era ciò che passava allora il convento: verdure dei campi e pezzi di formaggio che il casaro generosamente ci regalava – era impegnato in quel suo ‘lavoro’. Da un lato apprezzavo che lui, con la terza elementare, cercasse di ampliare a modo suo la conoscenza, ma ciò implicava che sarebbe toccato a me, già rabbuiata dall’episodio scolastico, l’incombenza della mondatura. Mia madre era fuori, probabilmente a consegnare a qualche signora l’abito o la camicetta che lei aveva confezionato.
Quando mia madre tornò, percepì il mio turbamento e dandomi una mano nel lavoro ingrato che stavo facendo me ne chiese la ragione. Ricordo che mi misi a piangere. Mi sembrava che raccontarle quello sgomento che avevo provato potesse rappresentare per lei una preoccupazione ulteriore unita a quelle che doveva fronteggiare quotidianamente. Comunque fra le lacrime le raccontai dell’episodio.
Questa scena la ricordo molto bene. Mio padre che alza gli occhi, sbatte la matita sul tavolo e incomincia ad inveire contro un mondo di soprusi in cui include le sue ferite fisiche (invalido di guerra) e morali causate dall’essere stato militare nel Secondo Conflitto Mondiale; le sue ribellioni (la cui conclusione a volte finiva con il solito grido “qui ci vuole la gheppeù (GPU, pronunciato Ghepeù, e che fu la polizia segreta del regime sovietico fino al 1934. Direttorato politico dello Stato); nonché le accuse nei confronti di mia madre, fervente cattolica, perché aveva voluto mandarmi a scuola dalle suore oscurantiste.
In separata sede mia madre poi mi disse che quell’”In piedi” non significava necessariamente sudditanza ma poteva implicare l’assumere un atteggiamento di responsabilità nei confronti degli eventi, un prestare attenzione. Un non addormentarsi, mi disse citando un passo dei vangeli (forse il segnalibro in quel momento era stato messo sulla pagina che parlava delle donne addormentate che misero la lampada sotto il moggio). “Estote parati”, dunque.


Non so perché oggi mi sia tornato alla mente quell’episodio. Forse perché in piedi, appoggiata allo stipite della finestra sto a guardare un ‘fuori’ che non vedo perché i miei occhi percepiscono soltanto ombre su cui la memoria divaga fra passato e presente. Per cui quella macchia scura nel giardino diventa il sontuoso cedro del Libano che fu abbattuto definitivamente dopo essere stato colpito da un fulmine e che poi fu sostituito da un modesto bigolaro, che però aveva fronde rigogliose che nascondevano bacche, golosa attrazione per gli uccelli. Né vedo più oltre. Non vedo gli edifici nuovi della cui costruzione mi sono arrivati gli echi di impastatrici di malte, trapani all’opera, rumori di tavolati, materiali edili scaricati fragorosamente. Mani dietro alla schiena, non ho seguito i lavori dei cantieri come fanno certi pensionati. Trasformazioni del territorio, anche circostante, che ormai non mi raggiungono più.
E in quella opacità che come una coltre copre gli aspetti fisici là fuori, c’è un altro “là fuori” di natura diversa, che ha a che fare con un mondo altro, quello della interiorità dove dimorano, come in un albergo affollato, ospiti variegati: valori identitari, desideri, sogni e le paure, le fragilità, le illusorie onnipotenze che coronano le ideologie, linguaggi versatili o muti perché impossibilitati ad esprimersi. Un mio dentro che è ancora turbinoso che si confronta con un “là fuori” dove continuo a percepire l’avanzare di ombre che invece malefici alfieri con i loro tamburi nascondono. Una propaganda che non mostra quel ‘nulla’ diffuso, l’appiattimento del pensiero dove prevale l’ordinarietà, ovvietà, mediocrità, insulsaggine: degne accompagnatrici del senso comune a discapito del buon senso.
Per cui, non più la “banalità del male” bensì un male più oscuro, il male della banalità perché ottunde ogni intelligere.

Sono arrivata a questa finestra cercando di fare leva sul bastone che invece si appoggia a terra tremulo come le mie gambe, nell’attesa che la luce di una qualche alba abbia il potere di mettere in fuga quei fantasmi che scorrazzano fra le esperienze interiori e quelle esterne e, approfittando dei miei momenti di debolezza, entrano prepotentemente in scena.
Ma, se tutto ciò mi sconvolge, mi travolge di più la imperscrutabilità del corpo, quello che io mi ostino a chiamare ‘mio’ ma che ‘mio’ non lo è affatto: uno straniero il cui linguaggio incessantemente, anche se inutilmente, cerco di decodificare.
Sento che, addossata a questa paradossale finestra orientata verso il fuori e verso il dentro potrei crollare, inspiegabilmente, da un momento all’altro. Impotente.
Così mi risuona quell’ “In piedi”. Il ricordo del messaggio di mia madre – che allora non capivo perché lo associavo a passività, preferendo invece l’aspetto attivo, frontale che mi suggeriva mio padre -, oggi assume una valenza diversa.
Siate pronti, tenete accesa la lampada. State dritti e a testa alta.
Io, mamma, ci ho provato. Anche se quel “In piedi”, quel fronteggiare a testa alta le vicissitudini della vita, per la maggior parte delle volte è stato equivocato come un atteggiamento superbo anziché come una responsabilità morale. Non si è vista la fatica che ci stava dietro (o non si è voluta vedere) né la sofferenza che comporta l’assumersi delle responsabilità dove viene messa in gioco la solidità dell’io. Come spesso accade, si è puntata l’attenzione sul risultato e non sul processo. Buono il risultato? Dove sta il problema? Perché interrogarci oltre?
E ancora adesso ci provo di fronte ad una esperienza alienante perché non potrà più essere risperimentata né avere diritto di replica. Non ci saranno testimoni a cui trasferire quel lascito impegnativo che concerne il trapasso di stato ma solo testimoni oculari che attesteranno l’evidenza del ‘non essere’. Tracce, indizi, percorsi verranno fagocitati da un nulla irreversibile. Si inghiottirà un passato che via via perderà ricordi che non potranno essere più utilizzati come elementi di confronto e di trasformazione, storie importanti verranno perse, morte come mai esistite. La testimonianza viva sarà soppiantata da quella raccontata da altri e che nessuno potrà confutare dicendo “Le cose non stanno così perché io c’ero”.
Sarà tutto un susseguirsi di trasfigurazioni per fronteggiare un transito inenarrabile.

[1] Dal Vangelo secondo Marco
Mc 4,21-25
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: "Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!".


Conegliano 22.05.25

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2 pensieri su ““In piedi”

  1. Cara Rita, veramente bello e ecommovente il tuo racconto, come insieme ad una vita, la tua nel caso, ne svaniscono infinite altre che in quella avevevano trovato dimora, calore, memoria…La tua famigliola come un nido a proteggerti dal fuori competitivo e arrogante. Sai che i tuoi limiti, disagi fisici sono anche i miei…quindi il percorso nel finale accomuna molti di noi esseri umani ancora fortunati e in genere i viventi tutti. Inoltre, pensa, anch’io, su suggerimento di Cristiana, ho scritto, quasi subito, la lamentazio di occhi e gambe, per gradire, dopo quella di naso e di orecchie…Ma poi mi era sembrato di esagerare per troppo personalismo e non l’ho ancora presentato a Ennio, ma stasera lo farò…Per un conforto reciproco! Forse…

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