Su “Nei dintorni di Franco Fortini” (6)

di Davide Morelli

Nei dintorni di Franco Fortini (Punto rosso edizioni, 2024) è davvero pregevole e ricco di spunti interessanti. È la testimonianza di un’amicizia e al contempo di un sodalizio intellettuale, durato fino alla morte di Franco Fortini nel 1994. Questo volume è prezioso perché ricostruisce con rigore oserei dire filologico e grande chiarezza espositiva, senza mai cadere nelle volgarizzazioni, il pensiero fortiniano. Ci sono voluti anni e anni per scrivere questo volume, che documenta ogni discussione intellettuale ma anche sogni comuni e la grande voglia di cambiamento sociopolitico di quegli anni.
Il libro è suddiviso in 7 sezioni tematiche. È anche la storia di un rapporto tra un grande intellettuale e letterato come Fortini e quelli che con molta umiltà Abate definisce gli intellettuali massa, cioè docenti di scuole superiori. Fortini giudica in modo molto positivo la nascita di una rivista politica e culturale a Cologno e dà il suo contributo. Fortini ricorda che l’unico modo di fare cultura e politica insieme è opporsi allo specialismo, basarsi sul sapere storico e aprirsi al mondo, considerando le questioni internazionali. Ma il problema più spinoso per arrivare al cambiamento è la “polis che non c’è” (dal titolo di una sezione tematica del libro). Fortini aveva capito tutto, forse troppo: aveva capito “la macchina della menzogna” e anche le difficoltà del rapporto tra uomini e donne, indicando molto saggiamente l’unica via d’uscita, ovvero avere “coscienza della coscienza altrui”, che implica implicitamente il rispetto per la dignità e la libertà altrui. Così come Fortini aveva capito che era molto difficile arrivare a un cambiamento sociopolitico ed economico perché anche i cittadini dei paesi sottosviluppati erano diventati consumatori. Abate difende a spada tratta Fortini, criticando ciò che letterati e intellettuali scrissero in occasione della sua scomparsa, così come lo difende dall’accusa di essere stato un “credulone” riguardo alla Cina e a Mao.
Da queste belle pagine di Abate si deduce che Fortini va letto per ripensare la nostra società attuale. Negli anni settanta il cambiamento marxista, dei veri socialisti non craxiani, dei pochi liberali alla Gobetti, alla Croce, alla Popper, dei pochi libertari (individualisti o collettivi) era possibile. Bisogna riprendere quel filo degli anni settanta, bisogna riannodare quel filo rosso, anche se quegli anni non furono tutti rose e fiori, ma ci furono divergenze inconciliabili o almeno allora ritenute tali. Bisogna ricordarsi di quella cultura umanistica e politica, dimenticata ormai oggi: quella dei Quaderni piacentini, dell’operaismo di Tronti, etc etc. Anzi dopo 45 anni di riflusso è avvenuta una rimozione, è caduto l’oblio. Fortini aveva visto lontano anche sull’industria culturale e sulla fine del mandato degli intellettuali.
Fortini era un maestro, i cui comportamenti erano coerenti con il suo spessore intellettuale e i suoi valori. A quanto ho letto era anche disposto al dialogo e non si chiudeva nell’elitarismo, nella torre eburnea. Nonostante mille impegni, trovava sempre il tempo per rispondere alle lettere e interloquire. Come professore, a costo di essere etichettato dai maligni come dispersivo, faceva lezioni a 360 gradi, non limitandosi a programmi ministeriali già datati e mai veramente aggiornati dai vari governi.
Sicuramente alcuni letterati giustamente hanno cercato di raccogliere o meglio hanno aspirato a raccogliere l’eredità letteraria e critica di Fortini. Ma ora la rivoluzione a mio avviso non è più possibile, dato che le coscienze sono addomesticate dai mass media e che il capitalismo di sorveglianza ci ha tutti schedati, vivisezionati, controllati totalmente. Bisognerebbe forse cercare di distruggere mass media e capitalismo di sorveglianza? Bisognerebbe quantomeno boicottarlo? Non sarebbe forse un tentativo puerile, utopico, come del resto quello del luddismo? Forse la cosa migliore è aspettare tempi più propizi. Forse anche le multinazionali e le lobby faranno dei passi falsi. Per Fortini è finito il mandato sociale degli intellettuali. Gli intellettuali non hanno più un ruolo. Non riescono più a far presa sulla società civile. Fortini in Extrema ratio scrive che l’unica via è quella di occuparsi del Sud del mondo e rivolgersi a esso. Inoltre come possono gli intellettuali odierni denunciare le narrazioni a senso unico dei mass media e dello show business quando fin dalla tenera età anche loro ricevono quell’imprinting e sono condizionati da essi? Come può un intellettuale criticare l’utilitarismo, il materialismo, l’edonismo, l’omologazione quando anche lui è in parte utilitarista, materialista, edonista, omologato?
Umberto Eco distingueva tra apocalittici e integrati. E oggi? Gli intellettuali forse dovrebbero essere integrati, cioè essere aggiornati e pronti alle nuove sfide della realtà, ma anche essere apocalittici, cioè iconoclasti e demistificare i falsi idoli della civiltà dell’immagine. Ma com’è possibile, visto e considerato che la maggioranza degli intellettuali subisce il grande influsso fin da bambini della cultura di massa dominante, che nei migliori casi li condiziona inconsciamente? E come può un intellettuale, seppur di prestigio, criticare tutto ciò quando è condannato a un ruolo sempre più marginale? La speranza è che il mondo migliori. Di ingiustizie e disuguaglianze ce ne sono a bizzeffe.
Come è possibile fare la rivoluzione quando questo sistema ha svuotato e distrutto la concezione sociale della comunità? Non esiste più il senso della comunità. Siamo in una società in cui è sempre più difficile dire “noi”. Le classi sono scomparse e con esse anche la coscienza di classe e la lotta di classe. La rivoluzione pacifica non è più possibile e molto probabilmente neanche quella non pacifica: sarebbe solo un inutile e utopico bagno di sangue, in cui sarebbero i rivoluzionari prima di tutto a rimetterci. Il problema non è solo accettare una quota fisiologica di violenza per fare la rivoluzione (via sbagliatissima), ma ormai la questione di fondo è rassegnarsi alla sconfitta, accettare le istanze della rivoluzione mancata, accettando razionalmente che quei tentativi non sono più ripetibili. La lotta è impari, realisticamente parlando. Allora non sarebbe meglio unirci tutti, indipendentemente dell’orientamento politico, in nome del buon caro umanesimo, un umanesimo più moderno, che comprenda anche le scienze umane, per una critica serrata e radicale alla società attuale? Che senso ha rimpiangere la rivoluzione? Non sarebbe un grande atto politico cercare di riunirsi in nome dell’umanesimo? Il treno della rivoluzione è stato perso e probabilmente non passa più. Che fare ora? Stare sempre rivolti al passato? È utile la nostalgia di un’epoca che non tornerà probabilmente? Certo di grandi insegnamenti da trarre da quegli anni ce ne sono. Quell’epoca e quella cultura non devono essere passati invano. Non sarebbe però ritornare sempre a quei giorni ripetere il solito mantra, il solito continuo “vorrei ma non posso”, nel vero senso della parola? Chi tutela il sistema capitalistico tutela i propri interessi ed è mosso dal proprio egoismo.
Cosa succederebbe poi se il sistema intero implodesse? Che ne sarebbe di noi? Inoltre al mondo d’oggi molti hanno qualcosa da perdere, anche poco, anzi pochissimo, ma se lo tengono stretto. Siamo sicuri che il tracollo del capitalismo non ci porterebbe in condizioni umane ancora più disastrose? Comunque anche se non si può accettare, le dinamiche e le trasformazioni socioeconomiche odierne vanno capite e criticate. In questo il pensiero di Fortini può aiutarci molto, può venirci in soccorso. Non si può nascondere la testa sotto la sabbia. Ci vogliono comunque anche nuovi strumenti intellettuali per capire nuove dinamiche. Bisogna stare al passo con i tempi.
Fortini va sempre tenuto presente perché è un grande maestro e un lucidissimo intellettuale, anche se apparteneva a un’epoca lontana. Fortini, per quanto sant’uomo e autore geniale, non poteva prevedere tutto, anche se ha previsto molto. Il primo interrogativo è come fanno molti a definirsi fortiniani e perciò militanti quando hanno accettato di buon grado tutti i meccanismi dell’industria culturale e i compromessi delle carriere universitarie (e non è assolutamente il caso di Abate)? Più che raccogliere l’eredità diciamo che ne hanno subito gli influssi, anzi degli echi lontani.
Infine un ultimo dubbio: raccogliere interamente l’eredità fortiniana significa anche abbracciare la sua religiosità (i Salmi, i libri sapienziali del Vecchio Testamento, i profeti, etc etc), per quanto Fortini non fosse sionista (vedere “I cani del Sinai“), e non fraintendere, non equivocare la sua chiamata alla clandestinità, che non significava prendere le armi e che al mondo d’oggi molto probabilmente, questa clandestinità, non è più possibile perché qualsiasi lotta, qualsiasi forma di opposizione richiede una certa visibilità, anche a rischio di farsi fagocitare dai mass media: sono finiti i tempi dei fogli ciclostilati e delle riunioni tra pochi militanti. È vero che Fortini era anche un ideologo e oggi l’unica ideologia rimasta è quella del mercato, come cantava Gaber. Però non bisogna fermarsi alla superficie; bisogna sempre valutare la grande capacità critica e dialettica fortiniana, la sua costante ricerca di oggettività, le sue grandi intuizioni intellettuali. Non bisogna dimenticarsi neanche della grande capacità di accettare il dialogo e di mettersi sempre in discussione di Fortini: qualità o quantomeno cortesia che mancano a molti intellettuali oggi. Fortini va sempre tenuto in considerazione. Il suo saggio Verifica dei poteri, più di ogni altro suo lavoro, va tenuto sul comodino, sempre a portata di mano, per dubbi, chiarimenti, delucidazioni, nuovi interrogativi. Intellettuali con la statura intellettuale ed etica mancano oggi in Italia. Mancano autori così lucidi, completi, versatili. Ma bisogna anche chiedersi non qual è l’eredità di Fortini, piuttosto ciò che è vivo e ciò che è morto in noi del suo pensiero, parafrasando Croce. Insomma Fortini è importante e non deve essere dimenticato. Uno dei problemi della letteratura italiana a mio avviso è che se esistono pochi sanguinetiani, sono pochissimi i fortiniani. L’eredità di Fortini sarebbe a ogni modo ingente, cospicua, ma molto probabilmente mancano gli eredi legittimi. Uno dei pochi rimasti è Ennio Abate. Ecco perché va letto questo libro!


* La recensione di DavideMorelli è ripresa da SOLOLIBRI.net (qui)

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