di Marco Ceriani
Sulla carta “genocida” dell’attuale nostro “impero” (la Storia dell’umanità è come un cono immaginato idealmente tronco, al cui vertice, su quello slargo, ci sta quella, tra le diverse ère storiche, più remota, con le sue Civitates Dei, con le sue più o meno estese e insanguinate mappe, la quale, come per una “patristica” efferata ma trascorsa, è raffreddata e dalla cui lezione continuiamo con ostinazione a non imparare nulla; mentre nel punto più basso c’è la Storia più recente, e la presente alla quale attingiamo, discendendone le cornici con niente di più nel nostro bagaglio che la reiterazione di sempre più fuori scala e mostruosi delitti, veri e propri sterminii di massa…): su questa carta Eugenio De Signoribus è il solo poeta, a mia conoscenza, sulla scena europea e non solo, che abbia facoltà di lanciare i suoi puntiformi segnali, maturati in legati che assomigliano a duri apparati testimoniali, votati a un redde rationem dal durissimo ciglio…
Per poterlo fare — assemblare i suoi ordigni-verbi e poi lanciarli nello spazio-tempo — egli ha da sùbito avvertito come, a rendergli attuale e presente un tale programma, dovesse corrergli in soccorso una lingua del tutto “speciale”, che schivasse i gonfiori dei frastagliati siparî che la retorica dell’argomento offre… Ci vuole per l’appunto una lingua “vaga, strana” e soprattutto straniera alla nostra epoca. Se ne accorse per tempo il suo più puntuale esegeta — un poeta tra i maggiori del secondo Novecento, che fu anche un grande critico in pectore — Giovanni Giudici, presentandolo per primo al più vasto pubblico.
Ho detto “puntiformi”, che vale anche aguzzi come punte di selce, perché quando leggo i suoi versi, disposti in distici terzine quartine, raramente offrendoci qualche isolato stico, non solo sento, al tempio dell’udito, soffolcersi in sostegni un certo acerbo atonalismo di matrice dantesca, ribattuto in una delle sue più autorizzate sentinelle novecentesche, Giorgio Caproni, come qualcuno pure ha sottolineato, con sincopi però agenti in De Signoribus verso un suo nucleo dolorosamente «interiore», scendendo da ardue cornici; mentre nel livornese le asperità si attestavano — secondo gli indottrinamenti derivantigli da un arcaico geodeta — in designazioni brulle e anfrattuose di spianata da ultima Tule; ma pure in queste formazioni strofiche nella mia rètina avverto, quasi per cogenze soprannumerarie, incidersi le piqûres di carovaniere attraversanti deserti con le lanterne che oscillano liete o tetre dai fianchi dei “chariots”… Anche De Signoribus va insomma verso la Tule, ma volutamente avvolta nella nebbia, non stagliata e incerta nei contorni, dei suoi “purgatorianti”…
Sono le carovaniere dei migranti, dei senzapatria e senzacasa, degli inermi: agnelli sacrificali del mondo che proprio in ragione della sordina che il poeta appone alla sua lingua si sentono e non si sentono, e che pertanto proprio per questo loro sentirsi e non sentirsi urlano nella nostra coscienza e picchiano ai nostri usci con tutto l’impeto di chi subisce la sorte del fratricidio — usura del fratello contro il fratello — e del genocidio — del popolo contro il popolo.
Di essi De Signoribus è il cantore primo e ultimo.
Ma in questo poeta, di somma e prestigiosa transitività, una transitività che gli consente di gettare il suo sguardo “imperdonante” su tutti i più cruenti teatri della terra flagellata, è anche vigile e operante una cocciuta ascetica intransitività che lo sospinge verso un suo “chiuso mondo”… Ecco pertanto affiorare la sua anima «boema», con i temi di una dissepolta sepolcralità che sulla nostra scena espone un Mozart perigliosamente quatriduano e lebbroso, mai visto (il sentimento del tragico è, in De Signoribus, concesso come al solo feticcio sonoro in grado di farlo risuonare, nemmeno Giudici lo poté!): «e io, già morto, sono qui a morire…» p. 17, “Il bibliotecario”: primo à bout de souffle di questo suo nuovo libro, Ceneri germogli ceneri, dalle assai sapienti architetture e summa congegnata secondo ineludibili necessità; e lui, pellegrino col bordone, in “L’allogazione”, incipitaria della II sezione del libro, Moti interni, avviarsi verso «la stanza buona / da abitare la domenica!» // oltre quelle finestre / chiuse coi loro tarli tenaci», affrettandosi però a dire che in essa «non c’è beltà che tenga», p. 21. E in tutta questa seconda sezione ripetuti sono i sehnals che ci fanno persuasi di vivere entro interiéry praghesi, spesso sordidi e visitati dal disfacimento come nelle quinte di un sogno («… muri purulenti / di chiodi-vermi e vermi-ganci», p. 24: viene in mente tutta una tedesca, espressionistica «Nekrophilie», e il Benn di Morgue e Georg Heym…); forte è in me il richiamo degli Zdí [Muri] holaniani; poi a p. 26 ancora in (discorso del padre): «non uscite da qui, non dividetevi / restate qui a moltiplicarvi // qui non ci piove o sapete / di qualche spiffero d’aria?// i muri sono bianchi e solidi / i mobili tutti soprammobiliati / il tavolo è di legno pieno, / lo conoscete, si può allungare… Sembrerebbe a tutta prima una situazione diversa da quella purulentemente espressionistica descritta poco sopra; questa invece ci appare tutta armata in re (muri, mobili, tavolo, sedie, e letti, e libri; e come, nella sua accelerazione nomenclatoria, tutta in fide anche, in spe anche…); ma basta seguitare nella lettura perché ci si renda presto conto di come la situazione si rovesci in un high voltage-inquietudine-saturazione da thriller… Tutta la sezione va letta in questo spirito; pare di essere a Praga, sull’isola di Kampa, cui si giunge dopo le soste presso mal speculati portoni o sotto insegne rugginose da Libro d’ore o cucine di Faust: «A isola, tot’ ostrov», dice Holan nel cuore folto di Lemuria, che è il suo récit lirico-filosofico, il suo convolvolo di fantasia leonardesca…
«Nessun luogo è elementare», come De Signoribus titola un capitolo delle sue prose, con gran carico di enigma, ne potrebbe essere il suo contre-chant?…
Questo nostro grande poeta parla la lingua di quel suo grande confratello boemo, pifferaio di ombre, Holan, il quale almanaccava che Mozart passasse ancora sotto le sue finestre, dopo aver abbandonato il suo malsano alloggio al Mercato del carbone (Paumgartner); scavalcato, sugli agili trampoli della premente Ouverture del Don Giovanni, il Ponte Carlo, con la sua centuria di statue in nera arenaria, per raggiungere Villa Bertramka, la graziosa dimora di campagna dei coniugi Dušek, dove lo avrebbe atteso, prima della frenetica stropicciatura della carta da musica, il gioco del biliardo… Sembra un particolare secondario o affatto irrilevante, che prima il «divin fanciullo» si sperperasse al biliardo e solo dopo si dedicasse a quella sublime musica? Ma: «Ale je hudba» («Ma c’è la musica»), ripercuoterebbe Holan, e io, io vi ho sempre visto una grazia settecentesca, mozartiana, in De Signoribus, dove anche l’umore più atrabiliare è riscattato dallo splendore della forma, equilibrata come le vertigini delle simmetrie sulle ali delle farfalle… Ciò spiegherebbe come questo suo supremo «Spleen», questo «petit dictionnaire de la mélancolie et du crime», acceso dai più maturi atonalismi dello scetticismo, dello sgomento e dell’abisso, sia allo stesso tempo esultante come per un riacquisto di edeniche felicità tonali!
Dopo aver attraversato la III sez., “Indietro-remoto”, nella quale appare un idillico alfabetiere («quando nacqui al silenzio / d’una post-bellica soffitta / era già lì la mia lingua» p.37; «prima dell’alfabeto / scoprii l’intera lettera»); e «la segreta, il mistero / del messaggio amoroso, / l’incompiuto corpo / della scritta parola», p. 38, di questo protodiacono, approda a «i freschi scarti delle ostie sante, / il cibo beato, parole smante», p. 41, in cui anche noi ci perdiamo e riconfortiamo, con lui, nel suo sosia «martire domestico», p. 42, affiancandolo «su e giù per le scale […] il buio sottoscala» […] «sul tetto [dove] s’attanaglia il piccione / azzoppato» (come non pensare, anche per il rincorrersi di una sorta di elastico fonico, al Valéry supremo del Cimetière marin: «Ce toit tranquille, où marchent des colombes, / entre les pins palpite, entre les tombes», ne sono i versi incipitarî, e in clausula «Ce toit tranquille où picoraient des focs!», benché De Signoribus sia lontano dal “chiarismo” del grande francese); anche noi allora approdiamo alla IV, “Gridelle”, ove vigono delle marche-cartigli che vi insigniscono dapprima dei saltellanti faits musicaux: (la canterina) (canzonetta) (la musicante), poi a grado a grado amaricantisi: (la piovosa) (alienazione) (la bellicosa) (la dubitativa), nelle quali è più evidente il “debussismo” del poeta: suoni svanenti nel più immateriale pulviscolo sonoro… Cathédrale engloutie… La mer… «se dal fondo mai un sospiro torna / è come un’eco smarrita» p. 53…
FINE DELLA PRIMA PARTE