Sulla carta genocida dell’Impero (Parte terza)

di Marco Ceriani

TERZA PARTE

«Scheletrario senza crani» è una delle espressioni più forti e iconiche del poeta De Signoribus, per quel suo guardare dall’alto l’immane scempio degli umani abominii nelle lunghe file di agghiacciate sindoni… e, con gli infiniti «lumini-schermini» accesi sui campi dell’uomo, Egli ci dice, con una forza da nessun altro poeta conosciuta, come sia occhiuta la notte del mondo con queste sue fiammelle d’una pentecoste alla rovescia, rossa negli apici della brulicante rete degli schermi, bianca nelle sindoni inamovibili stese d’incontro alla terra delle ceneri. D’altro canto De Signoribus può guardare a una siffatta notte di tregenda, senza timore di scendere a patti o di dover retrocedere, a cammino avviato, dai suoi propositi; ispezionare dal di dentro i muri putridi e verminosi dei nostri terreni ricoveri, claustrandovisi, opponendo loro il pollice recto del suo Castillo interior, potendo la sua scrittura lambire, sino a toccarla, la verità, giacché in lui scrivere è de pectore orare.
«Scheletrario senza crani» fu in Ronda dei conversi, del 2005, e ora in questo suo nuovo libro, Ceneri germogli ceneri, — che solo pigramente potremmo definire riassuntivo o auto-antologico, in realtà profondamente caratterizzato da una sua precisa fisionomia (le diverse tessere dei libri che fanno la storia della poesia di De Signoribus vi sono deliberatamente mischiate, a scapito della loro diacronia e in favore di una sincronia, da battezzarsi persino, volendo, “metacronia”, ciò che permette l’avvicendarsi, sul palcoscenico dei versi, di un tempo “ciclico”, vichiano o, ancor meglio, secondo i nuovi acquisti novecenteschi, proustiano… ) —: inaugura la sez., «VIII Verso il 2 (Nel passaggio del millennio», caratterizzata dai suoi nonversi, saggio dei quali Egli ci aveva già dato in «(trapasso di stagione)» alla fine della VII sez., e prima ancora in «Delirio-Idillio», a p. 42, appoggiandovisi come la smorfia di un rictus. L’1 e il 2 che campeggiano nel cuore della sequenza, come se fossero le due immani lettere-cifre rosse che si stagliano riverberate minacciosamente dalla corazza dell’epoca — non il 1…9 né il 2…1 ecc. — voluti con un colpo d’ala e con un magnifico coup de théâtre dal poeta-demiurgo — smuovono con un fragore potente non due secoli, che sarebbe già molto, trascurando il defilarsi e l’insinuarsi di due decadi o il passaggio della cruna di un anno e il subentrare di un altro, ma due millenni… Grazie a questo stratagemma tutto, in un siffatto libro “nodale”, appare immenso, immane (in-manis). E anche il ricollocamento di essa sequenza nel nuovo ordine staglia “in abisso” tutto il lavoro senza pari di un tanto Artefice-Artifex additus artificii di sé stesso, questo subliminale critico di sé. Le cifre “scarlatte”, come «La lettera scarlatta» della colpa, si ergono simili a un altopiano, lungo il quale corrono sfilaccicose le nubi oracolari del disegno ordito dal demiurgo, al perfetto centro di questo nuovissimo, fiammante (nel senso di flamboyant, fiammingo…) e pur di un mesto, dolente francescanesimo, Ceneri germogli ceneri: «la vita che tu accogli / solo così non è: / un risentire c’è / tra ceneri e germogli (c.vi nostri), in «Fine d’anno», p. 100, a chiudere la sez. VIII (mi ostino a chiamarle “sezioni”, varrebbero piuttosto “stazioni”… di una dolente Via Crucis!). E ai piedi dell’altopiano pullulano e si rincorrono le squadre delle strofette-quartine di «IX Arie e contrarie» in (la caduta) (bomba) (smanierata) (miracolata) (invocata) (disperata) (fine), magnificamente ai piedi di quella altura di “millennio fine e principio”…; per continuare nella «X D’acqua e d’aria» con le terzine e ancora le quartine liturgicamente scandite: qui fa il suo affaccio un ritmo, mi verrebbe da dire, santamente ambrosiano del poeta: «ho fatto il giro largo della casa, / a lungo ho nuotato, inseguito / tutti i raggi sull’acqua…» («Ho provato»), p. 113, alla ricerca, mi verrebbe anche da dire, di un suo Manzoni: «non ti ho ancora trovato / non smetto di cercarti / so che sei qui», in chiusura-clausula del Lied.
Di questo poeta, simile a un agostiniano che si lavi le mani alla fontana del sangue, il lettore sente nel cambio repentino del ritmo, dovuto al picco centrale di VIII, che Egli poeta vi è intervenuto, in dissidio col suo respirante schermo prosodico, in piena insoddisfazione con quel règime, e dà quasi l’impressione di volersi auto-flagellare, gettare il saio alle ortiche, mettersi col suo metro fuori posto, per una sorta di immedicabile incontentabilità, di face-matrice etica prima che estetica. Si tratta di quasiversi che mimano l’andatura della prosa, senza in pieno centrarne il respiro; qualcuno direbbe — per l’apparenza convocata, di sola suggestione retinica — trattarsi di nonversi whitmaniani; o, per stare vicini a noi, accosto alle nostre eversioni secondo-novecentesche (ma non c’è un poeta sulle odierne scene più avverso di De Signoribus agli avanguardismi, specie se conniventi con le più sterili ideologie), allusivi di un verso a fisarmonica “alla Pagliarani” o nel segno delle «Postkarten», sanguinetiane, ma Egli non è e i suoi Lieder non sono nessuna di queste tre opzioni, mancando in lui totalmente la solennità ottocentesca del primo, il ritmo sincopato o rap del secondo, il metaforismo post-schönberghiano o post-weberniano del terzo… né vi officia, ripercosso negli anellidi di accenti scazonti, il poderoso cantiere poundiano… Certo anche qui manca un riconoscibile centro melodico, la catena versuale appare degerarchizzata, come è ben patente nel poundiano “letterale” Sanguineti; vengono tuttavia emblematizzati i nuclei accumulativi dell’invettiva, dell’appello («Ma chi li guarda più i trascurati quando / è diverso il peso dei vivi e dei morti?»), p. 95; e appena più sotto, nello stesso testo (si vorrebbe dire al v. 5 — ma qualcosa mi trattiene dall’adottare questo schema della numerabilità, come se la bruciante e amara constatazione, rivolta ad esso e ai suoi conseguenti, ardesse accanto al continuum di una vita esfoliata che più cruda vita mai si è potuto né mai alcuno ha osato, e come se ogni artificio retorico-prosodico vi fosse abolito —): «Nell’odierno imperio è stabilito che, alla violazione / di un corpo di serie A, subito si risponda / con una vendetta moltiplicata… cioè che sia scorporata, / sotto un corto mantello, un’intera genìa / di serie minore…»
Le tre I, così simili all’ 1, di: «inermi», «infermi», «inferni»: giocate su sei sole lettere, nell’ordine alfabetico le e, f, i, m, n, r, le sorti di queste (e questi) figlie (figli) di un dio minore si giocano su un “tabulato truccato” e sul monito di: «che la morte non sia sola / e si tema la colpa più del lutto» (sempre a p. 95).
A seguire il profilo dei versi designoribusiani, i nonversi della sez. VIII sono quelli che più arditamente e cospicuamente rompono il ritmo, fino a questo punto giocato su un passo normativo stabile, frutto di versi canonici tra endecasillabi, con qualche sforamento verso l’ipo o la ipermetria, e misure minori; e improvvisamente il lettore si imbatte in questo slargo, ma fatica a comprendere di che paesaggio si tratti — si ha la netta impressione che i detriti in esso la facciano da padrone (sennò lo «scheletrario» cadrebbe come un oggetto alieno e ciò non si accorda, né plenariamente né giurisdizionalmente, al raisonnable del poeta, che vi si mantiene a ‘polso fermo’, dove l’amarezza parrebbe tracimare; quel sintagma ‘polso fermo’ sulle prime richiamerebbe Nelo Risi, ma è un trompe–l’œil, non Nelo Risi, bensì Manzoni per i moduli da “inno sacro” che in De Signoribus riguardano gli «esodi»: ma con Risi, eco fioca, Manzoni non è fuori luogo, e dunque ecco che il cerchio si chiude et tout se tient). C’è stato sì un «(trapasso di stagione)» e prima ancora in «Delirio-Idillio», uno svuotamento già di sistoli e diastoli dal cuore del ritmo, ma furono ancora aritmie innocue… La vera crisi si avvera e invera col «passaggio del millennio», benché pur quelle in-nocenti episodicità abbiano istigato con il loro riverbero detta crisi; poi ci sarà una coda di punteggianti svanenti nonversi ma consegnantisi quasi arresi a una ortodossia di fondo. La strategia ricorda le transitività e alternanze tra luce e buio, cornici di putride paludi, gironi infernali e improvvise chiarìe, chele di fango di camminamenti carsici che ti imprigionano nella loro morsa, ed esultanti picchi di plein air (dice acutamente Verdino convocando, confancentisi, certi loro campioni: «la luce si converte in pane»; «e se alla prima luce non vedessi / la casa dalle finestre aperte / m’accascerei»)… La Fede non è mai estinta in questo poeta, anche al più cupo dell’amarezza; la più fragrante “Humilitas” mai lo abbandona, mai!: «nil insolens mens cogitet […]», Ambrosius Mediolanensis, Hymni, Ad horam tertiam, anche al più cupo dello sconforto.

POSTILLA ALLA TERZA PARTE

Arrivati a «XI L’era dell’imperdono», nel lettore che si vorrebbe scrutinatore di questo immenso capitolo “del pensiero umano e delle scienze morali”, ogni resistenza (si intenda: volontà di opporre un commento!) cade… Non c’è che da trascrivere e lasciarsi andare: «è l’era dell’imperdono / che si dispiega bassa / nell’uno e nella massa // è l’era dell’imboscata / dei miti di ritorno / di potenza e crociata // è l’era in cui solo / il seme dei sentimenti / mi riporta a me // e ogni tanto rinasco / e voi rinascete in me / oh fraterni e perduti // negli inferni dell’era / nel dissenno a raggiera / nello scacco dell’uno // e della schiera» (p. 127-8)… Tolle et lege! verrebbe da dire. E «L’ammasso degli innocenti», con quell’«ammasso» ancor più incusso che “strage”, e «Popoli sotto il fuoco», focalizzanti le neo-colonne del fuoco biblico o della nuova Apocalisse, vengono a incendiare e a sgrammaticare le nostre agende di esangui osservatori-ascoltatori…
Dopo la sosta nella «XII L’innocenza», con le bellissime «Alla rima» — da leggersi quasi alla stregua di una dichiarazione di poetica e idem «Accoglienza della prosa», entriamo nella «XIII Esodi», ripercossa in una excusatio non petita: «Perdona la ripetizione ma / la sordida historia si ripete», p. 155, «Esodo primo»… Di nuovo torna pronunciabile su labbra umane la migrazione dell’antico popolo e del nuovo, l’odierno… Altro non si tollera aggiungere alla Summa, solo il vocativo — quasi imperativo! — rivolto al lettore: Tolle et lege!

— «lo ammetto, sono sgomento… / mi ospita un fradicio muro / che scola da ogni lesione, / crollerà sul marcio cortile… // le mie mani reggono, vedi, / un dignitoso disegno, / come traversassi un guado / senza torcia o mantile // sperando di non affondare / e in alto le mani tenendo / come se un dono invisibile // avessi da traghettare… // e tu che sei là, tu oltre, / tu altro, voce mediana / che credi al tuo fine, / dimmi se è un bene giungere a te // dimmi se sarò / tuo ospite o prigioniero!… / intanto questo cancellato sentiero / attraverso con le mani in alto»…, p. 114-15, «X D’acqua e d’aria»
Si è arreso De Signoribus? non crediamo!… l’assenza di un punto fermo, in chiusura del Canto di cui si è offerta trascrizione, ci fa ben sperare e credere che, mani in alto o abbassate come dure mezzelune o falangi falcate in atto di fendere la folla degli ‘inermi’ e ‘cancellati’, allo scopo di riscattarla, noi porteremo, alte tenendole come dure avanguardie testimoniali, dietro questo nostro Qohélet che non deflette, questo nostro Giobbe che paziente dimora, pur sragionando nel più ostativo melmoso — noi scaglieremo il nostro dardo, dalla terra offesa e transeunte all’acrocoro del trascendente che le fa guerra: per averla infine pacificata e riconciliata.

1 pensiero su “Sulla carta genocida dell’Impero (Parte terza)

  1. La lettura del saggio in tre parti di Marco Ceriani su “Ceneri germogli ceneri” di Eugenio De Signoribus a me ha ha fatto venire in mente due domande:
    1. cosa arriva oggi ai lettori di un’opera di poesia?
    2. quanti e quali sono gli ostacoli che impediscono e distorcono questo rapporto (di lettura, di comprensione, di scambio) tra poeta e lettore/lettori?

    P.s.

    Queste domande non le pongo come questione astratta ma ricordando un’esperienza precisa. Nel 2013 arrivai alla rottura con Giorgio Linguaglossa, che allora collaborava con me al blog Moltinpoesia, proprio sul modo di accostare un’opera di De Signoribus.
    A questi link la penosa ma istruttiva vicenda per chi avesse voglia e tempo per approfondire il problema che ho posto sopra:
    https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/09/09/discussionesulla-poesia-di-eugenio-de-signoribus/
    https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/09/17/discussioneancora-sulla-poesia-di-eugenio-de-signoribus/
    https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/09/20/ennio-abatechiarimento-sulla-polemica-fra-me-e-linguaglossa-a-proposito-di-de-signoribus/

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