di Beppe Corlito
La domanda è pertinente per confrontarsi con la puntigliosa recensione di Ennio Abate su Poliscritture.it, che reca appunto un titolo mortuario: “Il compianto del Sessantotto” (qui) come se i giovani di allora, oggi anziani, fossero convocati a un pianto rituale collettivo intorno al cadavere di quell’anno per più versi indimenticabile. È vero che la vecchiaia spesso seppellisce le speranze della gioventù, ma con un atteggiamento mentale simile credo non sia possibile nessuna trasmissione di memoria utile per il presente e tanto meno per il futuro. L’intento dichiarato del nostro libro è proprio questo: una testimonianza rivolta al futuro. Viceversa Ennio Abate pensa che l’intento di tener viva tale memoria sia “un’illusione”(v. ultimo capoverso dell’apertura).
La recensione è molto scrupolosa e merita un confronto punto per punto anche se nella necessaria brevità della pagina. Chi vorrà approfondire è chiamato a leggere il libro come ha fatto Abate piuttosto che trinciare giudizi sommari, quando quello che scriviamo non coincide con i propri schemi precostituiti.
1. Comiciamo dalla negazione del Sessantotto come “spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima, è potuto essere uguale dopo”. Abate sostiene che l’idea si è annacquata a mano a mano che gli anni passavano e il potere capitalistico si imponeva azzerando ogni “contropotere democratico”(punto1). Posso anche convenire sull’ultima affermazione, ma ogni ricostruzione seriamente storica dovrà riconoscere per forza oggi e in futuro che il ‘68 fu un tornante della storia decisivo dei soggetti in campo sia dalla parte dell’organizzazione capitalistica della società tardo-moderna, centrata sulla terza rivoluzione industriale, quella elettronica, sia dalla parte della formazione di un “nuovo proletariato”, quello che sta oggi davanti alle macchine elettroniche (fatto relegato nella recensione all’ultima nota, dove viene citato fra l’altro uno scritto del 2009 di Luperini e altri, tra cui proprio lo stesso Abate). Altrimenti la storia perde ogni connotato materialistico per diventare l’astratta ripetizione di schemi dogmatici, col rischio di fare un’apologia indiretta di un capitalismo invincibile.
2. Constatiamo che una strategia rivoluzionaria nei paesi dell’Occidente, dove è nato e si è sviluppato il capitalismo, non ci è nota, altrimenti non staremo qui a discuterne a distanza di mezzo secolo. Abate critica aspramente la nostra ipotesi, mutuata dalla fortunata espressione di Rudi Dutschke, la “lunga marcia attraverso le istituzioni”, che mettiamo nel saggio in relazione con la teoria gramsciana dell’egemonia e della conquista delle “casematte” del potere borghese. Ci riconosce la critica delle posizioni spontanieste di Dutschke, ma taglia corto dicendo che essa non ha resistito al vaglio della storia sia nella versione gradualista del PCI sia in quella breve e per noi inadeguata di Democrazia Proletaria, a cui contribuimmo. La critica è debole perchè il PCI nella versione togliattiana (infedele alla lezione di Gramsci) aveva abbandonato nella pratica e soprattutto nella teoria qualsiasi ipotesi conseguentemente rivoluzionaria. Se vogliamo parlare della “lunga marcia attraverso le istituzioni” del PCI, che per altro in nessuna sua variante usò tale espressione, dobbiamo prendere atto di questo azzeramento dell’orizzonte. Andrebbe studiata meglio la riduzione togliattiana non solo della teoria gramsciana (ormai nota pure filologicamente sui testi), ma anche dell’idea di “democrazia progressiva” di Eugenio Curiel, morto precocemente per mano fascista nella lotta partigiana, mentre Togliatti se ne stava nell’esilio moscovita all’ombra di Stalin. Sia detto per chiarezza che nel saggio prendiamo le distanze da ogni ipotesi gradualista. Il problema non si pose neppure in DP, nata ormai nella fase calante del movimento del ‘68 e di quella fase di lotte. Fu un’esperienza troppo breve, sostanzialmente residuale e poco illuminata dalla teoria, per fare i conti seriamente con la questione. Così dopo è successo anche per varie ipotesi “rifondative” del comunismo.
3. Se la nostra ipotesi di “lunga marcia” cerca di fare i conti con l’orizzonte rivoluzionario, si pone inevitabilmente la questione del partito, portatore nella pratica e nella teoria di tale prospettiva (p. 124). Consideriamo ancora oggi valida la critica dello spontaneismo dell’epoca. Nel saggio rivendichiamo in maniera critica la scelta leninista di allora e anche quella di partecipare alla formazione di Democrazia Proletaria, proprio in direzione della formazione di un partito rivoluzionario, pur con i limiti già detti. Indichiamo un’altra possibilità: l’organizzazione reticolare del sociologo Gerlach, che messa in relazione alla forma organizzativa del movimento del ‘68, ma non della “forma-partito” (p. 51). La mia ipotesi, ribadita nelle conclusioni condivise con Romano Luperini, è che dovrebbe essere presa in considerazione per “la flessibilità del[…] modello[… ] più rassicurante rispetto al pericolo dell’irrigidimento burocratico sempre possibile” (p. 126), soprattutto nei classici partiti centralizzati della tradizione terzinternazionalista. “I nuovi movimenti […] avrebbero una struttura segmentaria, policefala, reticolare […] sono policefali in quanto privi di una leadership unitaria” (p. 125). E’ abbastanza ovvio che un partito, il quale si muova verso un orizzonte rivoluzionario, non possa che avere una direzione “unitaria” per quanto flessibile. Andrebbe studiato meglio alla luce delle possibili esperienze pratiche come un partito organizzato a rete possa conoscere la realtà e prendere decisioni conseguenti. Oggi sappiamo che la conoscenza e le decisioni umane sono strettamente legate alle reti neurali, imitate dalle macchine elettroniche e dai loro algoritmi. Ma basti ai fini di questa discussione aver chiaro che un conto è l’organizzazione del movimento e altra quella del partito.
4. Veniamo a quella che sembra essere la critica più radicale di Abate, cioè la modalità di presa violenta del potere e poi più in generale sull’uso della cosiddetta violenza rivoluzionaria. Scrive Abate: “non vedo perchè cancellare o svilire altri strumenti – conflitti anche violenti e persino armati – che pur hanno permesso in passato rivoluzioni (la francese, la russa, la cinese) dai risultati apprezzabili” (punto 3). Questa posizione viene giustificata col dire che per quanto complessa la moderna società borghese “resta il ‘guanto di velluto’, che copre il sempre più minaccioso e più tecnologicamente efficace ‘pugno di ferro’ del potere capitalistico”. Come a dire che la violenza del potere borghese, che non abbiamo mai sottovalutato tanto meno ora in questa epoca di guerra, richiede inevitabilmente l’uso di un’altrettanto potente uso della violenza rivoluzionaria. Ciò che contestiamo è la semplificazione dell’affermazione. Non è un caso che, pur nella sua precisione esegetica, Abate non citi mai direttamente la questione cilena, che è invece centrale nelle nostre conclusioni, e poi il passaggio teorico decisivo a cui dedichiamo un intero capitolo del saggio sul rapporto tra “democrazia e rivoluzione (pp. 101-108). Dell’intero discorso sul Cile viene isolato solo il passaggio sul “pacifismo attivo”, cosa che mi sembra un po’ forzata, anche perchè monca della specificazione successiva: tale “pacifismo […] non disarmava, ma puntava alla mobilitazione di massa, e non escludeva come extrema ratio la difesa armata” (pp. 118-119). E’ ovvio che la democrazia di cui parliamo, senza infingimenti, è la “democrazia borghese”, quella nata dalla Rivoluzione Francese, a cui fa riferimento lo stesso recensore, citata poco prima e considerata fin dai tempi di Marx come il terreno più favorevole al processo rivoluzionario. Si tratta non solo e non tanto della cosiddetta “via elettorale” e della difesa delle istituzioni democratiche, ma dello sviluppo della democrazia e del suo passaggio a un livello più alto così come è descritto nel rapporto tra democrazia e rivoluzione.
5. Gli ultimi tre paragrafi della recensione di Abate tendono in vario modo a giustificare il ricorso alla violenza e alla lotta armata, fino al punto da mettere sullo stesso piano tutte le variabili messe in campo dal movimento del ‘68 in poi. PCI, Democrazia Proletaria, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono tutte indistintamente state sconfitte e quindi perchè fare distinzioni? “Tutti sconfitti”, scrive Abate. Così diventa la notte in cui tutte le vacche sono nere e si vede solo buio davanti agli occhi. Soprattutto si rischia di giustificare il terrorismo, che per noi è stata una delle due ganasce della tenaglia c he ha stroncato il movimento. Dall’altra parte c’era la repressione dello stato (p. 119). Dobbiamo ricordare ancora la lezione di Lenin contro il terrorismo, che per noi allora fu una bussola decisiva. Inoltre, pur valutando la sconfitta delle varie ipotesi in campo, non dobbiamo dimenticare una modalità di giudizio decisiva, quella che Gramsci chiama nelle “Noterelle sul Principe” la “linea progressiva”, cioè quella che avrebbe permesso maggiormente il raggiungimento degli obbiettivi della classe operaia e della sua rivoluzione sociale. Il richiamo a considerare il “lato oscuro del 68”, che Abate non precisa ulteriormente, ci rimanda a questa prospettiva buia e cieca. Non trovo “oscuro” ciò che avvenne, se per questo intendiamo il passaggio alla lotta armata clandestina di quale esigua frazione del movimento. Mi sembra che è scritto chiaramente nel libro: fu il frutto di un errore di valutazione della fase, che non era rivoluzionaria e quindi imponeva realisticamente di privilegiare la lotta legale su quella illegale (è ancora la lezione leninista), e il conseguente avvitamento sulla riproposizione acritica e dogmatica del modello insurrezionalista. Era possibile un recupero del potenziale rivoluzionario del BR come tentarono alcuni leader di Autonomia Operaia? Direi proprio di no. Esse non erano fasciste (non lo abbiamo mai detto), probabilmente erano a rischio di essere infiltrate dai servzi segreti come tutte le organizzazioni clandestine, ma su questo non abbiamo ancora una “verità storica” accertata. Sicuramente non servirono alla causa della rivoluzione. Non mi pare che la lezione di Lenin fosse così indulgente verso i terroristi della sua epoca.