Il comunismo nel buio (2)

Dialettica e speranza

di Ezio Partesana

L’intervento di Fortini su cosa sia “comunismo” è una forma sublime di dialettica, purtroppo la dialettica mal sopporta il sublime; l’idea è raccontata come se fosse in movimento, ma dentro al motore è nascosto un abilissimo nano. La storia non è questa.
La lotta per il comunismo non è già il comunismo. Se un’anticipazione del futuro è entrata nell’esistenza dei compagni, lo ha fatto nonostante il furore, non grazie a esso. L’esperienza che “una volta per sempre” ci mosse, è stata tuttavia anche quella dei limiti, della finitezza, umana; non sono scorsi latte e miele e il deserto non è fiorito.
Lo scritto di Fortini – che ritrovo in Extrema Ratio (Garzanti, 1990) – uscì originariamente per un supplemento satirico dell’Unità, non senza ragione come ricorda in introduzione lo stesso autore, e se fu “una sfida, come una scommessa metrica” la stesura, non lo è meno la decifrazione dei nessi che reggono la certezza e il dubbio intorno a quel concetto.
Non si tratta di mettere ordine e neanche certo di “esattezza”; se nessun pensiero è immune dalla sua espressione, certo quello di Fortini si è vaccinato come pochi altri per studi, autocritica e, si ammetta, una virtù letteraria fuori del comune. L’idealismo, la mossa della volontà che ferma le cantilene sulla “liberazione”, sta tutto nell’invocazione di un passaggio da una contraddizione, oggi dominante (e cioè quella tra capitale e lavoro), a “una contraddizione diversa” che sarà reale una volta raggiunto un luogo più alto, “visibile e veggente”. Mettere il futuro nelle mani degli uomini come se fossero Dio è esattamente quel salto, “in nome di valori non dimostrabili” che il comunismo vuole, ma è una preghiera che sarebbe meglio non recitare nel nostro tempo.
La dialettica di questo articolo è un’allegoria della dialettica, un affresco del Prinzip Hoffnung che non trova, nonostante tutte le precauzioni, il duro oggetto che gli si dovrebbe contrapporre, ovvero la produzione dell’individuo a opera della società. Gli oppressi e gli sfruttati non sono migliori, “cominciano a esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo”, ovvero il primato della coscienza (individuale) sull’essere (sociale); la spuria citazione da Lukàcs non rende meno problematico il passaggio: se la prova dell’esistenza di Dio è che ne avremmo bisogno per riparare ai torti, allora non solo Dio non esiste ma anche l’Illuminismo era un mito.
Fortini è, ovviamente, ben conscio di quale operazione stia compiendo: il “comunismo in cammino” anzi comporta – contro la sentenza dell’Imperativo categorico – di “usare altri uomini come mezzi”, e non come fini, sebbene il Fine sia proprio il contrario; che la coscienza non ne possa emergere pura accampando la “scusa” della necessità e della storia è un memento che vale, ma quale dialettica mai avrebbe con lo “stato presente”, lo scritto non dice, semplicemente perché ogni dialettica deve avere un concetto e un’esperienza che non sono conciliabili. L’arte è una via, certo, ma distratta da una conciliazione – o “consolazione” nel lessico di Fortini – che può ben mostrare il disastro ma, come il povero angelo di Klee, ha le ali impigliate.
La Scienza della logica di Hegel – libro rompicapo e astratto come pochi altri – riconosce fin dal principio che inserire in un ordine molte cose che in verità accadono in un tempo non lineare è una rappresentazione della quale il nostro intelletto finito è obbligato a servirsi per afferrare la Totalità. Non immagino Fortini leggere e glossare la Scienza della logica, non era il suo mestiere né, direi, la sua vocazione. Per altre vie però ha, con tutta chiarezza, riconosciuto la nullità di un concetto di Uomo che faccia a meno degli uomini viventi qui e ora. L’errore di “credere in un perfezionamento illimitato”, eredità dell’illuminismo borghese, fu anche di Marx, annota Fortini, e non dovrebbe stupire che la volontà possa sovente travestirsi da avanguardia militare. La “infermità radicale”, il riconoscimento della quale viene invocato come parte del Comunismo, è però un ritorno, contro tutte le premesse, a una dimensione di “sapienza etico-religiosa” che funziona come lo stupore di Sir Isaac Newton di fronte alle Leggi della Gravitazione universale: So che è così, ma cosa sia è un mistero.
“Al mio custode immaginario ancora osavo, pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare di risvegliarmi nella santa viva selva”; l’impazienza di Fortini è una lezione da apprendere letteralmente come Prinzip Bewusstsein, e rassomiglia in questo alla confessione, dove nulla cambia se non avere visto e avere detto. La contraddizione però così scompare in una disciplina che può anche mettersi al servizio della futura umanità, ma rimane, giustamente, nel mondo delle rappresentazioni e non della cosa in sé.
Sono consapevole di aver accostato due astrazioni: il Comunismo di Fortini, e la Dialettica di Adorno; “Rendere sensibile e intellegibile la materialità della cose dette spirituali” mi valga però come salvacondotto per attraversare un territorio “ch’i non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”.
Finora abbiamo solo interpretato Fortini, è venuto il momento di cambiarlo.






2 pensieri su “Il comunismo nel buio (2)

  1. Misurarsi con un testo critico-esegetico come quello elaborato da Ezio Partesana sulla teoresi di Franco Fortini significa misurarsi, oltre che con alcuni concetti, con un sistema di metafore e di immagini, per quanto compresso tale sistema possa essere per ovvie ragioni dimensionali. Esiste, infatti, all’interno del reale una modalità di realtà che è il contrario della stessa realtà: l’immagine. Benché l’immagine sia, ovviamente reale, non è reale ciò che in essa è rappresentato: non posso sedermi sulla sedia che compare nel dipinto di van Gogh, mentre è reale la sedia che fu il modello del dipinto. L’immagine dell’oggetto non è la realtà dell’oggetto, tuttavia essa è, a sua volta, un momento della realtà: l’irrealtà di ciò che è rappresentato è, a sua volta, un momento della realtà dell’immagine e, così, un momento della realtà.
    “Vostr’arte a Dio quasi è nepote” (Inferno, canto XI, v. 105): il monito di Virgilio a Dante è quello di non dimenticare mai, insieme con la connessione, la distanza ontologica che intercorre tra l’oggetto, l’immagine e il concetto (questa consapevolezza teoretica è stata un merito eminente non solo della teoresi, ma anche della poetica e della poesia di Franco Fortini).

    Insomma, soggetto ed oggetto si richiamano a vicenda: tuttavia, è all’oggetto che spetta il primato. E l’oggetto, in tutta la sua corposa evidenza e nella sua logica profonda, è, nel caso che qui ci interessa, il comunismo, che comprende tutta una serie di concrete esperienze storiche di realizzazione del socialismo, un certo numero delle quali (non è fallito ma) è stato sconfitto, e un limitato, ma significativo, numero di altre sono tuttora in corso. Sennonché, mentre il soggetto (che è quanto dire il teorizzare e l’interpretare) dipendono dall’oggetto per il suo costituirsi come tale, l’oggetto, che si supera attraverso il soggetto e si chiarisce a sé come tale, non dipende da questo per quel che concerne il suo iniziale darsi, il suo affacciarsi alla ribalta dell’esperienza. Su questo punto fondamentale occorre insistere fino alla sazietà contro tutte le concezioni di stampo soggettivistico: metafisica, teoria della conoscenza, razionalismo formalistico, empirismo ed ogni forma di immediatismo, positivismo e irrazionalismo. E però il dualismo tragico e la “negazione indeterminata”, adialettica e pertanto incapace di mediazione, si pongono inconciliabilmente agli antipodi rispetto all’esercizio dialettico. Del resto, ridotto a teoria fra le altre, lo stesso pensiero critico-negativo rischia di scadere a disciplina specialistica. Possono derivarne i più grotteschi equivoci, come quello, ad esempio, di sancire, nell’àmbito accademico, in quello della cultura militante e sul piano editorial-giornalistico, la presenza di “esperti” in pensiero negativo e in dialettica, allo stesso modo di certe università americane che dispongono di docenti di poesia.

    Il giovane Marx ha giustamente affermato che la negazione della cultura come sfera separata è il primo passo verso la riconquista dell’unità perduta. Se questo è l’ideale regolativo e, nella misura in cui le basi delle società classiste saranno scalzate, anche l’ideale costitutivo, verso cui tendiamo come marxisti e come comunisti, proprio la dialettica ci insegna la necessità di mediare questo ideale nella dura realtà concreta del nostro tempo. Concludo perciò, esponendo in forma aforistica, e indicando fra parentesi gli autori da cui le ho tratte, alcune considerazioni riguardanti il rapporto tra cultura e politica, la cui importanza è dirimente sia sul terreno della battaglia ideale che su quello dell’impegno civile.
    Parto da un assioma che mi sembra innegabile tanto in linea di principio quanto alla luce dell’esperienza storica che ha segnato l’età contemporanea: “destra e sinistra esistono anche nel deserto” (Mao Tse-tung). Certo, la linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della cultura non si può ricavare meccanicamente dalla linea di demarcazione fra la destra e la sinistra nel campo della politica (cfr. Elio Vittorini), ma esiste: identificarla è un problema di analisi specifica la cui soluzione richiede rigore culturale, consapevolezza storica e senso critico. La terza considerazione ricorda, a proposito del rapporto tra capitalismo e fascismo, che “quel grembo è ancora fecondo” (Bertold Brecht). La quarta indica due punti di non ritorno (i quali, dato il carattere precario delle conquiste democratiche nell’odierno quadro mondiale, si traducono per le forze coerentemente comuniste e per tutta l’umanità progressista in altrettanti compiti da assolvere): la battaglia di Stalingrado (1943) e la realizzazione della bomba atomica cui ha contribuito in misura notevole il fisico italiano Bruno Pontecorvo, emigrato all’inizio degli anni Cinquanta in Unione Sovietica. Laddove è opportuno precisare che il primo evento ha rappresentato nella nostra epoca, dal punto di vista storico-filosofico, lo scontro decisivo fra la destra e la sinistra hegeliane (Ernst Cassirer), mentre il secondo ha aiutato il primo Stato proletario della storia mondiale a modificare i rapporti di forza tra il campo socialista e l’imperialismo anglo-americano. Riconosco che si tratta di presupposti inconciliabili con l’opportunismo, ma da essi non può prescindere, pena l’abdicazione al proprio ruolo intellettuale, chi intenda fare della cultura non un meccanismo che, sublimandola ed eternizzandola, riproduce la società esistente, ma un’arma della critica e, quindi, un fattore organico e operante del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.

    Quello che Ezio Partesana ha ‘lavorato’ con la sapienza e la finezza di un intarsiatore è uno splendido cammeo filosofico-letterario sui limiti della teoresi di Franco Fortini. Circa l’esclusione del ‘sublime’ dal campo della dialettica, sarebbe facile obiettare a Partesana che non mancano nella dialettica – né in quella idealistica (si pensi a Hegel) né in quella materialistica (si pensi a Mao Tse-tung) – le riflessioni che raggiungono le vette del “sublime speculativo”: quel “sublime speculativo che è sempre sintesi di teoresi ed etica, apodissi e retorica, ‘sapientia’ ed ‘elegantia’. Ma sarebbe un esempio di mera pedanteria soffermarsi su questo aspetto secondario, poiché, per quanto si possa legittimamente avanzare qualche riserva verso la sintesi critica delineata da questo acuto esegeta di un grande scrittore, sono ammirevoli, e integralmente da sottoscrivere, la concisione fulminea e la densità concettuale della parafrasi, applicata alla teoresi fortiniana, della undicesima tesi su Feuerbach: “Finora abbiamo solo interpretato Fortini, è venuto il momento di cambiarlo”.

  2. “l’oggetto, che si supera attraverso il soggetto e si chiarisce a sé come tale, non dipende da questo per quel che concerne il suo iniziale darsi, il suo affacciarsi alla ribalta dell’esperienza. Su questo punto fondamentale occorre insistere fino alla sazietà contro tutte le concezioni di stampo soggettivistico: metafisica, teoria della conoscenza, razionalismo formalistico, empirismo ed ogni forma di immediatismo, positivismo e irrazionalismo”: fino alla sazietà!
    L’immediatismo in cui siamo confitti solo da un qualche “esterno” potente e sconosciuto è, pare, improbabile. A meno che il mondo intero non si e ci rovesci. Per ora emigrano da noi, e tanto basta (e ci urta!).

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