Ma l’anima non muore!

di Angelo Australi

In fondo al vialetto di cipressi era apparso il cancello del cimitero, dove sul muro di cemento stava scritto:

MA L’ANIMA NON MUORE!

Bello grande. Scritto con della vernice nera, a caratteri cubitali.

Rutilio parlò di uno scherzo di pessimo gusto, opera di qualche giovane scalmanato che certo non sapeva come impiegare il tempo.
I sassi che selciavano la strada gli entravano nei sandali, Spartaco si fermò a toglierli e suo nonno, per mettergli fretta batté il manico della giannetta sul palmo della mano. Oltrepassato il cancello del cimitero intravide il becchino e gli andò incontro, lasciando il nipote a combattere con quei sassolini bianchi e taglienti come frantumi di vetro.
L’uomo stava scavando presso una fila di tombe, quando Rutilio lo salutò.
«Ho appena finito di scalzare i marmi». Sputò la cicca che si era spenta al filtro. «Prima di scavare la terra preferivo attendere il suo arrivo… So che ci teneva»
La faccia del becchino era accaldata e tremava ogni volta che faceva uno sforzo fisico. Spartaco, solo osservando le smorfie di quell’uomo, estraneo ad ogni forma di sofferenza, ricordò che il nonno spesso aveva parlato della riesumazione dei resti dello zio. Le sue ossa avrebbero dimorato in un loculo che Rutilio, per accontentare i morti e i vivi, ai quali non avrebbe lasciato nessun debito, aveva comprato doppio per starci un giorno anche lui e la moglie.
In quella parte di cimitero le tombe avevano i marmi rotti o divelti e le croci, che fossero di marmo, di pietra o di legno, erano tutte fuori asse, per alcune addirittura sembrava che la terra fosse stata risucchiata nel vuoto di una voragine di cui restava visibile solo una ferita cicatrizzata dalle erbacce seccate dal caldo di stagione. Molti nomi dei defunti non erano più leggibili e forse solo il becchino, ormai vaccinato contro ogni forma di paura, sembrava sapersi orientare.
«É tanto che siamo usciti dalla guerra, eppure mi sembra ieri. Quanti disgraziati ci hanno perso la buccia! Io sono il primo a reputarmi fortunato, se lo racconto oggi è perché l’ho scampata per miracolo.»
Il becchino si passò le mani sulla fronte stempiata, per aggiustare i due ciuffi di capelli che gli crescevano proprio sopra le orecchie.
«Non si sputa sulla fortuna, io dico… Pensi che mi scoppiò una granata a pochi passi. Le schegge fischiavano dappertutto quel giorno, disorientato com’ero mi gettai a terra e chiusi gli occhi. Piangevo come un bambino, e in quella confusione di spari e di scoppi che non sembrava finire mi sono pisciato anche nei calzoni. In quei momenti pensavo solo di morire. Sì, sentivo la morte nell’aria come un odore che portava il silenzio dentro la mia testa. Ero lì, immobile, gli occhi chiusi, aspettavo in preda alla paura più profonda che giungesse la scheggia giusta a farmi a pezzi. Quando ho capito di averla scampata, la gioia era ancora più forte dell’odio che provavo contro chi mi aveva costretto a stare in quel posto di merda, e più forte anche dell’umiliazione di scoprirmi fradicio di piscio al cavallo dei calzoni. Per questo oggi mi arrangio anche a fare il becchino, pur non essendo il massimo che si possa aspettarci dalla vita. Non si sputa più sulla fortuna, quando si è passati da queste situazioni».
«Lei di che classe è?», gli chiese Rutilio.
Il becchino era nato nel 1922. A gennaio del 1922.
«Oggi mio figlio avrebbe avuto un anno meno di lei»
«Sono nato il giorno della Befana, di quarantacinque anni fa», precisò il becchino.
«Lui era nato di settembre… Settembre del ventitré».
«Faccio questo mestiere da almeno dieci anni. I primi tempi proprio non sapevo ambientarmi, alla fine però ci ho fatto lo stomaco. Prendo la vita come quei direttissimi che sfrecciano sulla ferrovia, ai quali non si riesce mai a contare il numero dei vagoni. Dentro a quella velocità sono incuranti di tutto».
Si soffermò a guardare la punta della pala, sputò sulle mani e tolse un po’ di terra dal bordo dello scavo. Aveva alzato la testa per guardare oltre il muro del cimitero, e perso nello sguardo sospeso sul paesaggio collinare, riprese a conversare con aria stralunata.
«I pianti che sono inzuppati in questa terra! Forse qua sotto, a qualche decina di metri, in tanti anni si è formato un lago… Mi dia retta Rutilio: guerra o malattia, gli diamo un valore solo noi perché si continua a vivere. La scalogna è quando ci coprono con due metri di terra troppo presto. Le madri si strappano i capelli, le vedove baciano questa terra così scura che sembra merda, in fondo in fondo però il sole sorge e tramonta ogni giorno. Ieri ho seppellito uno della mia età che era morto di tumore. I medici all’ospedale gli avevano aperto e ricucito lo stomaco senza neppure dargli l’illusione di aggrapparsi a un filo di speranza».
Rutilio supplicò il becchino di sbrigarsi. Dal cancello era entrata una donna con in mano un mazzo di fiori.
«Non stia a preoccuparsi, mi basta un quarto d’ora. Massimo venti minuti. Nei giorni scorsi è piovuto, così la terra non è soda come i mattoni».
Intanto Spartaco si era soffermato a guardare il marmo che stava sulla tomba dello zio, provando una certa impressione a vedere inciso il nome e cognome che lui stesso portava. In quel momento non riusciva ad immaginare cosa avrebbe potuto augurarsi per il futuro, di fronte a quella vita spezzata a causa della guerra. Lui ce l’avrebbe fatta a crescere, a realizzare un’esistenza? Solo sua madre riusciva a tranquillizzarlo contro queste paure. All’esile ombra della croce di marmo di un’altra tomba, il becchino aveva messo il fiasco del vino con il collo chiuso da un bicchiere sporco di ditate. Spartaco intravide tra la terra smossa qualcosa di colorato e spostò due o tre zolle più compatte per capire che si trattava di un fiore di plastica, di una rosa rossa per la precisione, ormai senza più gambo.
«Lo vuole un goccetto di vino?».
Rutilio accennò di no con la testa.
«Lo fa mio cognato e non è poi malvagio».
Il becchino bevve e prima di rimettersi a lavorare fece uno schiocco con la lingua.
«E tu che ci fai? Perché circoli da queste parti?».
«Mi chiamo Spartaco, proprio come lui» disse indicando la lapide.
«Sicché io a questo punto dovrei scavare?»
«È mio nipote, sa tutto di suo zio», disse Rutilio.
«Nisba… madonna vergine! Non funziona così».
Si riempì un altro bicchiere di vino, tenendo il fiasco sottobraccio come una fidanzata. Nel piegarsi in avanti ebbe un attimo di esitazione e il vino finì per traboccare dal bicchiere. Bestemmiò di nuovo, a denti stretti, dicendo che non voleva dei ragazzini tra i piedi.
Spartaco arretrò di uno o due passi, perché lui non gli toglieva gli occhi di dosso.
«Ma è mio nipote! Dio santo, non si tratta di un estraneo».
«Mi ascolti Rutilio… per me è sempre un bambino».
«Non può fare uno strappo?».
«Non è questione», disse il becchino, «sono proprio io che non me la sento di continuare se il ragazzo non si allontana».
Bevve d’un fiato dal bicchiere che parlando con Rutilio aveva finito per coccolarsi in mano.
«Mi dispiace, ma è così. Vado già male io a braccetto con la testa gialla, figuriamoci quello che può provare un ragazzino. Una paura improvvisa poi non si scrolla più di dosso. Ci creda Rutilio, lo faccio nel suo interesse».
«Mio nipote deve restare!».
«Questa è la pala, … e questo il piccone. Se pensa di fare a modo suo, prende e si mette a scavare. Ho così tanto lavoro che mi fa un piacere».
«Avanti, si brighi allora!».
«Perdinci! Mi ci metto con i denti, mi ci metto, … appena il ragazzo se ne sarà andato. Lavoro più tranquillo senza averlo tra i piedi. Me lo sognerei la notte sennò, con quel suo sguardo impaurito. All’ospedale così giovani non li fanno neanche entrare a visitare un malato».
«Pensare che sono stato io a costringerlo a studiare in seminario». Rutilio si era tolto il cappello e lo cincischiava tra le mani, fissando il mucchio di terra appena rimossa. «Lo obbligai quasi, perché era l’unico modo per dargli una posizione senza stare coi fascisti. A lui piaceva dipingere, ma non aveva poi molto le idee chiare. Se mi avesse detto che nella vita voleva fare quello, non so, forse gli sarei andato dietro. Però lui accettava tutto quello che gli proponevo. Era un ragazzo intelligente, solare. Per mandarlo a studiare in seminario abbiamo fatto molti sacrifici, a cominciare da me per finire all’altro mio figlio, il padre di questo ragazzo che vede qui adesso. E quando scoppiò la guerra si capì al volo che prima o poi avrebbero richiamato anche quelli nati nel ventitré. È partito per il fronte quando mancava solo un mese a cantar messa. Questo mi racconta l’assurdità della vita. Meglio prete che essere spediti al fronte. Ma poi non è andata così».
«Su, ragazzo, … allontanati. Ti chiameremo quando non c’è più niente da vedere».
Il becchino aveva già sbarbato la croce di marmo.
Spartaco fissò il nonno, ma Rutilio ormai si era perso a parlare di suo figlio. Si allontanò camminando distrattamente, seguendo con lo sguardo la sua ombra piatta stampata sui sassi, lunga a sottile. Non sapeva in quale parte di mondo mettersi ad aspettare il nonno, e quei sassetti bianchi e taglienti del vialetto ricominciavano ad entrargli nei sandali e a pungerlo come se ci fossero degli spilli.
«Spartaco! …».
«Sì, nonno?».
«Mi raccomando, resta nei paraggi. Al momento che me ne vado vorrei trovarti subito».
«Va bene».
Il suo sguardo era stato nuovamente conquistato dai ricordi che si impastavano a quella terra asportata con cautela.
Nell’attesa di sentirsi chiamare Spartaco pensò di intrattenersi con un gioco, ma quale, in un cimitero? Dentro la sua mente era uno sciabordio di fatti liquidi che vorticavano intorno al nodo di tristezza aveva finito per assalirlo. Solo questo. Nessuna energia. Le acque si rifrangevano portando i ricordi del nonno alla deriva, mentre la quiete che c’era nel cimitero diventava sempre più angosciante. Sentiva di non poter fare niente per aiutarlo e sinceramente, adesso, a mente fredda, lo impauriva anche solo l’idea di aver rischiato di assistere all’esumazione. Alla fine anche la possibilità che lo zio non avrebbe fatto il prete se le cose fossero andate in modo diverso, detta dal nonno adesso gli sembrava una menzogna, perché lui si era sempre vantato con orgoglio di questa sua vocazione religiosa. La scalogna di quest’uomo fregato dalla guerra appena un mese prima di cantar messa era in sintesi il nocciolo magico dell’unica figura eroica della sua famiglia, uno che avrebbe potuto fare perfino il prete o l’artista e alleviare la sofferenza dell’umanità. La coincidenza del suo nome con quello dello zio mise doppiamente in crisi Spartaco, perché nonostante la sua morte prematura i giudizi nel paese finora avevano sempre confermato la credibilità dei racconti del nonno. Spartaco aveva visto solo un paio di foto, ma i lineamenti dei loro volti se li avesse sovrapposti avrebbero coinciso in tutto e per tutto. La fronte alta, lo zigomo un po’ marcato, la protuberanza del naso e la fossetta sul mento, tranne il colore dei capelli tutto sembrava coincidere: lui del colore del grano maturo, lo zio sul biondo chiaro, che però dalla foto in bianco e nero appena si percepiva. Il confronto con questo personaggio del quale portava il nome gli aveva sempre pesato e fatto paura, perché non sembrava possibile che a una vita così ricca di talento non fosse stata concessa almeno una possibilità di costruire qualcosa di importante. C’era stato un momento in cui addirittura Spartaco aveva cominciato a pensare che sarebbe morto anche lui a ventidue anni, disperato chiedeva certezze a sua madre: ora non c’è più la guerra, ma si può morire ugualmente a vent’anni?, le chiedeva. Sua madre allora tentava di distoglierlo da quei pensieri affermando che la natura ha sempre un suo punto di equilibrio per controbilanciare sfortuna e fortuna. Altre volte lo rassicurava dicendo che come per gli individui ci sono dei periodi tristi e dei periodi felici, così accade anche per le famiglie, Spartaco sicché poteva stare tranquillo, visto che la loro quota di disgrazie era già stata pagata da un pezzo. Lei rideva e Spartaco finiva per tranquillizzarsi, anche se poi immaginare cosa avrebbe fatto da grande era difficile come pensare alla morte dello zio, del quale aveva ereditato il nome.
Dietro al cancello trovò la fontana e si avvicinò per bere. Aprì il rubinetto, ma l’acqua che uscì era calda come il piscio. Nell’attesa di far scorrere tutta quella ristagnante dai tubi, posò lo sguardo sulla bottiglia adagiata sotto la cannella. Dentro vide una forma che annaspava a pelo d’acqua e si ritrasse di scatto, come impaurito. Gli uscì appena un gemito di sorpresa, mentre indietreggiava continuando a guardare l’essere che si muoveva freneticamente dentro la bottiglia. Spartaco si guardò intorno in cerca di aiuto, anche se un po’ si vergognava di distogliere Rutilio mentre si confessava con il becchino. Il sudore si stava ghiacciando, mentre intirizzito continuava a fissare la bottiglia. Il sole era ancora alto in cielo, così chiuse le palpebre. All’improvviso vide come un bagliore che si restrinse sulla visuale del cielo senza nuvole. Era solo un mondo non più grande di un chicco di grano, quello con il quale doveva confrontare il proprio futuro, dove ci sarebbero state seminate dagli uomini tante menzogne per modellare la realtà con la proiezione dei desideri. America, Russia, Inghilterra, i due poli, l’equatore, tutto stata racchiuso in un piccolo gesto scosso da un’improvvisa paura, un rimorso che aveva velato anche gli occhi di Rutilio nel tentativo di convivere con le proprie bugie. Il brillio fastidioso della luce del sole aveva finito per mangiarsi tutti i colori.
Spartaco avrebbe urlato, se solo la paura non si fosse impadronita dei suoi stati d’animo. Si azzardò a fare un passo avanti, ma era un gesto incompiuto, gli tremavano le gambe e le braccia, il cuore batteva all’impazzata e un dolore saliva dal petto fino a chiudergli la gola, quasi a togliere il respiro. Tutto a un tratto aveva una gran sete, sentiva la lingua riarsa e la gola prigioniera di un costante pizzicore. I cipressi erano un’antica muraglia dove una moltitudine di passerotti faceva il nido e la luce non disturbava il sonno dei morti.
Poi una mano lo afferrò da dietro le spalle e urlò tutto il suo malessere interiore.
«Che c’è, … vedi gli spiriti in pieno giorno?».
Una donna spostandolo aveva tolto i fiori e lavato il vaso di cristallo con l’acqua che scorreva dal rubinetto. Spartaco aspirò tutta l’aria che gli era possibile accogliere nei polmoni, poi cominciò a balbettare qualcosa rivolgendosi a lei.
«Lì-lì… de-dentro, che-che ci-ci sta, lì-lì de-dentro la-la bo-bottiglia?»
«Ma niente, benedetto ragazzo!»
«Tu, tu gua-guardaci allora, faffai pre-presto!»
La donna prese in mano la bottiglia e ci guardò dentro attraverso la trasparenza del vetro. Si picchiettò la fronte con due dita e rovesciò in terra il contenuto, poi con le mani bagnate si massaggiò il collo grasso e tozzo.
«Hai visto? Era solo una lucertola»
«Una lucertola?!»
«Esatto, … proprio lei»
Allora vinse la paura e prese quella povera bestia dalla coda per depositarla in un luogo più asciutto. La lucertola, piccola e indifesa, scodinzolava con dei movimenti lenti e impacciati, con il corpo ancora gonfio di acqua.
«E ora, morirà?»
Il tremito adesso si era calmato, ma sentiva bruciore alla faccia.
«È una lucertola, … mica un essere umano» disse la donna. «Chissà quante ne avrai uccise o tagliato la coda per divertimento, perché fai codesta faccia da funerale? Ve’ là, è già tutta arzilla»
«Com’è buffa, sembra ubriaca»
«Voi ragazzi oggi vi impaurite quando schizza un moscerino nell’occhio. Ecco il guadagno a farvi crescere così in fretta»
Mentre la donna aveva finito per parlare a se stessa, la lucertola era sparita tra i ciuffi d’erba che crescevano lungo il muro. Dopo un profondo respiro Spartaco si sentì leggero, leggerissimo, e senza salutare la donna cominciò a correre verso l’uscita del cimitero. Negli ultimo tempi Rutilio gli aveva detto svariate volte che la morte va presa come un sentimento di paura che arricchisce la vita, e forse solo per questa sua idea voleva farlo assistere all’esumazione della salma di quello zio che non aveva mai conosciuto. Anche se lo aveva mistificato in tutte le salse, per nascondere la necessità di evitargli prima il fascismo e poi la guerra, Spartaco poteva perdonare perché glielo faceva sentire più umano. In fondo il nonno, con la sua falsa versione dei fatti, non aveva che accentuato la mostruosità del destino capitato a quel figlio. Gli aveva detto spesso, senza riuscire a comprenderne il significato, che la vita è una strada dove si cammina con dei pesi legati ai piedi, Spartaco però non aveva mai immaginato fosse anche una battaglia serrata contro le proprie illusioni.
Arabeschi di luce filtravano dai cipressi battendo sulla nuda terra. Uscito dal viale di accesso si ritrovò sotto la cappa di un cielo azzurro che si stava squagliando su tutta la terra. Incontrò un fosso e lo saltò a piè pari, e là dove terminava il campo di granturco non ancora maturo, una quercia gigantesca aveva finito per colpire il suo sguardo. Cominciò a fischiettare una canzone di Lucio Battisti che andava di moda nell’estate del ’67, colpendo le zolle di terra e immaginando di star giocando una partita di calcio. Pensò per un momento anche a Rutilio, il suo grande nonno, che non trovandolo si sarebbe di colpo impensierito. Poi chiuse gli occhi, immaginando di volare verso quella quercia come un fringuello. Decise di non tornare indietro, verso il cimitero, ma di aspettarlo lì. Vista in televisione o al cinema la morte non era mai banale come in bocca al becchino, e neanche nei fumetti che leggeva la fine di un’esistenza scadeva mai al puro calcolo dei vivi. Rutilio invece era entrato in una fase che ci pensava in ogni momento della giornata. In ogni frase, ogni ricordo, quella dannata parola ci finiva dentro, così qualche volta se ne usciva con delle versioni completamente discordanti da quelle tante storie raccontate in passato. Ma su tutto ultimamente cambiava la versione dei fatti, come se non gli restasse quasi più tempo per fare pulizia.



BREVE NOTA.
MA L’ANIMA NON MUORE! è uscito in BUGIE (Avagliano Editore, 2004) una raccolta che conteneva dieci racconti di narratori italiani, a cura di Idolina Landolfi.
L’acquerello con le canne di bambù è di Konrad Dietrich, realizzato appositamente per questo racconto.





















 

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