di Eros Barone
Sono convinto che Genova sia la più bella città del mondo, ma, come tutti coloro che, essendoci nati e avendoci vissuto, hanno assorbito l’indole ironica e riservata dei suoi abitanti, sono così geloso di questa certezza che non vorrei condividerla con nessun altro. Nondimeno, come si fa per quei libri che abbiamo letto e che ci hanno rivelato il mondo e noi stessi, vorrei chiarire le ragioni che giustìficano, nei confronti di questa città, una passione tanto insostituibile quanto inesauribile.
Amo Genova perché, pur avendo una fisionomia così particolare, riassume in sé qualcosa di tutte le città italiane: ha le calli come Venezia, un lungomare come Napoli e Bari, colline come Ancona, monumenti come Roma e Firenze, animazione come Bologna, industrie come Milano, quartieri ottocenteschi come Torino. È come se tutta l’Italia, e tutte le epoche della storia italiana, si fossero raccolte attorno al centro storico di Genova: il nuovo e l’antico, il sud e il nord, l’islàm e l’occidente, il mare e i monti, il clima, che è mediterraneo, e il gruppo etnico, che è ligure. Così come è ligure e genovese perfino il senso più moderno e più duraturo del nostro Risorgimento: l’idea repubblicana.
Orbene, poiché, nonostante tutto, è inevitabile che ciò che suscita in noi un senso di amore e di felicità non si esaurisca in un godimento esclusivo e puramente individuale, ma ci spinga invece a farne compàrtecipi gli altri, mi permetto di suggerire, a chi intenda infràngere quel luogo comune per cui Genova è “città bellissima, da scoprire, ma che per una ragione o per l’altra non si scopre mai”, il giusto itinerario e il giusto momento per cómpiere questa scoperta.
Quando è suonato il mezzogiorno, si salga a Castelletto, percorrendo le antiche vie lastricate che collegano il centro di Genova con la circonvallazione a monte. Ed ecco che, raggiunta la spianata di Castelletto, si aprirà, quasi per incanto, al visitatore incrèdulo un panorama immenso formato dai tetti di pietra grigia e da un intreccio fittissimo di piani obliqui che si intèrsecano, come nella geometria di un quadro cubofuturista, in tutte le direzioni possibili. L’occhio potrà ora seguire verso il basso la linea di quel percorso che, a grado a grado, aveva condotto il nostro visitatore verso l’alto: tetti sopra tetti, alternati da giardini pènsili e delimitati, fra piazza delle Fontane Marose e piazza della Meridiana (è una tipica eleganza della odonomastica genovese l’inserire la preposizione articolata tra l’attributo topografico e la specifica località cui esso si riferisce): delimitati, dicevo, dalla mole rosacea dei palazzi rinascimentali di via Garibaldi; i campanili gotici delle chiese del centro medievale – fra i quali svetta, più imponente di tutti, quello della cattedrale di San Lorenzo – presidiati dai grattacieli novecenteschi, e laggiù, ancora più in basso, oltre l’intrico metallico delle gru e delle navi, il porto e, ancora più in là, il mare. Quando l’aria è tersa, di cristallo, si ha l’impressione che la città ci venga incontro come un’entità viva e pulsante, quasi tàttile, e che, stendendo le mani, ne possiamo raggiungere i tetti e accarezzare le superfici levigate, dove splende il grigio lucente dell’ardesia.
Se poi il nostro visitatore, coniugando l’idealismo della vista con il materialismo dell’olfatto, capterà gli odori penetranti della cucina ligure che si effondono dalle case ove si consuma il pasto di mezzodì, converrà con noi che Genova non è mai triste, neanche col cattivo tempo, poiché l’intimità raccolta e la vitalità segreta dell’esistenza che si svolge nelle sue case sembra risarcire gli abitanti della loro, spesso ingrata, fatica quotidiana, esattamente come ìndica il motto riportato sull’architrave di un palazzo di corso Solferino: “Parva labore quies”.
città bellissima e di curiose contraddizioni: città dalla storia immensa eppure di rattrappito provincialismo nel raccontarla, con le guide turistiche che mostrano la simbolica casa di Colombo ma non sanno che la Spagna. banche, economia e imperatori erano frutti genovesi; città dalla splendida cucina ma che non osa assaggiare nulla che sia fuori dalla sua tradizione; città dove dimentichi di avere la macchina e passi la giornata a percorrere i vicoli per la spese e il sottoripa per le acciughe ma assalita da orde di turisti pusilli scesi da città galleggianti ; città accogliente, con gli ultimi residui di centri sociali insieme a baroni d’antan che vivono della rendita di immensi palazzi che lasciano sfitti per tener alti i prezzi; città che era antica e non è più moderna, coi vecchi colonnelli dalemiani intruppati con la ndrangheta e la scienza affidata a ferrivecchi cingolati che solo un grillo poteva sponsorizzare; e i vecchietti cui insegnavo Aikido al Dojo Giustiniani sparsi come prescinseua caduta dalle focaccie dei turisti, preda delle pattuglie dei giovani bordighisti che vendono da cent’anni la stessa copia del giornale di partito.
Solo una precisazione sui “giovani bordighisti di Genova”. Si tratta di Lotta Comunista (LC), un’organizzazione politica nata settant’anni fa, tra Savona e Genova, per iniziativa di Arrigo Cervetto e di Lorenzo Parodi. Oggi LC è il principale rappresentante del trotsko-bordighismo nella tradizione politico-ideologica del nostro paese. Non deve infatti sfuggire che tale organizzazione, sfruttando gli spazi aperti dalla dissoluzione del PCI e del campo socialista, spacciando la propria formale ortodossia per autentico comunismo e in realtà facendo coincidere quest’ultimo con l’antistalinismo, ha conosciuto in questi ultimi decenni un notevole sviluppo organizzativo nei luoghi di lavoro e una presenza non marginale nei quartieri popolari di alcune grandi città, nella CGIL, nelle scuole e nelle università.
Di fatto, LC è il gruppo “comunista” più organizzato e più articolato che esista oggi in Italia. A Genova LC detiene, su un piede di parità con il PD e in un rapporto consociativo con esso, importanti ruoli dirigenti nelle organizzazioni del movimento operaio e della sinistra (CGIL, CULMV, Cooperative) e controlla organizzazioni collaterali che, come “Logos” e “Genova solidale”, operano sui terreni della politica culturale e della politica di integrazione sociale. Sul piano nazionale, inoltre, opera da parecchi anni la casa editrice di LC, la cui vasta produzione abbraccia sia le opere dei classici del socialismo scientifico sia testi di analisi storica, economica e politica. Nella mia esperienza personale di fondatore e dirigente della Sezione Universitaria “Lenin” del PCI genovese, esperienza vissuta negli anni Settanta, un episodio centrale fu lo scontro tra LC, da una parte, e il PCI, la FGCI e la sezione universitaria “Lenin”, dall’altra: uno scontro denominato da LC come “la battaglia di Genova” e che LC ritiene (in parte a ragione) di aver vinto. Ma che cos’era allora il PCI, che cos’era la FGCI, molto meno la “Lenin” (fortemente legata alla tradizione secchiana e staliniana), se non espressioni della egemonia ideologica revisionista e della politica riformista togliattiane-berlingueriane? Ciò che intendo dunque sottolineare in queste brevi, ma essenziali note, è il fatto che verso la crescita di una forza reale, articolata e radicata, come LC non è più possibile assumere un atteggiamento ironico di sufficienza e di sottovalutazione.