di Ennio Abate
Il 17 giugno scorso è morto improvvisamente a Lodi mio cugino, Antonio Cosimato. Era nato nel 1940 e si era formato, come me, a Salerno. Aveva studiato all’Istituto Genovesi, diventando geometra. Sposatosi con Rita Cerenza, studentessa del liceo classico Tasso, si era poi trasferito dal 1977 a Lodi e, da autodidatta, si è poi dedicato alla pittura, sua segreta passione fin da giovane, praticandola assiduamente negli anni del suo pensionamento, ben accolto e stimato in vari circoli culturali di Lodi e di Milano, dove ha fatto diverse mostre (qualcuna anche a Salerno).
La vita scorre e, quando meno te l’aspetti, s’arresta. E riprende poi coi vuoti che la morte lascia ai vivi. Tra i pensieri che mi sono venuti in questi giorni su Antonio, vorrei riferirne tre, che forse potrebbero chiarire di più l’importanza della sua ricerca pittorica.

1. L’elegia (salernitana)
Antonio ha dipinto temi definibili oggi “tradizionali”: barche e casette ammucchiate su un mare tranquillo, ritratti di popolani, figure femminili e, a volte, ha copiato con spirito religioso delle icone russe. Pur non avendone mai parlato con lui, credo che il suo stile naif e delicato (soprattutto nei suoi acquarelli) sia stato ispirato soprattutto dalla visione elegiaca dei pittori di fine Ottocento e primo Novecento; e, in particolare, anche di quelli salernitani o cosiddetti “costaioli” (della costa amalfitana): Raffaele Tafuri, Gaetano Esposito, Gaetano d’Agostino, Pasquale Avallone, Guglielmo Beraglia, Olga Schiavo, Clemente Tafuri. Erano gli unici, del resto, ad essere conosciuti e ammirati come artisti eccellenti nella Salerno dei nostri anni giovanili. (Ricordo di aver visto esposto, attorno al ’55-’58, nella vetrina di negozio che si trovava di fronte al Palazzo di città in via Roma e con una raffinata cornice di legno, un grande ritratto ad olio dai colori forti e a chiazze: il volto di una bella donna, probabilmente del pittore Clemente Tafuri).
Questo immaginario pittorico – e a quei tempi non c’era neppure la TV a distrarre – pareva trovare un riscontro reale in pezzi di paesaggio attorno a noi – le spiagge di Salerno, quelle della costiera amalfitana, il Golfo visto dalle colline – in apparenza ancora preindustriale (ma per noi giovani, non per chi conosceva già allora la storia di quel territorio: a Fratte, ad esempio, fin dall’Ottocento erano sorti opifici tessili).
Antonio, estraneo e scettico com’era verso l’arte più moderna o d’avanguardia venuta dopo, ad esso è rimasto affezionato; e la sua pittura questo mito elegiaco, legato alle emozioni della sua infanzia e giovinezza salernitane, ha voluto caparbiamente conservare e curare.
2. La storia familiare
Finiti i bombardamenti, le nostre famiglie erano tornate dalla campagna di Casalbarone, dove si erano rifugiate, a Salerno. Le prime immagini luminose della città e del mare noi bambini le avemmo dalle finestre e dai balconi degli appartamenti: in Via Pio XI quello di zi Vicienze Cosimato; e in Via Sichelgaita quello della mia famiglia. Che si trovavano agli inizi dei pendii di due colline separate da un “vallone”. Le colline di Salerno erano ancora intatte e foltissime di alberi e, per il silenzio attorno, noi bambini riuscivamo perfino a comunicare a voce gridando.
Malgrado la povertà in città (il pane, razionato, si acquistava con la tessera) e i lutti freschi (in una stanzetta dell’appartamento zi Vicienze ospitava sua madre, nonna Fortuna Barone, e una sua sorella, Rafiluccia, rimasta vedova del marito e orfana del figlio, giovane soldato morto durante il bombardamento degli Alleati nel 1943), il clima che si respirava a casa dei Cosimato era più sereno e caloroso rispetto ad altre famiglie.
Zi Vicienze veniva da una famiglia di raffinati artigiani del legno e, pur essendosi dovuto adattare a dirigere i lavori di una segheria vicino alla chiesa del Carmine, viaggiava, andava spesso a cinema – era un ammiratore di Totò – e controllava bene un fondo di tristezza – («Pazienze, ricette zi Vicienze») – sotto un velo d’ironia e pacatezza. Anche sua moglie Barbara (zi Rine) era diretta nei giudizi, non bigotta o insincera come tante signore di città. E nella casa dei Cosimato c’erano tante cose attraenti per me ragazzo e che da noi arrivarono solo più tardi. Lì vidi per la prima volta un grammofono con la puntina di diamante e dischi di musica classica a 78 giri (non so se in gommalacca o già in vinile). E tra quei dischi c’era il «Fidelio» di Beethoven, che allora mi faceva pensare solo a un nostro zio molto burbero che portava quel nome.
Sotto Natale poi zi Vicienze costruiva in un angolo del corridoio un presepe davvero più bello di quello che cercavo di fare io. C’era persino una piccola cisterna-laghetto, alimentata da uno spruzzo d’acqua vera, in cui le paperelle ondeggiavano e non rimanevano immobili sul finto lago di carta stagnola argentata del mio presepe. C’erano anche uova pasquali di cartone con animali colorati, la bibliotechina – (mi feci prestare «Pian de la Tortilla» di Steimbeck, uno dei primi Oscar Mondadori) -, la soffitta con fogli di compensato che noi ragazzi modellavamo con il seghetto da traforo. E soprattutto lì, appena entravo di corsa, potevo buttarmi a sfogliare il «Corriere dei piccoli» e «La Domenica del Corriere» con in prima pagina le illustrazioni di Achille Beltrame e Walter Molino. Vidi per la prima volta persino «Vie nuove», la rivista dei temutissimi “comunisti” (nell’ambiente parrocchiale che frequentavo)che zi Vicienze, invece, acquistava tranquillamente da un operaio della sua segheria, Tanino, morto poi a Baronissi nella palazzina che vidi sbriciolata dal terremoto del 1980.
Ho voluto soffermarmi sul clima cordiale e accogliente della famiglia Cosimato, perché da quello vennero molti incoraggiamenti alla mia curiosità di ragazzo ma, secondo me, giovò parecchio anche alla fantasia di Antonio bambino, che poi ha saputo recuperare in pittura da adulto.
3. L’artista e la realtà
Sbalzato per lavoro al Nord, Antonio ha seguito vie diverse dalle mie, ma dagli anni ’90, in cui ci siamo ritrovati e poi abbiamo potuto ripensare alle quasi simili difficoltà incontrate nelle nostre carriere scolastiche come figli di famiglie del dopoguerra da poco inurbate a Salerno, sempre ci ha unito quel richiamo al mito della nostra infanzia e della nostra giovinezza, sul quale sia io che lui abbiamo continuato a scavare. E non dovrebbe apparire fuori luogo, in questa commemorazione di mio cugino, ricordare che nella sua vita Antonio ha potuto dedicarsi intensamente alla pittura soltanto per alcuni decenni. Gli altri, come capita a tanti, avendo dovuto spenderli nel lavoro obbligato. E, cioè, non organizzato per la soddisfazione dei nostri reali bisogni ma subordinato agli interessi economici e politici di minoranze privilegiate.
Mi sento anche di sottolineare che molte energie gli sono (e ci sono) state sottratte, perché nella società di massa anche il tempo in apparenza “libero” dal lavoro obbligato, libero non lo è affatto, essendo i nostri pensieri e le nostre emozioni erose e sempre più controllate in modi subdoli dalle nuove tecnologie e dai mass media.
Tanto più valore ha, perciò, lo spazio – minimo quanto si vuole – di libertà che, seguendo la sua vocazione artistica, Antonio ha saputo difendere nella scelta dei colori, nella pennellata, nella stessa fedeltà ai temi a lui cari, anche se “tradizionali”.
Riferimenti
https://www.facebook.com/antonio.cosimato.1238
http://www.antoniocosimato.com/wp/
https://www.instagram.com/antonio_cosimato
Ho studiato a Salerno dal 1963 al 1967 e i tuoi racconti dove improvvisamente appare una via, il lungomare, mi emozionano. E prima: tu sai scrivere!
Grazie Michele…
Grazie mille Ennio per le bellissime e toccanti parole spese per mio papà. So quanto tu fossi affezionato a lui e alla mia “tenacissima”nonna Barbara (zia Rina perché all’anagrafe era Barbarina),a mia zia Fortuna e a mio nonno Vincenzo che morì nel 1972 qualche mese prima che io nascessi. Un forte abbraccio!
@ Barbara
Chella [Nannìne] ere na ricamatrice. Faceve e parate de liette re spuse pe l’Americhe.
A famiglie soie nunn’ere miche na famigie “e terre”.
O nonne ere cape d’arte cu Angrisani e cummannave 50-60 persone.
A nonne a chiamavane “a maestre”. Ere sarte e teneve e figliole ca ‘mparavene o mestiere. Veneva ra famiglie Barone. Erene tutte signuri, pariente e De Donato. Nunn’erene “e terre”. E pure e figli.
Zi Filippe ere ‘ntagliatore. A nonne l’aveve mannate a scola a Napule, mica a Salierne. Chille faceve cert’i porte ca parevene merlett’.
A nonne ere nate o 1864 e murette a 99 anne. Parlave e Garibbalde e ae piccirill’e, raccuntave o cunte ro cece. Aveve avute 6 figli.
O primme ere Filippe.
A seconde ere Rafiluccie (ca s’ere spusate nu cugine; e o figlie, Tanine, murette vicino o ponte e fierre sotto o prime bumbardamente. Ere o 21 giugne 1943, o iuorne e San Luigie. Chille e facettere ascì da caserme sott’e bombardamenti. Ca ere muorte, zi Vicienze o sapette pe case. Steve cercanne ospedale dopp’ospedale. Po truvaie une ncoppa a nu trene e chiste dicette: Tenite na fotografie ro nipote vuoste? Zi Vicienze ngia facette verè e remanette accussì. Zi Rafiluccie nun putette avè manco o cuorpe ro figlie.
Ie a notte me l’ere sunnate. Me riceve: nun cercateme chiù. E me faceve verè tutt’o sanghe ca asceve ra spalle sinistre.
Quanne zi Vicienze iette all’obbitorie, nunn’o putette manche riconosce, pecché erene scappate da caserme senza numere e matricole e po e cadavere s’erene già gonfiate.
A terze ere Teresine.
Quarte Nannine.
O quinte ere zi Vicienze.
E l’urtima ere Assuntine.
(da una testimonianza di zia Rina da me raccolta nel 1977)