Prima lettura. 42 stralci miei
a cura di Ennio Abate
Questa lunga intervista al filosofo francese Balibar (in originale QUI ma accessibile in italiano aiutandosi con Google traduzione) è la riflessione più profonda e chiara che ho finora trovato sulla tragedia di Gaza. Andrebbe letta interamente ma penso sia utile pubblicare questi 42 stralci da me scelti per una lettura anche a lampi comunque importante. Preciso pure che la prima segnalazione l’ho avuta dalla pagina FB di Giso Amendola.
1. c’è questo sentimento di rabbia e disperazione, questo sconvolgimento di tutte le nostre certezze che il nome Gaza suscita
2. non siamo lì, a Gaza, sotto le bombe e davanti ai carri armati, a vedere le nostre case rase al suolo, i nostri bambini morire di fame, i nostri feriti finire negli ospedali e i nostri morti seppelliti nella nuda terra. Possiamo solo pensarci notte e giorno, soffermandoci sul nostro orrore.
3. quali pensieri veramente necessari abbiamo ancora, quando diciamo Gaza? Credo che dobbiamo ammettere che sarà sempre troppo poco e in contrasto con l’enormità del crimine. Un crimine di cui siamo anche parte, non dimentichiamolo mai.
4. “quanto vale il pensiero di fronte al genocidio ?”. Il pensiero vale ciò che può: niente o qualcosa a seconda di come misura la sua miseria e le sue esigenze.
5. solo i servitori e i portavoce dell’assassino, o “amici del popolo ebraico” per i quali la verità conta meno della cieca solidarietà comunitaria, persistono nel negarne la realtà. A prezzo dell’abiezione
6. Gaza non è un genocidio “possibile”, da discutere, da venire e da impedire: è un genocidio in corso, compiuto sotto i nostri occhi con inflessibile determinazione e senza una vera opposizione, di cui solo la soluzione finale rimane incerta.§
7. Gaza non esiste più , mentre due milioni di spettri vagano tra le sue rovine, privati del cibo, spinti da un punto di sterminio all’altro
8. I genocidi non si verificano tutti i giorni e non ovunque, ma ce ne sono altri oltre a Gaza, nel passato e persino nel presente: in Sudan, per citarne solo uno, il cui occultamento, per molti aspetti, è insopportabile quanto la rivelazione di Gaza, ed è parte della stessa catastrofe (tornerò su questo). La pulsione di morte percorre il mondo, seminando devastazione e cadaveri.
9. ogni genocidio – che espressione: ogni genocidio! – ha caratteristiche storiche, politiche e morali uniche, e sono queste che devono essere “pensate”. Ciò che rende Gaza unica, e che provoca in noi la sensazione di un’insopportabile contraddizione, non è solo il fatto che il genocidio sia stato perpetrato da ebrei che (almeno per alcuni) sono i discendenti delle vittime della Shoah – il genocidio dei genocidi. Ma è il fatto che quest’ultima, dopo che la sua memoria è stata istituzionalizzata, viene strumentalizzata per preparare, motivare, organizzare e ottenere l’accettazione di Gaza. | ancora una volta, la storia viene tagliata in due da un genocidio, le cui conseguenze depongono il prima da cui tuttavia procede.
10. il genocidio nazista che ha preso di mira gli ebrei europei (ma anche gli zingari e gli “anormali”) è stato possibile solo attraverso l’importazione in Europa dei metodi di concentramento e sterminio che gli europei avevano messo in atto e perfezionato nel resto del mondo (e in particolare in Africa) fin dall’inizio della colonizzazione […]Se poi ci rivolgiamo a Gaza, forse non è arbitrario leggervi una configurazione simmetrica, in cui un’invenzione europea, che esprime alcune delle più inveterate tendenze distruttive della sua politica, si ritrova esportata in Medio Oriente, dove contribuisce a perpetuare, rifondare ed esacerbare il colonialismo. ]
11. la colonizzazione della Palestina è un “momento” intrinseco nella storia dell’imperialismo europeo (inaugurato dall’Impero britannico, secondariamente da quello francese, e continuato fino ad oggi dalla stretta associazione di Israele con le potenze “occidentali”, che gli forniscono finanziamenti, armamenti e protezione diplomatica).
12. È certo che il sionismo, fin dai suoi padri fondatori (Herzl, Weizmann), è sia un nazionalismo tipicamente “europeo” (dalla parte delle nazionalità oppresse) sia un “orientalismo” intriso dell’idea della superiorità della cultura europea sulla barbarie dei popoli orientali, e che questa ideologia ha dato libero sfogo al “messianismo laico” dello Stato di Israele e alla sua volontà di potenza tecnologica e militare
13. l’idea di un’impresa di colonizzazione al servizio di una “metropoli collettiva” euroamericana è una finzione che ha il grave inconveniente di minimizzare il modo in cui l’Europa ha “vomitato” i suoi ebrei | la rischiosa simmetria che abbozzo dal confronto tra i due genocidi – Shoah, Gaza – e la “genealogia” che li lega contiene poi una lezione generale, rilevante per la filosofia della storia: ogni genocidio è un evento singolare, carico di determinazioni “locali”, ma anche immediatamente di una portata globale – sarei tentato di dire “cosmopolita” se questo termine non evocasse, nella nostra cultura, un ideale di civiltà piuttosto che una marcia della morte.
14. |Gaza è un evento globale, che non lascerà nulla di immutato nei nostri pensieri e nelle nostre relazioni reciproche. È spaventoso che questo cambiamento abbia come origine e come prezzo lo sterminio dei palestinesi e la distruzione della Palestina.
15. la complicità attiva o passiva, “rivendicata” o “subita” dei cittadini israeliani (o della loro maggioranza) nel genocidio palestinese (senza il quale non avrebbe potuto essere compiuto, nemmeno dopo il trauma collettivo del 7 ottobre 2023) genererà fratture sempre più profonde all’interno della “diaspora”. E poiché quest’ultima non può tornare alla concezione secolare di una comunità esiliata (perché qualcosa di irreversibile è accaduto nel processo di trasformazione di Israele in uno Stato del popolo ebraico e che ora si sta trasformando in una catastrofe), sono convinto che la nozione stessa di “popolo ebraico” sia entrata in crisi ed è esposta alla dissoluzione.
16. Resistendo sulla loro terra e con essa sul rullo compressore della colonizzazione, rifiutandosi di lasciarla anche quando è diventata un cumulo di rovine, un “deserto” di campi sradicati dai loro ulivi e svuotati delle loro mandrie, i palestinesi difendono passo dopo passo la sostanza stessa della loro identità storica che precede la colonizzazione e che le sopravvive, continuano a impedire l’annientamento del loro popolo. Mahmoud Darwish ha scritto: ” E la terra si trasmette come la lingua “. Questa poesia viene recitata ogni giorno dai suoi compatrioti.
17. da 77 anni si sta formando e perpetuando un popolo palestinese frammentato . Questo popolo non ha una “rappresentanza” statale, ma ha voce e visibilità. È indebolito dall’eterogeneità dei rapporti che intrattiene con la terra di Palestina da difendere, ma d’altra parte è al di fuori della portata delle decisioni dello Stato di Israele, il che è un fatto politico fondamentale.
18. “non ridurre la questione palestinese alla sua dimensione umanitaria”, cioè non identificare i palestinesi esclusivamente con la condizione di vittime. Su questo possiamo essere d’accordo. Ma non possiamo dire (a mio avviso) che la dimensione umanitaria sia assente o politicamente secondaria nella situazione attuale. Un genocidio è per definizione un collasso dell’essere umano e al tempo stesso un grido di angoscia. Gli abitanti di Gaza proclamano il loro urgente bisogno di aiuti umanitari che Israele deliberatamente proibisce loro di fornire, al fine di sterminarli ed espellerli.
19. sono esclusi interventi militari dissuasivi contro l’esercito israeliano (cosa che non è accaduta durante la Seconda guerra mondiale, né in Bosnia, né in Ruanda): da chi verrebbero? Quali conseguenze avrebbero? E che singole operazioni simboliche (che saranno immediatamente etichettate come terroristiche, ma potrebbero rientrare in quella che lei chiama “altra violenza”) come l’attacco di ieri a Gerusalemme, dimostrano una capacità individuale di resistenza e di sfida, ma non possono cambiare nulla nel corso degli eventi. |
20. Al genocidio in corso non si risponde con programmi di pace, ma con un uso giusto (legittimo, sufficiente, mirato) della forza. Gli Alleati sapevano che lo sterminio industriale degli ebrei era iniziato nelle camere a gas. Avrebbero potuto bombardarli e non lo hanno fatto. Questo fa parte delle disastrose scelte storiche di cui ancora subiamo le conseguenze. Il problema con Gaza (ritorno sempre su questo punto) è che non c’è forza disponibile per sbarcare (nonostante la Flottiglia) o per bombardare Tel Aviv (solo gli Houthi ci stanno provando, simbolicamente, il che costerà loro caro). Un'”altra violenza”, cioè una forza sufficientemente eterogenea , è effettivamente “necessaria”. Deve essere trovata e messa in atto. |dobbiamo ragionare con cautela, perché ci troviamo in un campo minato. In primo luogo, dobbiamo stare attenti che la qualificazione di terrorismo non sia oggetto di manipolazione statale che implichi marchi legali o pseudo-legali volti a collocare alcuni nemici delle potenze egemoniche nella posizione di “fuorilegge”. Questo è ciò che accade con l’inclusione di questa o quella organizzazione o gruppo nelle liste criminali internazionali. Due fatti fondamentali vengono così mascherati: in primo luogo, il fatto che, in situazioni di guerra di liberazione, i “terroristi” di oggi sono i “validi interlocutori” di domani, con i quali dobbiamo negoziare, e che dobbiamo quindi sfuggire al loro status di criminali. A volte la negoziazione inizia in segreto, anche mentre sono in corso operazioni per eliminare i terroristi. È ciò che è accaduto in Algeria, tra il colonizzatore francese e il Fronte di Liberazione Nazionale, a vantaggio di quest’ultimo. O in Sudafrica, secondo altre modalità. Ciò non significa che non esista terrorismo, ma che non si debba passare senza esame dal riconoscimento delle azioni terroristiche, o anche solo della loro pretesa, all’essenzializzazione dei movimenti politici e delle loro organizzazioni come “movimenti terroristici”, intrinsecamente perversi, che dovrebbero essere eliminati con ogni mezzo. Hamas, per quanto disastroso sia il suo programma e condannabili le sue azioni, non è lo Stato Islamico (Daesh). E questo significa che i rapporti storici tra lotte per l’emancipazione o la resistenza e il “terrorismo” come tattica sono sempre stati (e sono più che mai) complessi, impuri , soggetti a evoluzione.
21. le definizioni ufficiali hanno come obiettivo principale quello di nascondere la reciprocità e l’asimmetria tra azioni terroristiche e operazioni “antiterrorismo”. In modo del tutto arbitrario, le prime sono considerate criminali, mentre le seconde sono considerate legittime, qualunque sia la ferocia dei mezzi impiegati. Questo problema è flagrante nel caso di Israele e Palestina. Senza dubbio – questo è il mio punto di vista – l’operazione di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha rotto il blocco in cui era intrappolata la popolazione di Gaza, difficilmente può essere descritta diversamente, poiché ha preso di mira essenzialmente civili disarmati (uomini, donne, bambini, anziani), ed è stata accompagnata da uno scatenamento di brutalità (torture, stupri, rapimenti, esecuzioni sommarie [20] ).
22. questa crudeltà non può oscurare la portata infinitamente più grande e i mezzi sproporzionati con cui lo Stato israeliano – un vero e proprio Stato terrorista sotto le mentite spoglie di “democratico” – reprime e brutalizza la popolazione palestinese. Le migliaia di persone imprigionate arbitrariamente e sottoposte a regimi di detenzione disumani sono anch’esse ostaggi, volti a scoraggiare qualsiasi protesta e impedire qualsiasi libera vita politica. Le incursioni dei coloni e dell’esercito contro villaggi e campi profughi, gli assassini mirati di attivisti, giornalisti, intellettuali e giovani, le punizioni collettive (in particolare sotto forma di distruzione di case o quartieri), le umiliazioni quotidiane (controlli, divieti, percosse) volte a imprimere nella mente dei palestinesi l’idea di essere in potere dei loro padroni: tutto questo fa parte di un sistema di terrore che è il correlato dell’accaparramento delle terre e della “pulizia” della storia nazionale.
23. Ha quindi poco senso ragionare sulla moralità di azioni di resistenza che possono o meno essere terroristiche. D’altra parte, c’è molto da chiedersi quali effetti queste azioni abbiano sugli equilibri di potere , sia interni che esterni al Paese, e in particolare quale responsabilità avrà avuto l’attacco del 7 ottobre 2023 nell’innescare il genocidio e sul futuro del popolo palestinese. Ho scritto dopo il 7 ottobre e da allora ho ripetuto che Hamas (a causa della sua ideologia volta a rendere inespiabile l’odio reciproco tanto quanto dei suoi falsi calcoli sugli equilibri di potere e di quella che credeva essere un’imminente “rivolta di massa” degli avversari del sionismo in tutta la regione) aveva “sacrificato il suo popolo” a obiettivi strategici irraggiungibili. Questa tesi mi è valsa talvolta critiche veementi che non posso fare a meno di prendere sul serio. Ma non posso evitare che la domanda venga posta
24. Ma naturalmente, una critica del terrorismo come tattica di liberazione o di resistenza, non in generale ma tenendo conto delle condizioni specifiche dello scontro, ha senso solo se siamo in grado di proporre alternative, almeno in linea di principio. Ne vedo solo una nelle circostanze attuali, anche se è in ritardo rispetto all’evento o non raggiunge la necessaria “dimensione critica”: è lo sviluppo di una solidarietà di massa, che attraversi i confini tra Nord e Sud, Est e Ovest, con la lotta del popolo palestinese, che lo faccia uscire dal suo isolamento (che è anche, reciprocamente, una delle cause dell’attrazione esercitata dal terrorismo, come risorsa ultima dei “dannati della terra”, abbandonati da tutti). Un simile movimento di massa internazionalista e antimperialista non sostituisce la lotta e l’iniziativa personale dei palestinesi, ma può sconfiggere la complicità degli Stati. Per questo non dovrebbe sorprendere che i suoi sostenitori siano soggetti a una dura repressione, nei campus e nelle strade, in America e in Europa. Ma non dovrebbe essere accettato. La Palestina “vincerà” nel senso che non morirà, ma non vincerà da sola .
25. Arriviamo così all’altro versante del dibattito sulla violenza, che lei classifica sotto la categoria del “pacifismo” e che preferisco collegare a un problema di pace e giustizia. Penso che il genocidio – qualsiasi genocidio – sollevi un’esigenza di pace attraverso la giustizia , inscindibile dalla sua realizzazione nelle forme del diritto, della dignità, della riparazione dei torti e dei danni, ancora più forte che in qualsiasi altra situazione di guerra, violenza o oppressione. Perseguire un simile obiettivo senza confonderlo con la rinuncia o il disarmo presuppone trovare risposte alla violenza oppressiva (“mitica”, se vogliamo) che non ne siano l’immagine inversa, ma praticare una violenza liberatrice, consapevoli tanto delle conseguenze del suo uso quanto della sua giustificazione o dei suoi obiettivi.
26. Una lezione tanto da Max Weber quanto da Gandhi. Non siamo qui di fronte a un problema di legittimità, ma di efficacia, dove la violenza circola tra cause ed effetti e si ripercuote su chi la usa, per scelta o per necessità. Questo è ciò che una volta ho cercato di teorizzare come “civiltà”. Ma mi rendo conto che non è un buon nome. Ne sto cercando un altro…
27. è ovvio che una pace basata sulla perpetuazione del dominio di una parte sull’altra, in un modo o nell’altro, non lo è. Non produce né cooperazione né riconciliazione (come l’esperienza di Oslo e il successivo discredito dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno ampiamente dimostrato). Qualsiasi soluzione presuppone lo smantellamento del postulato di disuguaglianza inscritto nel cuore della colonizzazione e, oltre a ciò, del colonialismo, di cui il sionismo è storicamente divenuto l’ultima incarnazione. Ma questa condizione è ancora più ovvia (e allo stesso tempo più incerta) poiché, come siamo costretti a notare, la politica israeliana ha deliberatamente operato per rendere il conflitto “insolubile”, o per rendere impossibile qualsiasi soluzione che non sia il completamento della conquista. La soluzione dei “due stati”, al di là delle proclami formali, richiederebbe a Israele di ritirarsi dai territori occupati (inclusa Gerusalemme Est), di scacciare i propri coloni dalle città e dai forti che ha costruito per loro, di distruggere i muri e le strade riservate, di smettere di monopolizzare le risorse idriche, ecc., e di ammettere una sovranità diversa dalla propria in Palestina, con i suoi “marchi” militari, amministrativi e fiscali. In altre parole, l’impossibile nelle condizioni attuali, e forse per sempre.
28. La soluzione dello “Stato unico” (intesa come binazionale, in forme costituzionali da elaborare) ha certamente come base materiale l’intreccio delle popolazioni e la realtà del dominio israeliano (a beneficio degli ebrei) sull’intero territorio [22] , ma a condizione appunto di ribaltarne il significato in riconoscimento reciproco e riparazione del danno subito negli ultimi 77 anni (anche accettando il “diritto al ritorno”, anche se ciò significa negoziarne l’applicazione). La difficoltà sta anche dall’altro lato, ovviamente. Come ha detto Said, che ha difeso il principio almeno come idea guida, essa presupporrebbe il superamento del comprensibilissimo rifiuto dei palestinesi per i quali “abbandonare l’idea di una Palestina interamente araba equivale ad abbandonare la propria storia [23] ”. Niente di tutto ciò ha senso finché la disuguaglianza è allo stesso tempo lo stato di cose e il presupposto di negoziati o insediamenti.
29. Ciò che è vero è che oggi in Palestina (o Israele-Palestina) ci sono due popoli con storie tragicamente intrecciate, nessuno dei quali può eliminare l’altro o rinunciare al proprio diritto di esistere. Israele è entrato in una logica genocida senza limiti prevedibili sotto la spinta della sua componente fascista ora al potere, ma non ucciderà né sfollerà l’ intero popolo palestinese. I palestinesi non hanno la capacità di invertire gli effetti della storia facendo scomparire la presenza ebraica (e quindi gli ebrei stessi), tornando a un secolo o più di immigrazione e colonizzazione, che hanno generato un “fatto nazionale” irreversibile (politico e culturale).
30. Due popoli su una sola terra, uno dei quali schiaccia e distrugge l’altro, e l’altro dei quali può solo desiderare di sbarazzarsi del suo oppressore, tali sono i fatti dell’equazione storica che una “politica” (o cosmopolitica) da inventare, formulare, accettare dai suoi stessi attori e imporre al mondo deve risolvere. Questa è anche la conclusione di Rachid Khalidi (il cui libro, a dire il vero, è stato scritto prima del 7 ottobre 2023)
31. trasformazione di Israele in un imperialismo locale con pretese egemoniche, attraverso Gaza e le altre operazioni che lo estendono in tutta la regione: Libano, Siria, Iran, Penisola arabica.
34. L’imperialismo odierno (che in questo senso porta all’estremo la tendenza alla militarizzazione del capitalismo già inclusa nella sua definizione dai classici) non è separato da una corsa agli armamenti che, a sua volta, si accompagna a una rivoluzione tecnologica (o a una serie di rivoluzioni tecnologiche) nella progettazione e nelle modalità di utilizzo delle armi e conduce irresistibilmente al loro utilizzo. Qui seguo più che mai la lezione del grande storico Edward Thompson nella sua teoria dell’esterminismo [ 30] : l’accumulo di armi (dalle armi “individuali” alle armi di “distruzione di massa”, in un continuum che, peraltro, coinvolge le stesse catene di fabbricazione, finanziamento e commercializzazione) non è un mezzo di difesa contro i rischi della guerra, è fondamentalmente e a lungo termine un fattore di intensificazione di questi rischi, che non può che portare a conflitti armati. Le armi devono essere utilizzate per essere prodotte in serie, perfezionate, continuamente sostituite, in un “settore” dell’economia che è diventato una componente strutturale della riproduzione del capitale.
35. credo sia utile sottolineare che questi legami non possono essere confinati a uno spazio “occidentale”: il Brasile esporta acciaio per uso militare in Israele, e la Cina è un importante acquirente di armi ad alta tecnologia e di programmi di sicurezza informatica israeliani. Questo, tra altri calcoli strategici o diplomatici (la Cina non vuole paragoni con la propria politica in Tibet o nello Xinjiang), potrebbe spiegare la moderazione delle reazioni cinesi all’offensiva anti-palestinese dopo il 7 ottobre 2023 [33] . Niente di nuovo, in un certo senso: l’intera storia dell’imperialismo è fatta sia di collusione che di scontro tra i “campi”.
36. le nuove coalizioni di interessi caratteristiche dell’equilibrio di potere e della distribuzione dei “campi” nell’attuale spazio imperialista non coincidono più con le tradizionali geografie di demarcazione tra Occidente e Oriente. La più significativa è la strategia delineata a partire dagli “Accordi di Abramo” (2020), a cui l’Arabia Saudita stava chiaramente considerando di aderire alla vigilia del 7 ottobre 2023. Si tratta (o si trattava) di costituire una triplice alleanza in cui l’Europa non svolge più alcun ruolo fondamentale, ma i cui pilastri sarebbero la potenza militare americana, la finanza degli stati petroliferi del Golfo e la tecnologia israeliana, strettamente intrecciate tra loro. Questo è ciò che mi porta a proporre – in modo ipotetico e interrogativo – sia che l’Occidente cessi di coincidere con lo spazio dell'”uomo bianco occidentale”, sia che Israele sia passato dallo status di protetto a quello di perno. In definitiva, si potrebbe dire: non è più l’Occidente che sostiene Israele, è Israele che detiene l’Occidente.
37. Dalle Crociate alla spedizione egiziana, dalla costruzione del Canale di Suez alla fondazione delle comunità sioniste in Palestina, attraverso l’avanzata e il ritiro dell’Islam in Europa, la colonizzazione e la decolonizzazione, il rapporto con l’Altro arabo e turco, musulmano o laico, è costitutivo dell’identità europea, ne irriga la cultura, incidendo in diversa misura su ciascuna delle nazioni che la compongono ma non lasciandone alcuna da parte, e quindi interlocutore del suo futuro.
38. È spesso vissuta in modo conflittuale e diseguale (in particolare a causa della tensione che caratterizza la coesistenza dei monoteismi religiosi e che oggi sfocia nell’islamofobia di massa, ma anche nell’antioccidentalismo e nell’antisemitismo). Ma non esclusivamente, né senza capovolgimenti di situazione che lasciano tracce profonde nella cultura e nella coscienza politica dei cittadini europei. Senza contare che, per effetto di movimenti di popolazione e migrazioni, gran parte di questi sono allo stesso tempo europei e orientali o nordafricani.
39. Se l’Europa si accontenta di assistere passivamente alla distruzione di Gaza, o peggio ancora, vi prende parte attraverso la sua complicità con la politica israeliana o con gli aiuti indiretti da essa forniti, la conseguenza non sarà solo lo sviluppo di un immenso risentimento e di un odio “ereditario” tra le popolazioni del Nord e del Sud del Mediterraneo, ma sarà la dissoluzione di quest’ultimo come spazio di civiltà nel campo degli “sterminismi” globali, e l’affondamento dell’Europa nella divisione, nel senso di colpa e nella negazione della propria storia.
40 è vero, tuttavia, è che i processi di fascizzazione dello Stato e della politica si influenzano e si incoraggiano a vicenda in tutto il mondo, che corrispondono alla stessa esigenza di reprimere i movimenti popolari, e che il sostegno al genocidio israeliano, sotto forma di denuncia e repressione diffusa dell’antisionismo come “antisemitismo”, è uno dei parametri della collaborazione e del remoto allineamento con il nuovo regime americano. Il che, va anche detto, è una catastrofe per la lotta contro il vero antisemitismo, quello che prolunga le discriminazioni del passato e che occasionalmente viene portato a galla dalle identificazioni e dai risentimenti che la politica israeliana incoraggia.
41. Da ciò concludo anche – ed è forse su questo aspetto pratico delle cose che dovremmo essere d’accordo – che la rivolta contro il genocidio e tutto ciò che lo accompagna o lo ha reso possibile deve, di fatto, occupare un posto centrale nella nostra resistenza al fascismo in ascesa, accanto ad altre “cause” altrettanto universali e altrettanto tragiche, rivelatrici dell’evoluzione dei regimi contemporanei (tra cui, come sapete, includo personalmente la causa dei rifugiati e dei migranti, altri dannati della terra del capitalismo assoluto). Esse non sono incompatibili tra loro, per usare un eufemismo.
42. ex Presidente della Knesset, Avram Burg, che ha appena chiesto ufficialmente all’amministrazione israeliana di togliergli la qualifica di “ebreo”, poiché questa è diventata in Israele (in virtù della decisione costituzionale votata nel 2018) un segno di appartenenza al “popolo dei padroni”, che lo distingue dai suoi sudditi e lo protegge da un destino simile al loro.
Avram Burg, vivendo e parlando in Israele, non vuole essere considerato ebreo in tempi di genocidio, genocidio legittimato dalla “difesa del popolo ebraico”. Vivendo e parlando fuori da Israele , ma nel contesto del dibattito sul valore e la funzione del sionismo da cui dipende essenzialmente il nostro futuro politico, mi dichiaro “ebreo” in solidarietà con tutti gli ebrei del mondo che si oppongono al colonialismo israeliano protestando contro la sua appropriazione della rappresentanza degli ebrei in generale, e per contribuire con i mezzi a mia disposizione a mostrare l’importanza e la dignità della loro lotta.
