
Un incontro difficile (tra sconfitti) ma ci siamo sempre rispettati. E sono contento che su Poliscritture sono numerose (dal 2010) le tracce della tua presenza. Ciao Gianfranco. Per cominciare a ripensare la sua figura parto da uno dei suoi racconti firmati come Franco Nova:
L’uomo in ansia
di Franco Nova
Da due ore ormai, ancor prima che cominciasse ad imbrunire, l’“uomo in ansia” era sotto il lampione all’angolo tra via Fontina e via Gattinara, camminando su e giù a scatti, fermandosi e ripartendo, voltandosi bruscamente non appena si allontanava troppo dal lampione. Girava l’indice tutto dentro il collo della camicia come si sentisse stringere la gola pur avendo la camicia aperta. Subito dopo si fregava freneticamente le mani; soprattutto il polpastrello dell’indice destro continuava ad incalzare il palmo dell’altra mano, rischiando di provocargli qualche lesione cutanea. Poi tentava di fermarsi mettendosi in equilibrio su un piede solo, ma resisteva due secondi, sbandava, si riprendeva e ripartiva a testa bassa come un toro infuriato in piena carica. Si slacciava la cintura, contava quanti buchi fossero rimasti nel caso fosse ingrassato, si riallacciava, ma sembrava scontento come se l’avesse troppo stretta sulla pancia un po’ pingue; allora si slacciava nuovamente, contava i buchi e riallacciava. Tentò una variazione: camminare con un piede su e l’altro giù dal marciapiedi; uno sciocco diversivo di cui presto si stancò.
Intanto sbuffava e imprecava perché si faceva buio e non venivano accesi i lampioni; “spilorci di amministratori” – ringhiò – “sono economie da morti di fame!”. Alla fine, con un bagliore improvviso, il lampione si accese e la luce cominciò a prendere vigore; nel giro di 15-20 secondi fu al suo massimo. L’“uomo in ansia” ebbe così la sua ombra che si allungava e accorciava a scatti, seguendo i movimenti nervosi del suo portatore. Un’idea, che gli apparve geniale, attraversò la mente dell’agitato passeggiatore: porsi in una posizione tale rispetto al lampione che la sua ombra sul lastricato fosse lunga quanto lui era alto. Si ricordava di essere 1,78. Iniziò così a concentrarsi sul nuovo brillante compito, spostandosi lentamente e cercando di misurare la lunghezza della sua ombra. Complicatissimo; ora gli sembrava 1,80, ora 1,76. Stralunava gli occhi, fissi sull’ombra, evitando fino al bruciore più intenso di sbattere le palpebre. Adesso forse era a 1,79; no, più facile 1,77. “Accidenti, dovrei avere con me una persona dotata di metro per risolvere questo problema”.
Lasciò perdere, inutile tentare di calmarsi in quel modo. L’attesa era sfibrante, non ne poteva più, riprese il suo deambulare a scatti, come un pollo, sempre aggirandosi sotto il lampione, attanagliato dal terrore: “e se non venisse?”. No, impossibile, nemmeno quella sera! Era quasi un mese che attendeva, che ripeteva ogni giorno a quell’ora il suo rito; non avrebbe resistito alla delusione, avrebbe commesso qualche “sciocchezza”. In quel momento, apparve un po’ traballante, il rotondo “omino dell’osteria”. Aveva finito di cenare con la sua “vecchia”, in rigoroso silenzio; adesso aveva diritto alle sue due ore all’osteria lì vicino, a metà di via Fontina, con gli altri ubriaconi suoi amici. Amici? Si fa per dire: dieci-quindici “ombre”, qualche discorso sulla “vita da cani” di tutti i giorni, una sbirciata ogni tanto alla televisione senza nulla ascoltare nel frastuono del locale, risate incomprensibili tanto per tirarsi un po’ su e poi, con la lucidità di un lobotomizzato, il ritorno dalla “sua vecchia”, che avrebbe trovato già addormentata e in assordante russare.
L’“omino dell’osteria” si accorse subito dell’“uomo in ansia”; impossibile non notarlo per il suo atteggiamento di incontenibile agitazione. Rimase titubante, perché era omino schivo e non voleva disturbare, ma alla fine la sua naturale bonomia, unità a quella certa quantità d’alcol che aveva già ingurgitato a casa, prevalse: “Ha perso qualcosa signore, ha bisogno di aiuto?”. L’“uomo in ansia” fu come colpito da una pistolettata, non si aspettava di essere apostrofato; prese comunque l’occasione al balzo per allentare la sua tensione: “No grazie, non ho perso nulla, è semplicemente un bel po’ e non arriva nessuno”. “Capisco – disse l’“omino dell’osteria” – in effetti è noioso aspettare qualcuno che ritarda, la gente non si rende mai conto di come sta uno che attende”; “Mah, veramente non potrei dire che sia in ritardo, solo che lo aspetto da troppo tempo’”. L’“omino dell’osteria” rimase un po’ perplesso di fronte alla risposta, ma non ci fece troppo caso: “Se mi dice che tipo è, com’è fatto, magari vado fin nell’altra via a vedere se qualcuno attende, può essere che abbia capito male il luogo dell’appuntamento”.
A questo punto, l’“uomo in ansia” lo guardò con vera sorpresa e sconcerto: “Ma io non so come sia fatto, non so chi sia, nemmeno se è uomo o donna. Scusi, ma se sapessi chi deve arrivare, le pare che sarei così agitato solo per un banale ritardo? Non so chi deve arrivare e quando; è proprio questo che mi sconvolge”. Fu l’altro ad essere ora sconcertato, più precisamente a restare di sasso. Ebbe la netta sensazione che l’uomo nevrotico non dovesse essere proprio in sensi; forse aveva bevuto anche lui. Comunque, era educato e non si permise alcuna osservazione; solo disse: “Potrebbe forse farmi compagnia, vado all’osteria laggiù, dove passo un paio d’ore con amici. Lei potrebbe prendere quello che vuole, ad esempio una tisana, una camomilla, si riscalderebbe un po’ e poi vedrebbe se continuare l’attesa”. L’altro, a questo punto lo guardò proprio con commiserazione: “Scusi, ma se venissi con lei e poi l’altro arrivasse, per una tisana o qualsiasi altra cosa avrei perso l’incontro che attendo da quasi un mese. Ogni sera sono venuto qui e mi sono fermato finché non hanno spento i lampioni. Adesso, per qualche minuto di rilassamento, potrei dovermi pentire”.
L’“omino dell’osteria” era sconvolto, ma non lo diede a vedere, solo balbettò: “Come noterà, dall’osteria si vede questo lampione; starebbe sulla porta, ma dentro al caldo e anche seduto, così vedrebbe se arriva stando comodo”. L’“uomo in ansia” fu veramente scoraggiato: “Le ho detto che non so chi sia, come sia fatto; ovviamente nemmeno lui (o lei) mi conosce, se passa tira dritto e se ne va; da lontano non saprei se è quello giusto. Se sono qui ho qualche probabilità in più, potrei sentire che ha un odore speciale, una camminata assai diversa dalle solite, mi darebbe magari un’occhiata dalle quali si intuisce il destino; insomma, una qualsiasi cosa che denotasse che è esattamente chi attendo”.
L’“omino dell’osteria” capì che non era aria per lui, meglio filare al più presto, quel tipo non era decisamente normale; non aveva nemmeno bevuto, ne era più che convinto, era proprio uno che non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Salutò con gentilezza, ma anche un po’ freddamente, e si diresse alla “sua” osteria dove ormai, ne era sicuro, gli amici di bevuta si stavano spazientendo. L’“uomo in ansia” ricambiò appena il saluto e, per un momento, stette fermo a osservarlo mentre si avviava nel luogo fatale del suo serale rimbambimento. Scosse la testa e borbottò fra sé e sé: “Si può essere sicuri che mi avrà preso per matto e racconterà il suo bizzarro incontro, sollevando grasse risate tra quei semialcolizzati”.
Riprese il suo andirivieni a scatti sconnessi e la rabbia montò in lui: “Quel tanghero, come tutti gli altri tangheri che circolano normalmente per le strade. Non attendono nulla, non un incontro che apra loro nuove prospettive, non una persona che aspettano ma senza sapere chi sia e da dove possa arrivargli tra capo e collo. Hanno sempre bisogno dell’usuale, del sempre eguale, senza scosse, senza tumulti del cuore e della mente. Tutto è inscritto in loro come lo fosse da millenni in una specie animale primitiva. Hanno l’anima fissata a binari lunghi come tutta la loro vita, sui quali il loro treno corre senza che vi si aggiunga né si stacchi un solo vagone. Sempre gli stessi vagoni, con gli stessi passeggeri, con gli stessi controllori, con sguardi, discorsi, sollecitudini e svenevolezze sempre identici. Le fermate sono quelle ogni giorno, ogni giorno scendono e salgono quelle persone, viaggiano insieme annoiati, distratti, senza mai aspettarsi nulla che li emozioni, nulla che li coinvolga e magari stravolga”.
La sofferenza dell’attesa si era fatta insopportabile, i muscoli delle gambe rigidi, ma strinse i denti: “Che mi pensino pazzo, ma non farò la loro stessa fine. Che arrivi qualcuno oppure no, sarò sempre in attesa, pronto ad accogliere la sorpresa, a rimanere esaltato o annichilito dal nuovo incontro, a cadere nella delusione e amarezza ad ogni nuovo giorno che passa senza novità, ma rimettendomi in marcia ad ogni calar del Sole per accogliere il notturno visitatore, che mi si preannuncia ognora invano eppure con la tacita promessa che infine giungerà improvviso, mi sorriderà e dirà: ‘sono qui, adesso rinnovo la tua vita’. Questo è vivere, non lo scorrere dei giorni senza data, nel flusso indistinto che rende la vita un blocco compatto, da buttare tutto insieme nella fossa con una sola palata”.
Era comunque meno frenetico, la convinzione d’essere diverso lo rendeva appena meno ansioso, perfino un barlume di speranza si riaccendeva, non più per quella notte, ma per le future. Dopo un paio d’ore, l’“omino dell’osteria” uscì barcollando; per quanto ubriaco fradicio, prese le sue precauzioni per rifare la strada del ritorno con un giro più largo onde evitare d’incontrare il personaggio che vedeva aggirarsi ancora sotto il lampione. Si diresse a casa; e non ha alcuna rilevanza seguirlo nel suo normale rincasare, nel suo sbrigativo spogliarsi e buttarsi nel letto della moglie ronfante per sprofondare nel rauco russare di una notte come ogni altra, di ogni altro omino del suo genere sempre eguale.
Anche l’“uomo in ansia” fu sollevato nel vedere che l’omino aveva seguito una direzione diversa per non incontrarlo; due volte la stessa ottusa ovvietà in così breve tempo sarebbero state sfibranti. Doveva essere ormai notte inoltrata, fra non molto avrebbe cominciato ad albeggiare e poteva tornarsene verso il luogo da dove era venuto. Gli venne però subitanea in testa una considerazione fastidiosa: “E’ da quasi un mese che aspetto qui tutte le sere. Criticavo l’omino di prima per la sua ovvietà e la vita uniforme e piatta. Se aspetto tutte le sere l’incontro decisivo nello stesso posto, divento anch’io usuale, ripetitivo, un conformista. Divento l’‘uomo in attesa’ ma di un’attesa sempre la stessa, sempre nello stesso luogo. Rifaccio anch’io ogni sera la medesima strada da casa mia al lampione di questo incrocio e viceversa. Inutile allora criticare gli altri, i tangheri la cui vita scorre lungo vie obbligate dalla consuetudine dei mediocri. Da domani sera mi sposto nella via del Rigoglio, e lì attenderò per non più di una settimana e poi cambierò ancora”.
Si sentì sollevato, finalmente sarebbe stato diverso dagli uomini qualunque, dai beoni dell’osteria, da quelli che erano a casa a ronfare davanti alla TV. Si incamminò lungo la via del ritorno. Dopo sì e no dieci metri fece un nuovo gesto di scoramento: “Pur se anche cambio ogni settimana il luogo dell’attesa, sarò comunque l’‘uomo che muta ogni dato periodo il posto dell’attesa’. Sempre lo stesso compiersi del perpetuo finto rinnovamento, che è in realtà un’estenuante ripetizione. Devo rassegnarmi: non mai fermarmi in nessun posto fisso, tutta la notte a girare per ogni strada di questa insipida cittadina, e rigorosamente a casaccio senza nessun percorso prefissato”. Si immaginava la fatica della realizzazione di questo progetto, ma si sentì sollevato dalla soluzione. “Macché soluzione” – disse dopo qualche altro passo – “se quello o quella che attendo non arriva, sarò semplicemente l’‘uomo errante in perpetuo’, sempre eguale a se stesso, sempre in fremebonda attesa del ‘non arrivo’; solo se finalmente irrompesse questo ‘arrivo’, potrei essere diverso dagli altri, sarei autorizzato a sentirmi superiore ai ‘normali’ che infestano e imbruttiscono il mondo. Chi mi può garantire un tale arrivo, un incontro finalmente diverso? Nessuno, tutto è affidato al caso, alla cosiddetta fortuna, mai benigna verso chi è in consapevole attesa della sorprendente novità”.
Era scoraggiato, l’impossibilità di sfuggire all’immersione e annegamento nel flusso degli uomini medi, di coloro che s’incamminano lungo percorsi ad un certo punto ripetitivi, malgrado il tentativo di alcuni, come lui, di rompere i soliti ritmi, gli era ormai evidente; non vi era da nutrire alcuna speranza di reale rinnovamento se nessuno fosse arrivato, se l’attesa si fosse prolungata oltre ogni limite dell’umana resistenza. Era ormai sul “ponte dei Sospesi”, sotto scorreva un’acqua tranquilla, che sapeva profonda. Un lampo: “Ecco un atto unico che non si può ripetere, che mi renderà veramente diverso, non più mediocre”. Scavalcò il parapetto e si gettò di sotto.

Caro uomo in ansia,
L’amore ti avrebbe salvato
Te lo assicuro
Ora riposa in pace … l’acqua è tranquilla e ti abbraccia.
gli addii sono sempre tristi, ma, nel caso di Gianfranco La Grassa, con un seguito di nutriti ricordi…L’uomo in ansia, tra i tanti che ha scritto, è un racconto ironico ben orchestrato, dove un uomo, pieno di tic e di boria, alla fine diventa martire di se stesso…Fai buon viaggio!
SEGNALAZIONE
Dalla pagina FB di Giorgio Riolo
La scomparsa di Gianfranco La Grassa. Un breve doveroso ricordo personale
Martedì 25 settembre, ci ha lasciati Gianfranco La Grassa. Aveva compiuto all’inizio di quest’anno 90 anni. Essendo nato a Conegliano Veneto (Treviso) nel 1935.
La sua formazione teorica si compì dapprima quale allievo di Antonio Pesenti, economista e politico del Pci, e attraverso il quale cominciò la sua carriera universitaria fino alla cattedra all’Università di Venezia. In seguito molto agì l’influsso di Louis Althusser e di Charles Bettelheim. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, questi sviluppi e apporti coincisero con la svolta maoista e il seguire la “via cinese” nel campo della militanza e nella divisione del campo socialista.
Ci conoscemmo dopo il centenario dalla morte di Marx, nel 1983, e la costituzione del CSMS (Centro Studi Materialismo Storico), voluto da Giuseppe Bazzi e dallo stesso La Grassa, con il primo libro importante scaturito da questo consesso di marxisti. Il libro è “Marxismo in mare aperto” (Franco Angeli editore, Milano 1983).
In contemporanea a La Grassa, cominciava il sodalizio intenso e fecondo con Costanzo Preve. L’interlocuzione con loro avvenne soprattutto entro il CSMS, entro il Cipec (Centro di Iniziativa Politica E Culturale), l’organismo culturale creato da Democrazia Proletaria, entro il mensile Democrazia Proletaria e soprattutto entro la rivista teorica “Marx centouno”, scaturita dopo il convegno su Marx del 1983, su iniziativa del compianto Emilio Agazzi.
Furono anni di intenso lavoro culturale e politico. La Grassa perseguiva un suo percorso originale entro il marxismo. Il passaggio dalla forma-merce alla forma-lavoro, il cosiddetto “capitalismo lavorativo”, con la centralità del rapporto di potere direzione-esecuzione, tra chi dirige il processo capitalistico e chi esegue, su su fino alla dinamica dei “conflitti strategici” entro le classi dominanti ed entro i vari capitalismi nazionali in competizione ecc.
Questo lavoro e questa interlocuzione proseguirono, dopo la svolta del 1989 e del 1991, dopo la fine del socialismo reale, entro l’Associazione Culturale Punto Rosso fino alla metà degli anni Novanta. Assieme a La Grassa pensammo di rendere disponibile in lingua italiana il dibattito esemplare sul socialismo reale inaugurato nel fatidico 1968, dopo la repressione della Primavera di Praga, di due marxisti noti su scala internazionale come Bettelheim e come Sweezy. Il libro contenente questo dibattito s’intitolò “Il socialismo irrealizzato” (Editori Riuniti, Roma 1992).
In seguito, nella seconda metà degli anni Novanta, le strade si sono divaricate. Preve per un verso e La Grassa per un altro, hanno perseguito un loro lavoro teorico che qui è lungo e complesso ricostruire. Con all’attivo una mole enorme di libri, di saggi, di articoli. Un solo accenno alla divaricazione. La loro legittima, doverosa critica delle sinistre realmente esistenti, anche di quelle sedicenti alternative, prendeva d’infilata anche pezzi di dette sinistre alternative che faticosamente cercavano di ricostruire una presenza culturale e politica all’altezza della sfida del capitalismo nell’era del neoliberismo e del dominio unipolare Usa-Nato-Europa.
Tuttavia la reciproca stima e la reciproca amicizia rimanevano salde. Un rapporto personale molto intenso, risalente alla metà degli anni Ottanta, anche nella sfera della vita quotidiana. Fatta di fecondi scambi e di confronti culturali, artistici, letterari, di pezzi di vita vissuta. Oltre la teoria, oltre la politica, nella totalità dell’umano, come esseri umani che non vivono solo di teoria e di politica. Così almeno nella mia ferma, personale visione del mondo.
E’ giusto cercare di cogliere quanto di positivo e di fecondo è presente anche nelle posizioni di un ex marxista (ed ex comunista) come Gianfranco La Grassa, al netto dell’oggettivismo spinoziano di derivazione althusseriana e di una lettura della crisi mondiale come esclusivo conflitto geopolitico fra gruppi dominanti che è molto affine a quella del partito di “Lotta comunista”, anche se declinata in senso (non internazionalista ma) nazionalista. Così come è stato giusto, a suo tempo e tra le altre cose, far tesoro della sua precisazione concernente il concetto marxiano di lavoro astratto, il quale non si basa solo sul processo di dequalificazione del lavoro, come spiegava già Rosdolsky, ma sul fatto che tutti i lavori nel capitalismo sono astratti nella misura in cui entrano in contatto con la società attraverso il mercato, cioè la moneta. E’ poi doveroso rammentare che quando sopravvenne la crisi degli anni Settanta del secolo scorso e il marxismo diventò concettualmente indeterminato, La Grassa, insieme con la Turchetto, Bellofiore, Losurdo e Preve, rappresentò, nell’ambito della cultura marxista, una delle poche eccezioni rispetto all’abbandono del terreno della critica dell’economia politica. Se ci si pone da questo angolo visuale, è altresì doveroso ribadire che la ‘crisi del marxismo’ non è mai esistita, e che sarebbe più esatto parlare di crisi dei marxisti, poiché la malattia più grave della sinistra nostrana, fin dai tempi di Antonio Labriola, nasce, come giustamente sosteneva in questi ultimi decenni la rivista “La Contraddizione” raccolta attorno al critico dell’economia politica Gianfranco Pala, dall’insufficienza di marxismo e segnatamente (per usare l’icastico sintagma brechtiano) dagli “usi gastronomici e culinari” del medesimo. Quanto prima rilevato non deve, comunque, suonare come giustificazione del grave errore commesso da La Grassa, quando questi arrivò a sostenere, negli anni Ottanta, la tesi di derivazione francofortese ed operaista secondo cui, di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si annullerebbe. Quanto poi al sito “Conflitti e Strategie”, siccome vale sempre il detto popolare: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, vi era solo da sperare che la sbandata filo-leghista di questo sito, che io continuo a seguire con un certo interesse per le sue analisi geopolitiche, venisse corretta e che i suoi animatori (Petrosillo e La Grassa) riuscissero a risolvere correttamente il problema dell’identificazione della natura di classe della Lega. Se infatti è disgustoso l’opportunismo di cui hanno dato e danno prova le sinistre sia moderate che radicali del nostro paese, non a caso uno dei più reazionari in Europa anche a causa del carattere trasformistico e collaborazionistico, antiproletario e antimarxista, di siffatte sinistre, non meno spregevole e funesto è il carattere (‘para-’ e/o ‘cripto-’) fascista che impronta le destre e la mobilitazione reazionaria delle masse di cui esse sono il veicolo e il moltiplicatore.
Chi è stato (e sarà nel tempo) Gianfranco La Grassa? Solo un «ex marxista (ed ex comunista)», che poi negli anni Ottanta s’inquina di francofortismo e operaismo o ancora più tardi non blocca la «sbandata filo-leghista» del sito “Conflitti e Strategie» (che prima – speranzosamente? – portava il nome di “Ripensare Marx”)?
Secondo me, sarebbe meglio indagare a fondo la sua biografia e le sue opere
partendo – come ho tentato di suggerire – da «l’uomo in ansia» che egli fu.
Altri, più competenti in questioni di dottrina marxista, giudicheranno se egli «insieme con la Turchetto, Bellofiore, Losurdo e Preve» contribuì a non abbandonare il «terreno della critica dell’economia politica». Sta bene. Vedrò che diranno e valuterò per quel che capirò.
Mi permetto, però, di notare che, se negli anni Settanta del secolo scorso « il marxismo diventò concettualmente indeterminato», parlare di “crisi del marxismo” non è tanto diverso che parlare di «insufficienza del marxismo». Il problema ci fu e c’è.
Per favore, non giochiamo con le parole. Riprendendo la formulazione di Gianfranco Pala, io ho scritto “insufficienza di marxismo”, non – come ha scorrettamente citato Lei – “insufficienza del marxismo”. Tra le due formulazioni vi è una differenza radicale, a meno che chi equivoca non voglia scambiare un genitivo oggettivo, quale è il sintagma “insufficienza di marxismo”, con un genitivo soggettivo, quale è il sintagma “insufficienza del marxismo”. Nel primo caso, si vuole indicare che il tasso di marxismo presente nella cultura sedicente marxista era (e tuttora è) piuttosto basso; nel secondo caso, si vuole suggerire che il marxismo, in quanto teoria scientifica del modo di produzione capitalistico, non è adeguato alla comprensione del mondo attuale. Quindi il problema c’è, ma solo per chi confonde i due sintagmi, che corrispondono, per il loro significato, a due tesi ‘toto coelo’ differenti.
@ Bontempi
Hai ragione nel sottolineare la differenza tra “insufficienza di marxismo” (nella cultura della sinistra italiana e non solo) e “insufficienza del marxismo” come teoria non adeguata per comprendere il mondo attuale. E tuttavia anche questo “insufficienza del marxismo” è stato un problema dibattuto. E proprio da La Grassa (e non credo soltanto da lui).
Perché scartarlo?
SEGNALAZIONE
dalla mia pagina FB:
https://www.facebook.com/ennio.abate.5/posts/pfbid024UNBAfug5idDpL7B3YbBUgPcknfBoN7fDAo9Kya7EmD5sddNrPJr1viz222SciCsl
26 SETTEMBRE 2015. 10 ANNI FA…
E per quando si riuscirà a ripensare l’opera di Gianfranco La Grassa, appena scomparso.
Stralcio:
“Se passo al pezzo di G. La Grassa, certamente ritrovo la centralità del conflitto (che manca in Remotti) e, finché si richiama a Marx, una solida critica all’individualismo liberale simboleggiato dalla figura di Robinson. Ma tutto il suo tentativo di sostituire la figura del gretto Robinson con il selvaggio e audace e “furbo-riflessivo” Tarzan proprio non mi convince.
Perché l’atto fondativo o la «scoperta decisiva» (del vivere associato, se ho capito bene) deve essere visto – niccianamente a me pare – nella violenza? E perché nei rapporti io/altri o noi/altri, che anch’io credo prevalentemente conflittuali, deve essere privilegiata in ogni caso l’offesa al posto delle forme difensive o diplomatiche? E ancora: perché l’atto violento (e fondativo) – « Un osso dello scheletro d’un animale (uno di loro?), una tibia, viene usata a mo’ di martello e rompe altre ossa, ha potenza» – diventa in assoluto la cifra dell’evoluzione umana fino ai nostri giorni (ma anche per il futuro, credo)?
Tuttavia mi respingono soprattutto le conclusioni della sua lunga ricostruzione dell’evoluzione della specie umana (che preludono a un “che fare” quanto mai discutibile per me). Le riporto:
«Basta con questa vergogna dell’umiliazione delle prerogative e capacità individuali. Siamo diversi; e in modi diversi, come diceva Marx, possiamo “elevarci soggettivamente al di sopra dei rapporti di cui siamo socialmente creature”! E queste differenze individuali vanno difese dagli appiattimenti predicati dai mediocri, o anche semplicemente da chi ha avuto minori possibilità. Piaccia o non piaccia, è così: i rapporti sociali creano individui d’alto valore intellettuale e morale e dei mediocri, conformisti, abituati alla routine!».
Qui mi pare che un dato storico ( le differenze tra gruppi sociali o fra individui) venga fatto diventare assoluto e si finisca per rendere immutabile quello che per Marx era mutabile (e migliorabile). Sì, l’individuo per Marx, a quel che ho capito, può elevarsi al di sopra dei rapporti sociali dati, ma trasformandoli, non tirandosene fuori soltanto come singolo, in quanto individuo “eccezionale”, o come élite, altrettanto eccezionale. E il suo progetto comunista era pensato, sì, come libera espansione degli individui e non appiattimento in basso o massificazione (“il comunismo da caserma”) ma per tutti.
Perciò a me pare che nel momento in cui, con Marx, La Grassa critica Robinson ( e l’individualismo liberale) è convincente; quando invece tira fuori Tarzan, si sbilancia verso Nietzsche e rimane comunque in una visione individualista, che non è poi tanto diversa da quella del liberismo. E che al gretto borghesuccio individualista Robinson sostituisca il “rampante” intelligente-riflessivo Tarzan, altrettanto però individualista. E a me l’individualismo non piace. Sono arrivato a un sia pur problematico io/noi e non voglio ritornare ad un io/io.
NOTA
[1] Scrivevo in una mail del 18 set. 2010 dialogando con il compianto amico, poeta ed editore di CFR Gianmario Lucini:
Che una regola sia «più difficile di qualsiasi canone» (ma le due cose – ripeto – si assomigliano; per me canone è sinonimo di regola) è discutibile. Mi pare però importante che tu accetti di ragionare su una regola, sia pur «inventata “dentro” il processo di costruzione del testo» e cioè – intendo io – dal poeta stesso. È una posizione un po’ contraddittoria se esaminata a fondo: se senti dire ‘canone’ sobbalzi anche tu; ma poi proponi ‘regola’ e ti rassereni. Mi chiedo perché. Penso che dipenda dalla tua convinzione che la poesia sia «un fatto individuale, non collettivo» E, quindi, per te, ‘canone’ sta per ‘regola collettiva’, che secondo la vulgata dominante negherebbe l’individualità, mentre ‘regola’, visto che se la darebbe l’individuo (poeta) stesso, starebbe per rispetto dell’individuo. Ora, sì, la poesia è un fatto certamente *anche* individuale,ma *uno strano fatto individuale*, perché non separabile dalla lingua, che è un fatto al contempo individuale e collettivo. Dici ancora «Posso anche scrivere cose di spessore ma senza una ricerca sul linguaggio più appropriato per rendere la mia poesia come dovrebbe essere resa». Chiedo: in che cosa questa ricerca *individuale* sul linguaggio più appropriato, che sfocerà prima o poi anche in una certa regola, questo scegliere l’appropriato al posto dell’inappropriato, si distingue da una ricerca collettiva che pure regola finisce per darsi? Non sono due processi da non contrapporre? Se partiamo da io-monadi, arriviamo alle tue conclusioni.
Ma possiamo anche partire da un ‘io/noi’, non monade né massificato o inerte, un ‘io-noi’che vive in tensione tra se stesso e gli altri, con se stesso-non chiuso e il mondo in trasformazione. A quanto mi risulta diversi hanno cominciato a pensare e a praticare anche in poesia in questa direzione di ricerca. E penso che i poeti farebbero bene, per uscire dai loro luoghi comuni, anche a leggere di più certi filosofi contemporanei. Io tempo fa fui particolarmente colpito di quello che scrisse Paolo Virno sulle idee di Gilbert Simondon su «Derive Approdi» (N.21 primavera 2002). Scriveva Virno:
Di solito si reputa che l’individuo, non appena partecipi a un collettivo, debba dimettere almeno alcune delle sue caratteristiche propriamente individuali, rinunciando a certi variopinti e imperscrutabili segni distintivi. Nel collettivo, così sembra, la singolarità si stempera, è menomata, regredisce. Ebbene, a giudizio di Simondon, questa è una superstizione: epistemologicamente ottusa, eticamente sospetta. Una superstizione alimentata da coloro che trascurando con disinvoltura la questione del processo di individuazione, presumono che il singolo sia un immediato punto di partenza. Se invece si ammette che l’individuo proviene dal suo opposto, cioè dall’universale indifferenziato, il problema prende tutt’altro aspetto. Per Simondon, contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica» ( pag. 54)
Secondo me, bisognerebbe liberarsi da una fiducia eccessiva nella libertà individuale («Posso fare tutto quello che voglio: sono libero di farlo»). Nella realtà anche delle pratiche di scrittura non è così. Anche il più ardito sperimentatore (mettiamo l’ultimo Joyce) sceglie tra un certo numero d’opzioni che la sua lingua o le lingue che conosce gli forniscono. E di solito, quando hai scritto una parola, la successiva deve tener conto della precedente. Dov’è allora tutta questa “libertà”?
Se si sgombrasse il tabù dell’anticanone o dell’antiregole, potremmo forse affrontare con più intelligenza i problemi seri sui quali quasi non siamo più abituati a ragionare, discutere, provare: di quale canone ci sarebbe bisogno oggi? Oppure, come tu dici in un modo che, secondo me, ancora tradisce affanno e scetticismo: «chi lo decide? Ma ancora prima COME facciamo a deciderlo?».
Vogliamo vedere se tra noi c’è gente che vuole confrontarsi su queste domande aperte?