Su “Nei dintorni di Franco Fortini” (8)


Fortini/Abate. Un sodalizio umano e culturale.

di Alessia Balducci

Il sodalizio, umano e culturale tra Ennio Abate (già insegnante, poeta nonché autore di saggi e contributi critici) e Franco Fortini, dura per più di vent’anni, fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel novembre 1994. Ma la portata del pensiero dello scrittore fiorentino è stata tale, anche alla luce degli sconvolgimenti politici e sociali degli anni ‘70, che Abate, come altri del resto, non ha potuto fare a meno di continuare a scrivere e riflettere su un magister del Novecento il cui spessore, forse, non è stato del tutto com- preso dall’odierna classe intellettuale italiana. Il recentissimo Nei dintorni di Franco Fortini. Letture e interventi (1978-2024) per le Edizioni Punto  Rosso, dunque, come esplicitato dallo stesso autore, è anzitutto una raccolta delle riflessioni e degli interventi di Abate attorno alla figura e all’opera di Fortini. È diviso in sette sezioni (Un filo tra Milano e Cologno Monzese, Per rubare bene le ciliegie, In dialogo e in polemica, La polis che non c’è, Poesia moltinpoesia, Poeterie per FF, Ruth e Franco), le quali, pur affrontando tematiche diverse, risultano legate da un fil rouge che scandisce il tentativo di comprendere e superare il reale, secondo un paradigma caro tanto a Fortini quanto ad Abate. Dunque non un mero lavoro agiografico questo, bensì un corpus denso di considerazioni che poggiano su un’impostazione critica di stampo marxista: oltre la consapevolezza della sconfitta storica del comunismo, dichiarata dall’autore stesso, si percepisce, sin dalle prime pagine, l’intento mai sopito di far riscoprire, attraverso il commento a tutto tondo della figura fortiniana, quella tensione ideale che guidava molti intellettuali nel secondo dopoguerra [1].
Addentrandoci nel testo, vediamo che la prima delle sezioni sopracitate offre il racconto dei contatti avvenuti tra l’autore e Fortini, a partire da quando lo studente Abate, nel clima di fermento a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, entra in Avanguardia operaia e giunge alla conoscenza indiretta dell’opera di Fortini, già celebre per il suo Verifica dei poteri [2], per proseguire fino ai primi anni Novanta, la cosiddetta fase degli “ultimi saluti”. Un arco di tempo piuttosto ampio, che vede un intellettuale di periferia, come ama defi- nirsi Abate evocando Lukàcs (p. 5), confrontarsi con un grande teorico al “centro” della vita culturale del Novecento, che non smette di impartire lezioni di critica letteraria, poesia e politica [3]. È dalla seconda sezione di Nei dintorni di Franco Fortini che ci si immerge effettivamente nell’intenso lavorìo di Abate attorno all’opera di Fortini, che va carpita, “rubata”, come si fa con le ciliegie appunto. Particolarmente interessante risulta qui l’attenzione di Abate verso un aspetto meno conosciuto di Fortini, ossia l’attività di traduttore e, nello specifico, di traduttore del Faust di Goethe: il nostro ci ricorda come Fortini ebbe a definire il testo goethiano un ‹‹poema vestito di letteratura, anzi di dieci letterature diverse››, un’opera che si presenta come allegoria o ‹‹anticipazione e profezia›› della nostra condizione contemporanea, che è una sorta di ‹‹paesaggio in rovine››, in cui convivono gradi diversi di autenticità e di vita, di forme cristallizzate e fluide, di esseri semivivi e semiferini, di idoli, di apparenze umane e inumane (p. 40). Non dimentico delle implicazioni relative alle scelte di traduzioni a partire dalla concezione benjaminiana della lingua [4], Abate sottolinea altresì come in questa sorta di tragedia-epica definita dallo stesso Goethe incommensurabile, la doppiezza della modernità si raffiguri nella coppia complementare Mefistofele/Faust, l’uno cinico e realistico, l’altro caratterizzato dallo Streben verso il sublime, l’autentico: sembra così suggerirci, sulla scorta di Fortini, che la grande letteratura ha una natura intrinsecamente dialettica, che dall’individuale muove verso l’universale [5].
La riflessione sulla letteratura, e con essa la critica letteraria, d’altronde, in questa parte di Nei dintorni di Franco Fortini risulta centrale: Abate si concentra sulla dicotomia di interpretazioni tra le letture cui il poeta di Paesaggio con serpente dà vita e quelle di altri importanti critici; basti qui citare il giudizio, estremamente duro, sulla Satura di Montale, considerato da Fortini un poeta, seppur indubbiamente valido, alto-borghese e con scarso senso della storia, in antitesi all’elogio che ne tesse Pier Vincenzo Mengaldo (cfr. pp. 52-55). Interessante, restando in tema di critica letteraria e di interpretazioni contrapposte, la considerazione del 2013 che Abate, a partire dalla valutazione fortiniana (cfr. il capitolo dedicato al Futurismo in I poeti del Novecento [6]), esprime sul futurismo, del quale evi- denzia una distruttività nichilista che apparterrebbe a tutte le avanguardie (p. 63). Va così a discostarsi apertamente da Edoardo Sanguineti, ma soprattutto dal Gramsci de “L’Ordine nuovo”, che poneva un discrimine tra la deriva assunta dal futurismo italiano, marinettiano, e il futurismo di Majakovskij, intriso di vitalismo rivoluzionario; Abate di- chiara altresì, a ben vedere in maniera piuttosto discutibile e mosso forse da un vago spirito “anti-moderno” che a tratti sembra sfiorare il lavoro [7], che la rivoluzione condotta dai futuristi, di qualunque nazionalità essi fossero, fu una rivoluzione guidata dall’alto (p. 62).
Se in Per rubare bene le ciliegie, il fulcro, nonché il punto di partenza, è l’opera letteraria e linguistica fortiniana intesa nelle sue varie sfaccettature, nella terza “sezione” del testo, intitolata In dialogo e in polemica, viene presentata una serie di interventi di Abate sull’opera di autori intrinsecamente legati a Fortini. Ecco quindi che troviamo considerazioni, incentrate ancora una volta su un metodo dialettico, su Romano Luperini e Luca Lenzini, ma anche, inevitabilmente, su Pier Paolo Pasolini, l’amico-nemico del poeta fiorentino. Ne Le ceneri di Pasolini, scritto nel 2011 e già pubblicato sul sito di “Poliscritture” e qui riproposto, contro ogni lettura faziosa o superficiale di Pasolini, come quella di Marco Belpoliti [8] (incline a individuare nell’omosessualità la matrice delle difformità del poeta di Casarsa) Abate contrappone, in modo lucido, puntuale e argomentato la lezione fortiniana di Attraverso Pasolini, un testo che, in effetti, sembra ne- cessario riscoprire, per uscire da certe visioni agiografiche che hanno ben poco a che vedere con la comprensione profonda di un autore. Abate ricorda come in Attraverso Pasolini si dispieghi la complessità di un rapporto [9] tra due scrittori cresciuti nello stesso contesto storico [10] e con l’idea di una “militanza intellettuale” che al giorno d’oggi potrebbe suonare anacronistica ai più; e se è vero che Fortini è severissimo con il Pasolini politico e critico della società (con il rimpianto esasperato per il mondo rurale e antico sembra fornire effettivamente argomenti ad un certo conservatorismo) è altrettanto vero, sottolinea Abate, che la disamina fortiniana sul poeta de La religione del mio tempo non è volta ad una condanna tout court, ma alla messa in luce della contraddizione che caratterizzerebbe l’opera e la biografia di P.P. Pasolini [11], del quale Fortini (e quindi Abate) salva sempre con convinzione la poesia, politica nel miglior senso della parola.
D’altronde, quando si parla di Fortini e del suo lavoro non si può non prendere in considerazione l’impegno politico, che non si traduce esclusivamente nell’appartenenza ad un partito (celebre la critica di Fortini a quello che definiva il “comunismo borghese” del PCI ma anche all’area dei gruppi autonomi della sinistra extraparlamentare [12]), ma nella consapevolezza, la stessa di Gramsci, Lenin o Brecht, che la cultura e la politica sono la stessa cosa espressa con mezzi diversi (secondo una definizione che si ritrova nel libro di D. Balicco Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale, politico, Manifestolibri, Roma 2006). A ben vedere, è questo il concetto cruciale della quarta sezione di Nei dintorni di Franco Fortini (La polis che non c’è non c’è), nella quale Abate, con dichiarata convinzione, mette in evidenza, in una serie di luoghi, il comunismo di Fortini, aspetto che, come accaduto in parte ad un altro grande scrittore contemporaneo come Paolo Volponi [13], spesso viene sviato o posto in secondo piano in favore delle considerazioni stilistiche, estetizzanti e filologizzanti fino allo stremo. Poco importa se il punto di vista di Abate risulta in questo capitolo a tratti predominato dalla nostalgia e dal pessimismo, ciò che conta è la riproposizione del paradigma fortiniano secondo il quale la dimensione dell’interiorità umana, e di conseguenza la dimensione poetica, non può prescindere da quella pubblica. Da qui la ripresa delle “disobbedienze” fortiniane (p. 144), le quali rispondono ad un “bisogno di comunismo” in grado di interpretare i processi storici, nonché il reale, al fine di cambiarlo. Illuminanti a tal proposito, oltre alle considerazioni positive di Fortini sulla Cina maoista, le analisi, commentate da Abate in uno scritto del 2013 qui riproposto, sulla prima Guerra del Golfo del ‘90 (emblematica la presa di posizione di Fortini contro Asor Rosa e Cacciari esposta in un articolo del 3 maggio del ‘91 uscito su “il Manifesto” dal titolo Filoamericani di sinistra: colonizzati e contenti)[14], così come sulla questione mediorientale: dopo la “guerra dei sei giorni”, ricorda Abate, Fortini, ebreo italiano, aveva scritto I cani del Sinai (De Donato, Bari 1967) nel quale afferma che Israele era diventata ben altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione, nonché punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunitense (p. 131). Emerge prepotentemente l’attualità di queste parole e al contempo la lontananza di prospettiva rispetto alle flebili voci di alcuni intellettuali nostrani che, di fronte al massacro a Gaza, faticano ancora a pronunciare la parola genocidio.
Nel prosieguo e verso la conclusione di Nei dintorni di Franco Fortini si torna a questioni più prettamente letterarie e l’autore presenta la tesi secondo la quale sarebbe presente, nella poesia italiana contemporanea e nel dibattito che la circonda, una tendenza ad “uscire dalla storia” per ritornare al valore assoluto del verso poetico: a guardare l’orizzonte intellettuale odierno, spesso piegato alla logica dell’individualismo, e quindi del mercato, questo quadro è innegabile ma la soluzione che porta Abate, una prospettiva moltitudinaria (p. 170) che definisce Moltinpoesia, appare purtroppo nebulosa e impraticabile, per sua stessa ammissione.
Ciò non sminuisce affatto, però, la rilevanza del libro di Abate che ha il merito, nel suo essere più o meno consapevolmente espressione di militanza culturale, come si è cercato di dimostrare, di rimettere al centro, così come altri lavori recenti [15], la complessità di una figura che ha incarnato, persino nella vita privata e in quella scolastico-lavorativa [16], il significato profondo dell’essere intellettuale. L’“attraversare Fortini” come fa l’Abate con le sue interessantissime letture, delle quali qui è stato possibile fornire soltanto un rapido excursus, ci indica la strada che si dovrebbe ricominciare a percorrere, da un punto di vista metodologico e politico-culturale, per non essere comprati, per usare alcuni tra i bei versi di Abate stesso dedicati al suo maestro, dal partito di coloro che ridono/poiché il mondo vuole essere ingannato.

Note

1. Lo stesso Abate scrive nell’introduzione al testo: «Sarei contento se chi sfogliasse queste pagine, non si fermasse alla testimonianza di un lettore sullo scrittore Franco Fortini ma s’incuriosisse alle “nostre verità” conservate oggi in lingua morta, che si può però sempre imparare e tradurre» (p. 8).

2. F. Fortini, Verifica dei poteri: scritti di critica e di istituzioni letterarie, Il Saggiatore, Milano 1965.

3. Interessante a tal proposito il suggerimento che Fortini, invitato insieme ad Edoarda Masi a collaborare alla pubblicazione della rivista “Laboratorio Samizdat”, dà alla fine degli anni ‘80 ad Abate: «porre in rapporto Cologno col mondo, poiché non esisteva più un solo problema che potesse essere affrontato senza mettersi in una prospettiva mondiale» (p. 27).

4. Lo stesso Fortini scrive nella Prefazione al Faust: «è un consiglio di Benjamin. Non ho voluto la traduzione che Goethe chiama “parodistica”, il rifacimento. Di questa nobile forma del pastiche i nostri anni conoscono alcuni bellissimi esempi. Ma il metodo della “traduzione immaginaria” mal si adatta al Faust, opera troppo ampia, fondata sulla varietà degli stili e su una pluralità di livelli (dalla prefazione a J.W. Goethe, Faust, a cura di F. Fortini, Milano, Mondadori 2023, p. LVIII).

5. Cfr. con E. Alessandroni, Ideologia e strutture letterarie, Aracne, Roma 2014, p. 273: «Lo Streben di Faust risulta contrassegnato da un inesauribile amore verso il mondo, con la consapevolezza delle tragiche e immani contraddizioni da cui è attanagliato, assieme all’angoscia, che incessantemente lo perseguita, di non sapervi trovare soluzione».

6. F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Bari 1977.

7. A proposito di una certa aurea “antimoderna” cfr. con quanto scrive Abate sul dialetto: «il dialetto- questa è una mia ipotesi- è forse la mia terra del rimorso, quella di cui parlava Ernesto De Martino negli anni Cinquanta del Novecento quando il mondo contadino del Sud si stava avviando alla apocalisse indotta dalla modernizzazione industriale» (p. 71).

8. M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Guanda, Parma 2010.

9. Celebre l’incipit dell’introduzione di Attraverso Pasolini: «Aveva torto e non avevo ragione. Una differenza c’è, la conosco. Il conflitto di indoli, poetiche, intelligenze e impegni, che fu il nostro, il tempo non sopravviene a renderlo illusorio più di quanto non faccia con ogni impresa ed esistenza» (F. Fortini, introduzione a Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1973, p. I).

10. Scrive Fortini: «Quanto in lui e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania per un giovane d’oggi. Ma non eravamo né pazzi né fanatici. Eravamo, a poco più di dieci anni dalla fine della Seconda Guerra, nel cuore del secolo, ancora ricchi di qualcosa che – scrisse Pasolini – ci faceva piangere guardando Roma città aperta. Le lacrime non sono affatto un buon criterio di giudizio. Eppure mi piacerebbe sapere che cosa possa oggi far piangere un uomo di trent’anni, che tanti allora Pier Paolo ne aveva» (ivi, p. X).

11. Cfr. con: «Ho dunque avuto un doppio fine: indicare un tragitto e dimostrare una contraddizione» (ivi, p. XV).

12 Ricorda Abate: «per Fortini l’Autonomia, vedendo l’organizzazione come una trappola, rifiutando un ‹‹programma, un comitato, una sede››, volendo ‹‹coincidere col movimento››, pronunciava an- cora una volta la verità, ma con le ‹‹parole dell’errore››; e finiva per tributare un ulteriore omaggio ‹‹alle tragiche coglionerie delle avanguardie›› (p. 140).

13. Così, ad es., in alcune delle pur pregevoli celebrazioni per il centenario della sua nascita tenutesi a Urbino durante tutto il 2024.

14. Cfr. Sette canzonette del Golfo in F. Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1974.

15. Cfr. F. Fortini, Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani con Donatello Santarone, Bordeaux, Roma 2024.

16. Si veda la sezione Ruth e Franco, p. 177.

  • L’originale della recensione di Alessia Balducci  è comparso nella rivista Materialismo Storico, 1/2025 (vol. XVIII) – E-ISSN 2531-9582 (QUI), nella sezione Recensioni col titolo: Ennio Abate: Nei dintorni di Franco Fortini. Letture e interventi (1778-2024), Edizioni Punto Rosso, Milano 2025, pp. 214, € 24,00, Isbn 7788883513046.

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