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Sulla carta genocida dell’Impero (Parte terza)

di Marco Ceriani

TERZA PARTE

«Scheletrario senza crani» è una delle espressioni più forti e iconiche del poeta De Signoribus, per quel suo guardare dall’alto l’immane scempio degli umani abominii nelle lunghe file di agghiacciate sindoni… e, con gli infiniti «lumini-schermini» accesi sui campi dell’uomo, Egli ci dice, con una forza da nessun altro poeta conosciuta, come sia occhiuta la notte del mondo con queste sue fiammelle d’una pentecoste alla rovescia, rossa negli apici della brulicante rete degli schermi, bianca nelle sindoni inamovibili stese d’incontro alla terra delle ceneri. D’altro canto De Signoribus può guardare a una siffatta notte di tregenda, senza timore di scendere a patti o di dover retrocedere, a cammino avviato, dai suoi propositi; ispezionare dal di dentro i muri putridi e verminosi dei nostri terreni ricoveri, claustrandovisi, opponendo loro il pollice recto del suo Castillo interior, potendo la sua scrittura lambire, sino a toccarla, la verità, giacché in lui scrivere è de pectore orare.
«Scheletrario senza crani» fu in Ronda dei conversi, del 2005, e ora in questo suo nuovo libro, Ceneri germogli ceneri, — che solo pigramente potremmo definire riassuntivo o auto-antologico, in realtà profondamente caratterizzato da una sua precisa fisionomia (le diverse tessere dei libri che fanno la storia della poesia di De Signoribus vi sono deliberatamente mischiate, a scapito della loro diacronia e in favore di una sincronia, da battezzarsi persino, volendo, “metacronia”, ciò che permette l’avvicendarsi, sul palcoscenico dei versi, di un tempo “ciclico”, vichiano o, ancor meglio, secondo i nuovi acquisti novecenteschi, proustiano… ) —: inaugura la sez., «VIII Verso il 2 (Nel passaggio del millennio», caratterizzata dai suoi nonversi, saggio dei quali Egli ci aveva già dato in «(trapasso di stagione)» alla fine della VII sez., e prima ancora in «Delirio-Idillio», a p. 42, appoggiandovisi come la smorfia di un rictus. L’1 e il 2 che campeggiano nel cuore della sequenza, come se fossero le due immani lettere-cifre rosse che si stagliano riverberate minacciosamente dalla corazza dell’epoca — non il 1…9 né il 2…1 ecc. — voluti con un colpo d’ala e con un magnifico coup de théâtre dal poeta-demiurgo — smuovono con un fragore potente non due secoli, che sarebbe già molto, trascurando il defilarsi e l’insinuarsi di due decadi o il passaggio della cruna di un anno e il subentrare di un altro, ma due millenni… Grazie a questo stratagemma tutto, in un siffatto libro “nodale”, appare immenso, immane (in-manis). E anche il ricollocamento di essa sequenza nel nuovo ordine staglia “in abisso” tutto il lavoro senza pari di un tanto Artefice-Artifex additus artificii di sé stesso, questo subliminale critico di sé. Le cifre “scarlatte”, come «La lettera scarlatta» della colpa, si ergono simili a un altopiano, lungo il quale corrono sfilaccicose le nubi oracolari del disegno ordito dal demiurgo, al perfetto centro di questo nuovissimo, fiammante (nel senso di flamboyant, fiammingo…) e pur di un mesto, dolente francescanesimo, Ceneri germogli ceneri: «la vita che tu accogli / solo così non è: / un risentire c’è / tra ceneri e germogli (c.vi nostri), in «Fine d’anno», p. 100, a chiudere la sez. VIII (mi ostino a chiamarle “sezioni”, varrebbero piuttosto “stazioni”… di una dolente Via Crucis!). E ai piedi dell’altopiano pullulano e si rincorrono le squadre delle strofette-quartine di «IX Arie e contrarie» in (la caduta) (bomba) (smanierata) (miracolata) (invocata) (disperata) (fine), magnificamente ai piedi di quella altura di “millennio fine e principio”…; per continuare nella «X D’acqua e d’aria» con le terzine e ancora le quartine liturgicamente scandite: qui fa il suo affaccio un ritmo, mi verrebbe da dire, santamente ambrosiano del poeta: «ho fatto il giro largo della casa, / a lungo ho nuotato, inseguito / tutti i raggi sull’acqua…» («Ho provato»), p. 113, alla ricerca, mi verrebbe anche da dire, di un suo Manzoni: «non ti ho ancora trovato / non smetto di cercarti / so che sei qui», in chiusura-clausula del Lied.
Di questo poeta, simile a un agostiniano che si lavi le mani alla fontana del sangue, il lettore sente nel cambio repentino del ritmo, dovuto al picco centrale di VIII, che Egli poeta vi è intervenuto, in dissidio col suo respirante schermo prosodico, in piena insoddisfazione con quel règime, e dà quasi l’impressione di volersi auto-flagellare, gettare il saio alle ortiche, mettersi col suo metro fuori posto, per una sorta di immedicabile incontentabilità, di face-matrice etica prima che estetica. Si tratta di quasiversi che mimano l’andatura della prosa, senza in pieno centrarne il respiro; qualcuno direbbe — per l’apparenza convocata, di sola suggestione retinica — trattarsi di nonversi whitmaniani; o, per stare vicini a noi, accosto alle nostre eversioni secondo-novecentesche (ma non c’è un poeta sulle odierne scene più avverso di De Signoribus agli avanguardismi, specie se conniventi con le più sterili ideologie), allusivi di un verso a fisarmonica “alla Pagliarani” o nel segno delle «Postkarten», sanguinetiane, ma Egli non è e i suoi Lieder non sono nessuna di queste tre opzioni, mancando in lui totalmente la solennità ottocentesca del primo, il ritmo sincopato o rap del secondo, il metaforismo post-schönberghiano o post-weberniano del terzo… né vi officia, ripercosso negli anellidi di accenti scazonti, il poderoso cantiere poundiano… Certo anche qui manca un riconoscibile centro melodico, la catena versuale appare degerarchizzata, come è ben patente nel poundiano “letterale” Sanguineti; vengono tuttavia emblematizzati i nuclei accumulativi dell’invettiva, dell’appello («Ma chi li guarda più i trascurati quando / è diverso il peso dei vivi e dei morti?»), p. 95; e appena più sotto, nello stesso testo (si vorrebbe dire al v. 5 — ma qualcosa mi trattiene dall’adottare questo schema della numerabilità, come se la bruciante e amara constatazione, rivolta ad esso e ai suoi conseguenti, ardesse accanto al continuum di una vita esfoliata che più cruda vita mai si è potuto né mai alcuno ha osato, e come se ogni artificio retorico-prosodico vi fosse abolito —): «Nell’odierno imperio è stabilito che, alla violazione / di un corpo di serie A, subito si risponda / con una vendetta moltiplicata… cioè che sia scorporata, / sotto un corto mantello, un’intera genìa / di serie minore…»
Le tre I, così simili all’ 1, di: «inermi», «infermi», «inferni»: giocate su sei sole lettere, nell’ordine alfabetico le e, f, i, m, n, r, le sorti di queste (e questi) figlie (figli) di un dio minore si giocano su un “tabulato truccato” e sul monito di: «che la morte non sia sola / e si tema la colpa più del lutto» (sempre a p. 95).
A seguire il profilo dei versi designoribusiani, i nonversi della sez. VIII sono quelli che più arditamente e cospicuamente rompono il ritmo, fino a questo punto giocato su un passo normativo stabile, frutto di versi canonici tra endecasillabi, con qualche sforamento verso l’ipo o la ipermetria, e misure minori; e improvvisamente il lettore si imbatte in questo slargo, ma fatica a comprendere di che paesaggio si tratti — si ha la netta impressione che i detriti in esso la facciano da padrone (sennò lo «scheletrario» cadrebbe come un oggetto alieno e ciò non si accorda, né plenariamente né giurisdizionalmente, al raisonnable del poeta, che vi si mantiene a ‘polso fermo’, dove l’amarezza parrebbe tracimare; quel sintagma ‘polso fermo’ sulle prime richiamerebbe Nelo Risi, ma è un trompe–l’œil, non Nelo Risi, bensì Manzoni per i moduli da “inno sacro” che in De Signoribus riguardano gli «esodi»: ma con Risi, eco fioca, Manzoni non è fuori luogo, e dunque ecco che il cerchio si chiude et tout se tient). C’è stato sì un «(trapasso di stagione)» e prima ancora in «Delirio-Idillio», uno svuotamento già di sistoli e diastoli dal cuore del ritmo, ma furono ancora aritmie innocue… La vera crisi si avvera e invera col «passaggio del millennio», benché pur quelle in-nocenti episodicità abbiano istigato con il loro riverbero detta crisi; poi ci sarà una coda di punteggianti svanenti nonversi ma consegnantisi quasi arresi a una ortodossia di fondo. La strategia ricorda le transitività e alternanze tra luce e buio, cornici di putride paludi, gironi infernali e improvvise chiarìe, chele di fango di camminamenti carsici che ti imprigionano nella loro morsa, ed esultanti picchi di plein air (dice acutamente Verdino convocando, confancentisi, certi loro campioni: «la luce si converte in pane»; «e se alla prima luce non vedessi / la casa dalle finestre aperte / m’accascerei»)… La Fede non è mai estinta in questo poeta, anche al più cupo dell’amarezza; la più fragrante “Humilitas” mai lo abbandona, mai!: «nil insolens mens cogitet […]», Ambrosius Mediolanensis, Hymni, Ad horam tertiam, anche al più cupo dello sconforto.

POSTILLA ALLA TERZA PARTE

Arrivati a «XI L’era dell’imperdono», nel lettore che si vorrebbe scrutinatore di questo immenso capitolo “del pensiero umano e delle scienze morali”, ogni resistenza (si intenda: volontà di opporre un commento!) cade… Non c’è che da trascrivere e lasciarsi andare: «è l’era dell’imperdono / che si dispiega bassa / nell’uno e nella massa // è l’era dell’imboscata / dei miti di ritorno / di potenza e crociata // è l’era in cui solo / il seme dei sentimenti / mi riporta a me // e ogni tanto rinasco / e voi rinascete in me / oh fraterni e perduti // negli inferni dell’era / nel dissenno a raggiera / nello scacco dell’uno // e della schiera» (p. 127-8)… Tolle et lege! verrebbe da dire. E «L’ammasso degli innocenti», con quell’«ammasso» ancor più incusso che “strage”, e «Popoli sotto il fuoco», focalizzanti le neo-colonne del fuoco biblico o della nuova Apocalisse, vengono a incendiare e a sgrammaticare le nostre agende di esangui osservatori-ascoltatori…
Dopo la sosta nella «XII L’innocenza», con le bellissime «Alla rima» — da leggersi quasi alla stregua di una dichiarazione di poetica e idem «Accoglienza della prosa», entriamo nella «XIII Esodi», ripercossa in una excusatio non petita: «Perdona la ripetizione ma / la sordida historia si ripete», p. 155, «Esodo primo»… Di nuovo torna pronunciabile su labbra umane la migrazione dell’antico popolo e del nuovo, l’odierno… Altro non si tollera aggiungere alla Summa, solo il vocativo — quasi imperativo! — rivolto al lettore: Tolle et lege!

— «lo ammetto, sono sgomento… / mi ospita un fradicio muro / che scola da ogni lesione, / crollerà sul marcio cortile… // le mie mani reggono, vedi, / un dignitoso disegno, / come traversassi un guado / senza torcia o mantile // sperando di non affondare / e in alto le mani tenendo / come se un dono invisibile // avessi da traghettare… // e tu che sei là, tu oltre, / tu altro, voce mediana / che credi al tuo fine, / dimmi se è un bene giungere a te // dimmi se sarò / tuo ospite o prigioniero!… / intanto questo cancellato sentiero / attraverso con le mani in alto»…, p. 114-15, «X D’acqua e d’aria»
Si è arreso De Signoribus? non crediamo!… l’assenza di un punto fermo, in chiusura del Canto di cui si è offerta trascrizione, ci fa ben sperare e credere che, mani in alto o abbassate come dure mezzelune o falangi falcate in atto di fendere la folla degli ‘inermi’ e ‘cancellati’, allo scopo di riscattarla, noi porteremo, alte tenendole come dure avanguardie testimoniali, dietro questo nostro Qohélet che non deflette, questo nostro Giobbe che paziente dimora, pur sragionando nel più ostativo melmoso — noi scaglieremo il nostro dardo, dalla terra offesa e transeunte all’acrocoro del trascendente che le fa guerra: per averla infine pacificata e riconciliata.

Sulla carta genocida dell’Impero (Parte seconda)

di Marco Ceriani

SECONDA PARTE

Al passaggio diaframmatico di tensione della forma con purezza introspettiva del pensiero, doloranti sulle grandi tragedie planetarie, si situano le «Campali e ritrose» e le «Belliche». Importante sottolineare lo “istmo” che fa sì si costituiscano come un’endiadi, ma che pure le separa, distanziandole senza che de lejania en lejania questo iato appaia. La postura spoglia di indizi terrestri in chi legge siffatti componimenti, impone di auscultarne il messaggio, dandone per implicita la forma, la quale consuona con il sommesso deflagrare della musica che investe il nostro “tempio dell’udito”, nel suo accadere “fenomenico”, scaturendo dalla sorgente umbratile, luminosa e puntiforme del “noumenico”, da cui è sostanziata.
Nelle due summenzionate sezioni, che sono la V e la VI, come con grande acume ha notato Giorgio Agamben, non ci sono punti, quei punti fermi che chiedono al respiro una tregua, un abbandono; però ci sono i tre puntini di sospensione, che avvolgono le file — miliziane, mi verrebbe da dire… — dei loro distici (forma prevalente nel poeta in questa sua stagione, già anticipata però dalle «Gridelle» sez. IV… e che si protrarrà anche oltre la VI sez.); un cicalìo di file semi-udibile, nella sua marcia, il quale ci dice e non ci dice dove quelle falangi vanno, con sommesso strepito, in una nebbia purgatoriale che le avvolge fino a farle svanire: sicché ne sentiamo i suoni chiocci dileguarsi in essa, nebbia e fessa marcia.
È eminente in De Signoribus un attraversamento di paesaggi brulli in cui sembrerebbe smarrita ogni comune mèta, come sulle prime si direbbe sia primigeniamente accaduto in Caproni; ma nel nostro poeta, mentre questo smarrimento è operante, l’agnizione, vale a dire il riconoscimento di un siffatto luogo, in cui egli pur non è mai stato e dove il suo assetto brullo e spoglio, come lo spiazzo sul quale si affaccia la capanna dell’eremita, dichiara da subito che la sua circoscrizione è con gli ultimi; ebbene in una siffatta identificazione noi ce lo confermiamo, che il legislatore di una così pacata «civitas» ci appare disarmato e inerme, immantinente, e il suo imperativo di docile predicazione vi si fa cogente: dietro l’identità perduta o forse mai esistita sopravvive la concreta sagoma del passaggio che consente l’Esodo. Questo fa tutta la differenza col grande livornese. L’Esodo sarà allora anche verso il mutamento delle forme — e così ai prediletti distici, terzine e quartine in endecasillabi o in misure minori, tra le nobili della nostra Tradizione, subentreranno e si sostituiranno i nonversi o quasiversi, come vedremo al loro luogo, i quali vi si faranno nutrimento, radici, a una tal lingua, peculiare a tanto poeta.
Però tornando al punto, ci sono molte virgole in questi segmenti V e VI che punteggeranno anche nel seguito le tessiture designoribusiane: le virgole, diversamente dai punti fermi che impongono una piccola pausa di quiete, sezionano invece le stringhe dei versi in segmenti-moncherini a cui lisciano la superficie scabra, come di certe chiese di campagna remote alla pieve: secchezza che si direbbe officiarne i riti scarni come in una lezione di “economia brechtiana”, la quale dovrebbe consentire al poeta di emettere giudizi morali, senza affatto parere di farlo….Risultato è che egli, De Signoribus, riesce a imprimere un grande vigore morale nei suoi versi, ma essi sembra si dotino della nobiltà di ogni singola parola da cui sono animati, agitando in ciascuna un vessillo riparatore, grazie alla purezza senza compromessi che il poeta è riuscito a infondervi, e anzi, saggiandovisi, con la certezza che le parole che ne fanno il tessuto connettivo vi si costituiscano in armature, benché ancor clamanti — e qualcuno suggerirebbe: nei gonfi siparî di una apparente retorica!… —, in realtà a dimora negli spazî brevi ed au bout du laconisme di una concessa auctoritas! Nella prima parte ho detto che solo a De Signoribus è concesso di parlare delle immani stragi planetarie, e qui vi è la prova provata… Poi vi è il suo imparvente aplomb nomenclatorio (come se alla sua coscienza fosse presente la lezione di Flaubert, tuttavia più arteriosa in quest’ultimo, soprattutto nell’apice dei Trois contes, nel suo tassello mediano, La légende de Saint Julien l’Hospitalier, mentre il nostro Eugenio avvolge il suo dire in una sorta di garza forse col proposito di voler attutire il colpo, come un mettere il bottone alla punta del suo fioretto, allo scopo di non ferire ma soltanto scalfire, così la rossa firma di una simil-cicatrice apparirà più “urlante”, tecnica solitaria di un poeta che ha davvero il «batticuore» come «metronomo»… E ancora: mentre Flaubert nomina naturalisticamente [la muta dei cani, quella dei grifoni…], De Signoribus nomina per via di epiteti, spesso risentiti nello snocciolare appelli sgomenti ai sordi “signori del male”)… Ecco pertanto disporsi in drappelli binarî e ternarî, o anche più assiepati, i suoi elenchi, le liste — da parte di un inerme — delle sue proscrizioni, indirizzate senza fare sconti agli artefici dell’universale male: in (considerazione) p. 61: «[…] la radice, il nesso / dissennato dei duci, il contesto, sì, malato…»; poi appena più sotto: «e loro, le teste d’ago, i male allattati, / i crociati, i macchinosi sbandieratori / acciaiosi s’ergevano sui picchi, alati, angeli risanatori in salmi augurali…»; e concludendo il suo dolente Lied, ecco l’esplosione verminosa, dopo le forche dei fumi, del “volume” della morte: «qui la battaglia, vedi, qui l’ammasso / delle salme, la fossa comune, la bonifica…[…]», e si potrebbe continuare ad libitum; ma vogliamo sottolineare come la virgola, rivestendo una tutt’affatto peculiare funzione, scandisca ogni elemento del discorso come esposto in una nicchia, come in piccole — devote al risentimento — nicchie, ognuna di esse un Sancta sanctorum del Dégoût che scaglia verticalmente il proprio appello, affinché l’uomo ponga mano spirito e attenzione alla dolcezza del cuore, alla mitezza dei sentimenti, all’ascesi della preghiera, alla sua più intima vocazione, tributaria dell’oltreterreno: per, se non tutto è perduto, recuperare almeno, custodita nella bolla infrangibile della memoria, una primitiva felicità… (altri esempi di siffatte nominazioni-figurazioni alle pagg. 62, 67; e in «Belliche» a p. 73, 74, 77, 78…) Voglio appena soffermarmi a indicare, entro l’universale sfacelo descritto a ciglio asciutto in (esplosione) — «pianti, carni, […] sangue / nel crepaccio [che] ribolle, lordo spaccio… // larghe penne corvine non misericordiose / come pale stizzose [che] i ventri fendono // le viscere [che] svelano i loro funghi panciuti / e gli occhi [che] mai pensavano di vedersi così // tra animali che piangono i loro figli / gli uni agli altri invisibili, perduti…» — pagg. 62-63; voglio appena — a indicare, entro tutto questo dolore sciorinato “immalvagito”, un intervallo quasi d’idillio — fermare il mio occhio sull’oasi di p. 67 (fotografia): «era il cinquantasei davanti al fuoco / che mangiavo le mele come sfogo» (il lettore se la cerchi questa poesia, e se la ingolli e la mastichi lentamente e la mediti tutta prima di trangugiarsela…): già in quell’edenico, favoloso «cinquantasei», lo stigma del peccato, col furto «per sfogo» della mela, è sul bambino, poi uomo… Ma anche testimonia come la colpa sia inseparabile dalla più irredimibile innocenza e le «case perdute» — di Gaza, di Ucraina, di tutti i più cruenti teatri di guerra, degli infiniti pogrom, dei silenti crimini della sopraffazione a danno degli ultimi — siano unanimemente le «case perdute» di ciascuno…
De Signoribus è un «Poeta» maiuscolo, nel quale lare benigno è il suo «salvacondotto» che gli consente di guardare, senza pietrificarsene, alla maligna Medusa del mondo…
Egli è — se mi è concesso di esprimerlo, un così patente ossimoro! — un grande «Tragico della Speranza»…
In re, in fide, in spe… egli è l’ultimo Eschilo.

FINE DELLA SECONDA PARTE



(Postilla alla seconda parte)

Quando leggo i versi di Eugenio, sento come il compirsi di un miracolo, e particolarmente dai suoi distici, che sono senza meno la sua strofe prediletta, avverto come il diffondersi di una luce morandiana, la quale avvolge la collina che sale, con mite pendio, verso il suo acrocoro, dove, simile a un diadema di pietra, irradia i suoi sortilegi carcerarî, ma anche mistico-teologici, la cittadella, che egli battezza col nome di «fortezza»: «la civile fortezza occidentale», p. 73 (gara civica).
A p. 74, «i cupi gladiatori» (gara celeste), che lasciano intravedere un agone, il quale potrebbe svolgersi sugli spalti di un castello, come quello di Elsinor — e infatti sento, leggendo, nel fremito della concitazione, «i fingitori // inginocchiati, i portatori d’orpelli / lampade, fuochi, faville, appelli…»: pare di vedersi agitare e rincorrersi, in siffatta animazione, Bernardo e Marcello, sopraffatti dallo sgomento per aver visto lo spettro del re, padre di Amleto, sugli anzidetti spalti —; e poi nei «… solchi scellerati e […] cancelli / fissati dalla mente criminale», in un «luminìo campale», presenti in (……) di p. 78; in una «torre che la schiera ai venti», di (posizioni), dalla sez. VII «Luoghi introversi» (parlante un siffatto titolo!) di p. 83; a p. 84 c’è, in (mutazioni), un «fortino // e non apre, smiccia dallo spioncino / la sghemba orrenda faccia del mondo»: eppure tra costoro «nessuno che ne esca o lieto vi torni, / non un’apparizione o sgranare di passi / non strappi di pelli o lancio di sassi…» (dormiveglia) — e si chiede il poeta: «chi sono i vivi di questo luogo?», a p. 87; ebbene tali schierati, tra “carcerarietà e carceritudine”… de carcere et vinculis…; e tali ricoverati a difesa in postazioni erette in plaghe desertili, non aduggiano forse il nostro vile abitare il saccheggiato, l’infinitamente profanato pianeta? Avremo mai rimedî da questi scassi? cominciò con la terra da coltivi, mediante uno scudetto d’osso o di selce, Caino, e se ne fece poi arma del fraticidio…
Da questo spioncino-feritoia spia Eugenio “pour inspecter le désastre du monde”… Una dimensione dunque «carceraria», ma “carceraria” dello Spirito, che ritrovo in Fortezza di Giovanni Giudici, in Erodiade di Gustave Flaubert, terzo dei Tre racconti («[…] una strada, tagliata a zig zag nella roccia, collegava la città alla fortezza, le cui mura, che misuravano centoventi cubiti d’altezza, con molti angoli, feritoie lungo i bordi e qua e là delle torri, sembravano quasi le gemme di quella corona di pietra sospesa sopra l’abisso.» tr. it. di Giovanni Raboni; corsivi nostri…: la «fortezza» ivi descritta è quella di Macherunte, a oriente del mar Morto, dove nella sua condizione “carceraria” il Battista attendeva la decollazione…) — tali richiami denotano universalità in un poeta partito con un’attenzione certosina ai suoi poderetti, a un suo “hortus conclusus”; e proprio all’ecumène della sua stagione più matura e alta e oltre esso, è stato possibile attingere, proprio per via di tale scrupolo, il più devoto all’umile quotidiano, sfidante con sovrano coraggio l’indugio dello stare in intériery dai quali potevano sì «sbocciare le mani d’argilla dei morti», ma anche i vermi-ganci ritorti, rugginosi, pencolanti e brulicanti di sotterranee putredini, trincee, inabissamenti in un Ade che ci viene diuturnamente scaraventato contro, a sgomentarci coi suoi incessanti “appelli”… Anche questo virgolettato — che è tale perché sia ben chiaro che non me lo sono intestato, bensì auto-imprestato — è designoribusiano: infinita la corona di “appelli” che si sprigionano dai suoi versi e che potrebbero funzionare in lui alla stregua di inneschi “metacronici”: presto la corona in testa a un tal poeta dalla sovrana semantica!
Poi a chiudere la «VII Luoghi introversi», e a suggellare la sovranità di detti volumi della figuralità-figurazione, con l’ampia escursione di valori timbrici e tematici che vi sono presenti, sono i nonversi di (trapasso di stagione): «(ciò che da lontano sembrava una fortezza, si rivela / un piccolo cimitero di campagna, con un’esile cinta / muraria. Persa ogni traccia delle porte Scee, un cancello / aperto lascia allo sguardo una spoglia sequenza di larari. […]»… E anche qui, se delle «porte Scee» tutti sappiamo: un lettore visionario non vi potrebbe vedere o stabilire una congiunzione con il cimiterino campestre che nell’Amleto porta il becchino a dar di cozzo, nello sterro, sul teschio — larario-scheletrario — del buffone Yorick?
Dopo la «fortezza-Elsinor», ecco dunque la spoglia sigillatura cupa e muta della morte: passeggiando tra i sentieretti ghiaiosi di un cimitero… «It must be se offendendo».¹

E possiamo dimenticare infine l’attenzione che Eugenio ha sempre rivolto al suo Holan, il «poeta murato»², il «re nel suo regno di spine»?

Note

¹ Hamlet, [V. i.] v. 9… Nella scena, presso il danese cimiteruccio, due becchini stanno disputando sulla legittimità, decisa dal giudice, di una cristiana sepoltura (Christian burial) per Ofelia suicida, e il primo becchino risponde al secondo che gli ha mosso l’obiezione: «Dev’essere stato se offendendo (tr. it. E. Montale), adombrando forse nell’espressione italiana presente nell’originale del First-Folio una formula giuridica.

² «[…] chi andò a trovarlo in quegli anni […] <ne> ricorda la sanguigna robustezza contadina e l’apparentemente incrollabile salute, a dispetto delle micidiali sigarette che fumava di continuo e del fiasco di vino rosso che teneva accanto a sé sul tavolo del suo tinello-fortezza.» (c.vo nostro) G. Raboni, Prefazione a Il poeta murato.
E: «”Pohleďte!” pravil, “morový hřbitůvek, / a je větší než Dánsko! […]» (“Guardate!” disse, “un cimiterino di appestati, / ed è più grande della Danimarca! […]», V. Holan, A pravě (E proprio) in Předposlední (Penultima).