La Gigia

sfuggente

di Roberto Bugliani

La Gigia era l’automobile che ogni mercoledì sera trasportava Fanny da una città all’altra, trasferendola dal bilocale al piano terra nei pressi della stazione con le imposte sempre chiuse e la luce elettrica accesa in continuazione a un altro bilocale d’un altro pianterreno nelle vicinanze d’un’altra stazione con le imposte perennemente chiuse, la luce elettrica regolarmente accesa e il canonico rituale di segreteria telefonica, citofono, cellulare, poster di modella nuda alla parete e porta a soffietto che nascondeva la minuscola cucina sempre in disordine.
Si trattava d’una wolkswagen golf cinque porte azzurro metallizzata, che in due anni aveva macinato oltre 90.000 chilometri, ma non li dimostrava affatto, anzi, a vederla sonnecchiare nel parcheggio sottocasa, pareva proprio una giovincella che, malgrado l’aria all’apparenza pigra, avrebbe tirato fuori alla bisogna una grinta sbarazzina pronta a macinarne altrettanti, di chilometri, e poi altri, e altri ancora. La Gigia la guidava Ferruccio, il proprietario, innamorato perso della Fanny senza che mai lei gli avesse corrisposto che so, un sospiro modulato sui toni cocenti della passione o uno sguardo ardente in agguato dietro il battito civettuolo delle lunghe ciglia, insomma nessuna ricevuta di ritorno per effettuata consegna.
Fanny ricompensava con una dovizia di garbati ringraziamenti, sorrisi lusinghieri e smorfiette graziose la remissività da lacché di Ferruccio, ma al fondo della melassa di gentilezza e benevolenza di lei lui sentiva come un cazzotto alla bocca dello stomaco la freddezza dell’indifferenza, che nessun servigio avrebbe potuto disciogliere. Le dolorose esperienze sentimentali di Fanny avevano inaridito definitivamente il suo cuore molto tempo prima che Ferruccio le porgesse sul vassoio d’argento della sua dedizione assoluta la propria vita, perché la donna potesse incontrare in quell’uomo un po’ attempato ma buono e generoso, che sottostava a tutti i suoi capricci senza mai protestare, il principe azzurro cercato da adolescente, quando era fuggita dal fetore insopportabile della miseria che ristagnava sul paese di baracche dov’era nata per iniziare la sua avventura mercenaria lungo le strade del mondo.
La notte che la Gigia spiccò il volo sembrò una figura di vallenato [1] che realizzasse il sogno ossessivo di Fanny sulle note struggenti di vai, puoi volare… io ti presto le mie ali… mi hai fatto vivere l’illusione… non ti fermare, amor mio… continua la tua vita… io non ti trattengo… Parole d’un melenso dramma di repertorio che accompagnavano nel mangianastri i viaggi autostradali della Gigia e scandivano il tremito fastidioso delle labbra scolpite dal rossetto di Fanny allorché cercava di dissimulare, con la fatuità d’una risata improvvisa, la tristezza senza tempo che le incupiva il viso.
Anche la famigliola di cagnolini in peluche che Fanny gli aveva regalato durante le soste agli autogrill si prese uno spavento boia e le bestiole finirono a gambe all’aria, sbattendo e rimbalzando contro le pareti metalliche del bagagliaio che presidiavano come lari un po’ speciali, preferendo rimanere rintanati in quel cubicolo buio e asfittico anziché assistere, appesi ai vetri dell’auto, ai penosi sospiri di lui e all’abissale lontananza dei pensieri di lei.
La Gigia volò per una curva presa male dopo una malaccorta frenata nell’aria allarmata della notte e atterrò sopra una coltre di rovi che addobbava la scarpata dov’era finita. I robusti tentacoli usciti da quel letto di spine s’infilarono dappertutto avviluppandosi ai paraurti, al semiasse e alle borchie delle ruote. Per tirarla fuori, l’addetto del soccorso stradale dovette aumentare al massimo la potenza del verricello del carro attrezzi, così che, dài e ridai, riuscì finalmente a spezzare i tentacoli che la avvinghiavano, sottraendola al loro perfido disegno di trascinarla in qualche girone infernale che il suo conducente di certo non meritava.
Erano da poco trascorse le undici di sera quando la Gigia si lanciò nel primo volo della sua vita. Nel contraccolpo della caduta Ferruccio incrinò con la fronte il parabrezza senza tuttavia riportare alcuna contusione, nemmeno un piccolo bernoccolo, come constatò stupito all’uscire dall’abitacolo.
In realtà non era tardi, ma Fanny quella sera si sentiva più stanca del solito, la giornata insolitamente afosa e fitta d’appuntamenti l’aveva stressata, e Ferruccio s’era accomiatato da lei dopo averla riaccompagnata a casa dal ristorante dove avevano cenato: un casto bacio sulla guancia, un secondo finito truffaldino sulla bocca, con le labbra di lei impenetrabili, che edulcoravano il loro fermo diniego con un sorriso dolce e tenero, come di scusa.
Ogni volta che la salutava, Ferruccio viveva la separazione temporanea da Fanny quasi si trattasse d’un addio per sempre. Non sapeva in che modo opporre rimedio a quella sensazione d’una inconsistenza angosciante, che lo opprimeva come un malessere sordo, e si lasciava trascinare inerme da quel terribile sentimento d’abbandono nel risucchio della fatalità e della disperazione.
Il cane nero di media taglia sbucato da un pertugio della notte gli venne incontro non appena scese dal carro attrezzi, lo annusò festoso a una gamba e lo seguì fedelmente fino a casa, talvolta precedendolo nella corsa d’alcuni metri, ma fermandosi scodinzolante ad aspettarlo ogni volta che lui s’attardava. – Un duende, è di sicuro il duende che m’ha protetto quando sono andato fuori strada -, commentò tra sé Ferruccio la bizzarra apparizione che lo stava scortando, ricordando le storie fantastiche di folletti e spiritelli che popolavano le terre tropicali dove Fanny era nata, e che la mulatta gli raccontava con una serietà disarmante quando l’onda della nostalgia straripava incontenibile dagli argini del silenzio eretti dal suo animo disincantato e le allagava le pupille della luce vivida del ricordo.
Il giorno dopo il suo analista sentenziò che l’incidente aveva tutti i crismi d’un atto mancato. Lui non poteva escluderlo, ma nemmeno confermarlo. La matassa era talmente ingarbugliata, o almeno così gli appariva, che non riusciva a districarne il filo per consegnarlo a un’interpretazione qualunque fosse. Il significato di quanto era successo preferiva lasciarlo nell’oscurità notturna che aveva avvolto l’evento, e considerarlo una semplice mossa dell’interminabile partita a scacchi giocata con il destino. In fin dei conti, la questione gli pareva di scarsa rilevanza. Ciò che contava davvero era che meccanico e carrozziere facessero un lavoro di fino, perché la Gigia riacquistasse la sua splendida forma e potesse mordere baldanzosa altro asfalto, divorare altri chilometri. Ma quanti ancora? si trovò a domandarsi, mentre le parole del vallenato rimbombavano profetiche e invitanti nella sua mente esaltata: vai, puoi volare… io ti presto le miei ali… non ti fermare, amor mio… continua la tua vita… io non ti fermerò…

[1] Il Vallenato è un genere musicale caratteristico dello stato della Colombia. Il suo nome proviene dal suo luogo di origine, ovvero la “Valle”, territorio in cui nacque

3 pensieri su “La Gigia

  1. …molto delicato questo racconto di Roberto Bugliani, sia per il narrare piano, per i bei colori pastello, per le note musicali e persino comiche che qua e là punteggiano la trama, direi solare…eppure inscena un dramma umano, quello della delusione, che sopraggiunge inevitabilmente quando il filo di un desiderio cocente non corrisposto infine si spezza, lasciando l’animo scoperto a qualsiasi reazione…Per fortuna Ferruccio, il protagonista, ha i suoi numi tutelari: Gigia, la cara automobile, amica di viaggi e testimone, che si interpone tra lui e il destino e assume su di sè la ferita, un cane nero che lo segue nell’ombra e una musica di paesi lontani…E’ anche un racconto dalle note tristi in quanto descrive l’incapacità umana di donarsi reciprocamente la felicità…pur desiderandola

    1. Ah, cara Annamaria, hai tanta ragione, ma vedi molti uomini se non possono avere la donna che amano, hanno comunque una auto oppure una moto….

      1. beh, piuttosto che niente van bene anche un cane nero e un’automobile, no? se uno ha amore da dare… peccato che a Fanny non andava. Bravo Giuliani, e grazie per questo racconto buio, di malinconiche solitudini e macchinari. Non ho capito però, ma Fanny era sull’automobile quando avvenne l’incidente? ed è morta? mi sa di no, queste sono vicende dell’intensa solitudine, finché uno non le racconta. Peccato però, a volte il cinismo dà una botta di vita, e da Bassani si passerebbe ad Ammaniti, per quanto io Bassani l’abbia ancora nel cuore.

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