Archivi categoria: ZIBALDONE NARRATIVA

I cantieri aperti della scrittura

Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale

di Angelo Australi

Quel pomeriggio Rutilio aveva faticato come un matto a strascicare fuori dal sottoscala un rotolo di carta enorme, spesso, carico di piegature incartapecorite nascoste da uno strato di polvere. Lo fece cadere dal piano più alto di uno scaffale ma alla fine, visto che non ci stava riuscendo, per poterlo trasportare fu costretto a chiedere l’aiuto di Spartaco. Continua la lettura di Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale

Il Vuoto

 di Filippo Nibbi

All’età prestabilita, quando il piccolo è sufficientemente cresciuto e solidi muri mentali sostengono ormai energicamente la consapevolezza che ha di sé, avviene l’incontro con il Maestro Rivelatore.
In una sala semibuia, con medici, ambulanze e le madri alloggiati in stanze contigue, il Maestro svela la verità.
“Non voltatevi mai” scandisce “Dietro alle vostre spalle c’è il Vuoto”.
Subito, d’istinto, tutti si voltano.
E, adesso che sanno, vedono che tra loro e i compagni retrostanti, come una lama che precipita nell’aria, passa il taglio gelido del Nulla.
È un attimo, ma inequivocabile.
Molti sbiancano, si sentono male, come una freccia quel vuoto entra nel cuore, spinge via il sangue, prosciuga l’aria dai polmoni. Vengono soccorsi, cardiotonici, ossigeno, calmanti, ma soprattutto l’abbraccio delle madri fa superare l’acme dello shock.
Da bambini, per prepararli al terribile vuoto del Vuoto, si regalano case di bambole senza pavimento sospese a mezz’aria da fili spezzati. Trenini che possono solo partire e mai arrivare. Orsacchiotti identificabili come tali solo frontalmente perché di lato e dietro sono fatti di nebbia. Mattoncini delle costruzioni con cui non è possibile erigere muretti poggiati per terra ma solo tetti e ultimi piani mal sostenuti da un vento giocattolo.
Vengono regalate palle che lanciate contro un muro non tornano. Alle volte il loro rimbalzo le tiene lontane per settimane, alle volte per mesi, altre per sempre.
Le maestre dedicano molte ore al gioco della mosca cieca.
Si regalano libri in cui le parole non sono stampate ma solo appoggiate e la pagina viene cosparsa di ghiaccio così che ci si abitua fin da piccoli a vederle scivolare giù e lentamente sparire, oppure addensarsi sul fondo in ammassi incomprensibili.
Ai ragazzini si insegnano ostinatamente le sottrazioni. Sempre più grandi, finché non bastano più i numeri per ottenere il risultato e ogni studente si trova costretto a gettare qualcosa di sé nella sottrazione: un libro, una penna, il suo cane, un braccio, le risate fatte in gita, un bacio, la sua anima.
Nonostante tutte queste precauzioni, al momento della rivelazione il trauma è terribile. Nessun essere compiuto può sopportare l’incompiutezza.
Chi sopravvive ne porta tracce perenni. Le radiografie mostrano interni di persone sfregiati da buchi: grossi buchi tondi come colpi di cannone o buchi slabbrati, da esplosione.
Chi sopravvive non si volta più. Nemmeno se c’è un boato alle sue spalle, nemmeno se qualcuno grida disperatamente aiuto, nemmeno se sente a pochi passi dalla sua nuca l’arrivo di un treno.
Il vuoto ha riempito ogni pieno.

Fiaba crudele

 

di Alessandra Pavani

C’era una volta una bambina che sembrava una piccola donna. O forse era una piccola donna che sembrava una bambina. L’età non è importante per chi vive fuori del tempo, e lei ci viveva davvero fuori del tempo, in un mondo separato, di sua creazione. Indubbiamente però era giovane, perché della giovinezza aveva il candore, l’ingenuità, e soprattutto quella meravigliosa capacità di illudersi. La vita per lei era un bellissimo sogno, come quel pomeriggio in cui aveva sentito qualcuno piangere in sala da pranzo, e poi aveva visto uscire dalla credenza un incantevole e morbido coniglio col pelo azzurro e gli occhi viola. Non aveva avuto alcuna paura nel trovarselo di fronte così all’improvviso, anzi era stato come aprire finalmente un regalo di Natale a lungo atteso. Naturalmente il coniglio era stato solo l’inizio, il compagno immaginario dei suoi primi anni di vita. Raggomitolato nel cervello di lei, chiedeva e donava tenerezza e calore, e lei si addormentava abbracciata a questa fantasia per ritrovarla immutata nei suoi sogni di bimba. Quando all’asilo gli altri bambini ridevano di lei e la escludevano dai loro divertimenti, lei si rintanava dentro di sé con il suo tenero amico dagli occhi viola, e insieme cantavano le canzoncine che solo loro conoscevano. Era felice, non le importava che gli altri le facessero le smorfie o le dicessero che era matta perché parlava da sola. Lei non era mai da sola, come facevano a non accorgersene? Forse erano loro i veri matti.

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… la guida turistica del bar Brio …

di Angelo Australi

Ogni domenica mattina in quella casa si consumava una scena che sconfinava nella forzatura di un film della commedia all’italiana, alla fine del quale, davanti alla banalità di ciò che verrà raccontato, non sappiamo se conviene ridere o piangere per disperazione. Nel nostro caso Virginia spolverava la mobilia fischiettando all’infinito una delle sue canzoni preferite mentre Simone fantasticava nel suo letto, disteso come un ciocco di legno. Lasciava indietro la stanza del figlio, fino a quando non lo avvisava iniziando quell’ossessiva cantilena che spazientiva tutto il vicinato. Virginia era costretta a fare la pulizia a fondo della casa ogni domenica mattina, per sentirsi libera il pomeriggio di incontrare le sue amiche al Circolo Arci, dove avrebbero giocato a tombola per soldi fino all’ora di cena. Lavorando in una fabbrica di confezioni dalle otto del mattino alle sei di pomeriggio, con pausa pranzo di due ore, per fare le pulizie di casa non le restava che il fine settimana. Il sabato mattina faceva la spesa e dedicava le ore del pomeriggio a stare in compagnia degli anziani genitori. Essendo figlia unica nessuno le dava un aiuto, così per dedicarsi alle pulizie non restava che la mattina dei giorni di festa. Per Simone invece la vita di un giorno festivo iniziava all’ora di pranzo, sempre ammesso che sua madre avesse cucinato qualcosa di buono e non fosse andata in rosticceria a prendere alcune porzioni di untuose lasagne al ragù o un pollo cotto alla griglia, o dei pezzi di arrosto girato. Omero, l’uomo di casa, marito e padre, non era di nessun aiuto perché la domenica per lui aveva un significato solo se usciva per andare a caccia con la squadra degli amici. Erano un gruppo così affiatato che quando si chiudeva la stagione venatoria, per non perdere il vizio di andare nei boschi insistevano con la raccolta dei funghi porcini in quel tesoro di fungaie disseminate sulle catene montuose che recintavano la valle, dove anche l’intensità dell’aria che arrivava dal mare dava ai frutti del terreno un diverso sapore. Fungaie rimaste nel mistero per decenni, anche se in molti si riempivano la bocca giurando di averle individuate. Non tutte, ma solo alcune. Da quando il figlio lavorava negli uffici delle Poste Italiane presso la stazione ferroviaria della città, dove smistava la corrispondenza in partenza e in arrivo, le aspettative sul suo oggi e del suo domani si esaudivano parlando di selvaggina e di boschi. Prima o poi si sarebbe aspettato il matrimonio del figlio, di diventare anche lui nonno, ma per il resto non c’erano altri passatempi. Per esempio, di politica, pur avendo sempre votato PCI, si appassionava solo a ridosso delle elezioni, quando anche lui andava al circolo ARCI per capire il clima che si respirava tra i compagni, eventualmente chiedere informazioni sulle persone che componevano la lista elettorale del suo partito. Omero lavorava in una fonderia, mestiere faticoso e pieno di rischi, dove bisognava stare sempre con gli occhi bene aperti perché una banale svista o distrazione potevano costargli molto care, ma nonostante tutto la domenica si organizzava per andare a caccia con gli amici, alzandosi almeno due ore prima di quando si recava al lavoro; proprio in piena notte. Il luogo dove la squadra dei cacciatori si dava appuntamento la domenica mattina era il bar Brio, lo stesso che in altri orari del giorno e della notte frequentava Simone.

I pomeriggi domenicali di suo figlio iniziavano sempre da questo ritrovo abituale per tanti gruppi di persone più o meno giovani. Non a caso il bar era situato in un punto della circonvallazione che stava al centro di un triangolo composto da una sala cinematografica, dalla discoteca, dall’incrocio che immetteva sul viale della stazione dei treni. E poi il bar Brio era il primo che apriva al mattino per servire i numerosi turnisti che prendevano servizio alle sei in due grandi fabbriche dell’area industriale: la vetreria, lo stabilimento che produceva le corde metalliche dei pneumatici. Il proprietario si chiamava Leandro, garantiva la sua presenza dalle cinque del mattino fino mezzogiorno, poi faceva un riposo che gli avrebbe consentito di coprire in serata gli arrivi al cinema, lasciando gestire alla moglie e una commessa quel poco movimento che ci sarebbe stato nelle ore pomeridiane. A detta del proprietario, criterio grazie al quale valutava in un prossimo futuro di vendere locale e licenza, nel suo bar si facevano ogni giorno dai sei ai settecento caffè. Cifre stratosferiche, se è vero che per ogni caffè c’è sopra un margine di guadagno davvero esagerato.

Senza considerare i più saltuari perché avevano la fidanzata, gli amici di Simone che si davano appuntamento al bar Brio saranno stati una dozzina. Dopo il diploma alle superiori la maggior parte di loro si era subito trovato un lavoro. In pochi avevano scelto di iscriversi all’università, Filippo a medicina, Enzo scienze politiche, Graziella architettura. In quel gruppo solo Spartaco e Ivano – che tutti chiamavano Salamandra – lavoravano ormai da diversi anni, essendosi fermati all’esame di terza media; ma Ivano era morto facendosi asfaltare da un camion mentre azzardava il sorpasso di un’auto in curva, e Spartaco in quel periodo della vita stava facendo il servizio militare. Nel gruppo degli amici la morte di Salamandra rappresentò un trauma spaventoso, anche se guidava la sua moto come un forsennato nessuno si sarebbe mai aspettato facesse quella fine. Si erano salutati sul tardi quel venerdì di fine luglio del 1974, davanti al bar Brio, e il giorno dopo la notizia del suo incidente mortale. Spartaco, classe 1954, era partito militare con il terzo scaglione, verso la metà di giugno, con addosso lo spirito costruttivo di chi si sente condannato ingiustamente aveva cercato in tutti i modi di scansare l’anno di naia, ma poi si era rassegnato. Non gli fu consentito di partecipare al funerale di uno dei suoi migliori amici neppure con un breve permesso giornaliero. Il loro gruppo di adesso si era formato intorno al bar Brio da pochi anni, più o meno quando avevano iniziato a frequentarlo nell’attesa di entrare al cinema, ma con Ivano la cosa veniva da molto più lontano, lui e Spartaco erano legati fin dai giochi dell’infanzia.

Visto faceva angolo con il cinematografo e la stretta strada che conduceva alla discoteca, il bar Brio si trovava in una posizione strategica anche per osservare il movimento. Non solo la domenica pomeriggio e il fine settimana, quando apriva il locale da ballo, il bar era frequentato ogni sera perché, qualsiasi pellicola fosse in programmazione, in molti andavano al cinema. Era insomma uno dei luoghi favoriti dai giovani per passare il tempo libero dallo studio e/o dal lavoro. Un punto cruciale, in chi aspirava a fare degli incontri interessanti. Nel gruppo degli amici di Simone erano tutti appassionati di cinema, prima di entrare a vedere un film nasceva naturale darsi appuntamento al bar. Prendevano il caffè alla spicciolata e nell’attesa parlavano un po’ dei fatti del giorno, e appena uscivano, dopo il film, per consentire al tempo di dilatarsi nella notte si fermavano a bere una birra, illudendosi che il momento di farsi sopraffare dal sonno e dalla stanchezza non dovesse mai arrivare. Avevano un’età che non sentivano mai il bisogno di tornare a casa. Era Leandro, il barista, che verso l’una di notte cominciava a brontolare perché liberassero i tavoli. Visto già alle cinque del mattino ci sarebbe stato da gestire in solitaria un fitto via vai di persone, prima di andare a letto voleva pulire il locale. Anche la stazione dei treni era nei pressi del bar Brio, per chi la raggiungeva a piedi bastava arrivare al semaforo e svoltare a sinistra, cinquanta metri, non di più, e subito appariva davanti con tutta la sua ampia facciata. Leandro a quell’ora tarda della notte, tra una bestemmia e l’altra confessava a quel gruppo di ragazzi che aveva calcolato di farsi un culo della madonna per dieci anni, però alla fine avrebbe venduto locale e licenza a condizioni così vantaggiose che nessun altro bar del paese poteva illudersi di ottenere.

E comunque, nelle rare occasioni che decideva di andare in discoteca nel pomeriggio dei festivi, Simone cercava sempre di evitare la calca dell’apertura, gli dava fastidio fare la fila davanti alla biglietteria, in quell’attesa mescolarsi a chi non voleva perdersi neanche un giro di canzoni per scatenarsi sulla pista da ballo, tra tutte quelle sedicenni che si muovevano in branco intorno ai “bellocci” in una competizione per attrarre l’attenzione e appartarsi a pomiciare nei separé del locale, una concorrenza fatta di invidie e cattiverie che nel tempo di una danza poteva distruggere amicizie consolidate e formare nuove alleanze strategiche nella frenesia schizofrenica della luci psichedeliche che inseguivano il ritmo del brano dal centro della pista da ballo fino agli angoli più distanti, rendendo quei movimenti della danza una fibrillazione meccanica di luci bianche e azzurre. Ma quando la domenica pomeriggio non sapeva dove sbattere la testa, verso le sei, visto che a quell’ora non facevano pagare il biglietto, anche lui entrava a curiosare un po’ sul movimento.

Di norma quelli nati dopo il 1950 bazzicavano la discoteca il venerdì, giorno che chiudeva la settimana di lavoro. Arrivavano passata mezzanotte, tutti alla spicciolata, dopo essere stati al cinematografo o a mangiarsi una pizza, per ritrovarsi a parlare come dei nottambuli incalliti, bere della buona birra, fumare qualche spinello. Quella che passava il disc jockey per Simone era della buona musica, stimolante per conoscere meglio se stessi, ma anche per fare dei nuovi incontri; non era fatta solo per ballare, nonostante il volume altissimo creava un’atmosfera che potevi abbozzare ogni forma di pensiero senza sentirti fuori posto. A gente come lui, che aveva superato i vent’anni, quello sembrava l’ambiente ideale per ritardare il momento di tornare a casa perché a quell’ora si poteva parlare di tutto, anche di uccidere un’idea di paese che si costruivano i propri genitori, e se entravi in questo giro di pensieri ossessivo potevi tirare avanti fino allo sfinimento. Il gruppo dei suoi amici appariva alle ore più strane, spuntavano tra la folla come fantasmi, alle due, alle tre di notte, quando Leandro aveva già spento l’insegna del bar Brio.
Il sabato neanche a parlarne perché, a parte la necessità di smaltire i postumi della sbronza che lo avrebbero assillato fino al tardo pomeriggio, ormai da alcuni anni la discoteca era diventata il ritrovo di tardone e di tardoni allupati, un superaffollamento anacronistico di ormoni che volteggiava nelle danze con l’unico scopo di sfruttare ogni occasione per costruire una relazione duratura. Mariti frustrati, affamati di sesso, donne ormai rassegnate ad accettare quello che avrebbe passato il convento, pur di creare una famiglia. Il sabato notte c’era tutto un mondo nascosto che finiva per svelare le sue modeste aspettative esistenziali, che sognava di essere ancora in tempo a stravolgere le proprie abitudini, e contemporaneamente si assisteva ad un ciondolare ingiusto di Simone e degli altri ragazzi intorno al bar Brio, che finito il film si sedevano a ridosso della vetrata e guardavano il tratto di mura medioevali restaurato di recente, esaltato dalle luci di una nuova illuminazione. Mura alte dieci metri e forse più, dove erano state ricreate le antiche merlature della fazione dei guelfi. La cinta muraria misurava un paio di chilometri abbondanti. La fortificazione che chiudeva l’abitato anticamente aveva un fossato bello largo, diciannove torri, il cassero, quattro porte di accesso. Di tutte le alte torri ne restavano in piedi ancora tredici, alcune inglobate nelle abitazioni, due o tre ben visibili dal bar Brio, mentre l’interno del Cassero era stato trasformato in un teatro a palchetti con la capienza di seicento posti. Del fossato e dei ponti levatoi invece si era persa ogni traccia. Quella di Oriale era una cinta muraria realizzata per custodire le aspettative di una comunità che grazie al suo commercio immaginava di moltiplicare velocemente il numero dei suoi abitanti, ma quel progetto ambizioso dal medioevo non si era mai realizzato, visto che, nonostante lo sviluppo urbanistico, tra il perimetro delle mura, la viabilità interna e le abitazioni, rimaneva ancora tanto terreno coltivato con gli orti del convento delle monache, dei frati francescani, con i tanti che mantenevano in vita i privati.

 maggio 2024

Storia al biennio

dal diario 1982 di prof Samizdat a cura di Ennio Abate

24 settembre 1982

Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma è disturbato e a volte bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Non ho altra scelta.  ma che frustrazione trovarmi di fronte a un manuale (autori Di Tondo e Guadagni) carico di nozioni e senza un filo di racconto  ben individuabile.

Ho fatto un confronto con il manuale di Vegetti: l’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture di approfondimento e sette pagine  illustrate.  La linea del manuale è precisa: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso», no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e spiegato con chiarezza; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» che permangono per vari secoli.

Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso argomento ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. A me pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.

Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia. Mi sento solo di incoraggiarli a una lettura attenta di alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. E posso anche usare qualche loro domanda per coltivare e aumentare la loro curiosità. Nulla di più.

26 settembre 1982

[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà di risolvere un problema didattico c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si era interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella “contemporanea” e soprattutto della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», un tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento a ridosso del ’68-’69 avevo continuato a privilegiare la storia contemporanea anche quando insegnavo alle medie.  Approfittando della “sperimentazione” partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo alla cosiddetta attualità.

                La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare e rispettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. Mi sono   accorto però dei limiti sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari completati facendo il lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. Qundi ho due problemi: la resistenza dei ragazzi che rifiutano di studiare storia e la presenza di vuoti nella mia preparazione.

 

27 settembre 1982

[Appunti guida per lo studio della storia antica] 1) Non si può dare quasi per scontata e indiscutibile la “necessità” di studiare la storia (e la storia antica poi, nel caso del biennio) e i motivi che hanno spinto le generazioni passate a studiarla non valgono per quelle di oggi. 2) Perché oggi “noi” (studenti, insegnanti) dovremmo studiare la storia antica? Per vari motivi, ma uno fondamentale sta nella crisi dello  sviluppo dell’umanità. Il futuro è oscuro. L’idea di Progresso – una certezza per gli uomini dell’Ottocento – è smentita dai fatti. Anche la fiducia nella scienza si è incrinata. Insoddisfazione del presente e oscurità del futuro spingono a ripensare il passato, a rivolgersi ad altre culture (quelle orientali ad esempio) o a indirizzarsi a saperi finora trascurati o disprezzati (astrologia, occultismo, medicina popolare). 3) Lo stesso studio della storia risente di questo clima di crisi. E l’attenzione al passato storico preindustriale è cresciuta. Questo passato sta diventando persino di moda: film di fantarcheologia o come «Excalibur» o «Il romanzo della rosa» di Eco. 4) Accostarsi al passato è  davvero difficile. Si possono commettere vari errori. Ad esempio,  quello di renderlo simile al nostro presente, cancellando le sue diversità dai tempi antichi. Il consumo  di passato organizzato per le folle (es. le visite ai bronzi di Riace) annulla queste diversità, non arriva neppure per un attimo a rompere le nostre abitudini quotidiane e l’unicità dei bronzi e annullata o neutralizzata dalla loro riproduzione in oggetti ornamentali ubito commercializzati. Come facciamo a rendere gli antichi nostri contemporanei? Cancellando la loro diversità. Ad esempio, le strips dei fumetti presentano uomini preistorici nell’abbigliamento, che però sono assillati dai problemi della nostra  vita quotidiana.   Forse la storia è il campo della lotta tra quanti  vogliono scoprire la diversità del passato e quanti vogliono sterilizzarla.