di Ennio Abate
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a cura di Samizdat
Maria Grazia Fabrizi
Politiche 2024.Insomma al giornalismo Italiano, quello dei giornalisti in vista, quelli con il diritto riconosciuto di veicolare le opinioni, la vittoria del NFP guidato Melenchon è andata proprio di traverso. Pare che, in segno di lutto, Rampini abbia indossato bretelle nere e Secchi ,Bocchino, ma anche Alessandro Giuli con Libero e tutto il Corsera non riescano a trovare le parole. Mentana invece si lancia in consigli strategici, sotto forma di ipotesi, per escludere il nuovo fronte popolare dal governo.
Presentazione di un articolo di Sergio Fontegher Bologna da “il manifesto” (qui)
Vorreste la bicicletta
: tutti i lavoratori del settore agricolo fossero pagati con un salario minimo di 9 euro l’ora….?Nel 1972 Einaudi pubblicava la traduzione italiana de “L’economia politica della schiavitù” di Eugene Genovese e nel 1973 nella collana “Materiali marxisti” di Feltrinelli usciva “Lo schiavo americano dal tramonto all’alba” di George Rawick. Ho l’impressione che anche tra di noi un corso di ri-alfabetizzazione sullo schiavismo sarebbe necessario. Perché, malgrado la costante attenzione sull’accoglienza, i salvataggi in mare, le ong, gli accordi con l’Albania e la Tunisia, sulla questione immigrazione insomma, rimane del tutto in ombra il problema di sapere, una volta che sono stati salvati, questi esseri che fine fanno in un paese come l’Italia, che dovrebbe essere un paese civile. La percezione che alcune filiere fondamentali dell’economia italiana poggiano sullo schavismo non è affatto chiara, credo anche tra di noi. Cioè non ci si rende conto che lo schiavismo ha determinato la struttura dei costi di alcune filiere e come tale è materialmente impossibile eliminarlo. E’ diventato legge del mercato, tacitamente riconosciuta e accettata da tutti. Proviamo a immaginare se tra un mese tutti i lavoratori del settore agricolo fossero pagati con un salario minimo di 9 euro l’ora. Salterebbero migliaia di aziende, di negozi, di ristoranti, d’intermediari – uno tsunami incomma. Quando in un determinato settore si consolida una certa struttura dei costi, e principalmente un determinato costo del lavoro, per cambiarla ci vuole qualcosa che assomiglia a una rivoluzione. Infatti nella storia recente dell’Italia è avvenuto una sola volta: negli anni 70. E abbiamo visto come è finita.
Ho l’impressione che la schiavitù, invece di essere percepita come elemento strutturale della nostra esistenza come cittadini-consumatori, sia ancora intesa come eccezione, come serie di casi singoli, di casi estremi. E anche quando viene riconosciuta come schiavitù, viene data per legittima. Mi viene in mente il caso di Grafica Veneta, la più importante stamperia italiana di libri, quando, nel luglio 2021, venne fuori che impiegava lavoratori pakistani in condizioni disumane. Ci furono anche una decina di arresti. Sarebbe stato logico che Confindustria del Veneto mettesse alla porta un socio che praticava lo schiavismo. Sarebbe stato logico che le banche rifiutassero i crediti a un’azienda che non rispettava i famosi tre parametri ESG (environmental, social, governmental). Figuriamoci, anzi, il titolare poteva continuare a dare interviste alla grande stampa come opinion maker ed affermare che lui s’era stufato di pakistani che non si lavavano. Alla stessa maniera il titolare dell’azienda che ha trattato in quel modo barbaro Sitman Singh può dichiarare in tv che è stata colpa dell’indiano e che a causa sua la comunità di Latina ha avuto un danno d’immagine.
Quanto ormai la percezione della schiavitù e della sua dimensione strutturale sia debole lo si vede anche dal modo in cui si confonde caporalato e schiavismo. Sebbene intrecciati, sono due fenomeni distinti. Di caporalato si occupava già Di Vittorio, lo schiavismo di cui stiamo parlando è roba recente e il fatto che dentro ci siano anche italiani non cambia le cose.
Come se ne esce? Non se ne esce, dobbiamo dircelo e smettere l’insopportabile ipocrisia con cui si parla d’inasprimento delle pene, di rafforzamento dei controlli, di formazione. Tutti miserabili palliativi. Ora che la struttura dei costi si è consolidata in quel modo nella filiera agro-alimentare, nella logistica e in altre ancora, dopo decenni che ben poco si è fatto o si è stati capaci di fare per impedirlo, solo un movimento di massa di carattere rivoluzionario, ossia un movimento che implica una serie complessa di azioni, non solo sindacali, e soprattutto un cambio di mentalità del senso comune, può cambiare le cose.
Fino a quel momento l’Italia resta un paese con un grado d’inciviltà veramente umiliante, che ha riportato in Europa – non la sola, ma in misura superiore ad altre nazioni – lo schiavismo. E poiché l’Europa ha avuto un ruolo fondamentale non solo sulla questione dei diritti umani ma soprattutto dei diritti di chi lavora, è un bel triste primato.
Esiste nel nostro Codice Penale il reato di “riduzione in schiavitù”, è l’art. 600 C.P.. Ricordo solo un caso dove è stato applicato – ma ce ne saranno stati molti altri. Era nei confronti di un’azienda di trasporto. Erano autisti, camionisti long haul. Un ambiente che seguo da qualche decennio, dunque non mi ha meravigliato.
Grazie Satman Singh, grazie di averci resi un po’ più consapevoli di quello che siamo. La tua effigie dovrebbe stare su un cartello infisso su ogni campo dove si coglie la frutta e la verdura e in moltissime altre situazioni di lavoro ancora, dalle Prealpi alle grandi isole.
Un ultimo pensiero. Di recente un grave infortunio mi ha costretto a una lunga degenza ospedaliera in una struttura della sanità pubblica. Ho trovato dei giovani medici bravissimi in tutto, dal rapporto col paziente all’uso delle più moderne tecnologie. In questo paese dove l’onda nera dell’inciviltà sale inesorabilmente è la gente come loro, nella scuola, nella vita quotidiana di ogni giorno, a tenere in piedi la baracca. Siano questo tipo di persone, di professionisti, di gente comune, di esempio alle nuove generazioni. Qualche segnale che i ventenni l’abbiano capito, c’è già.
* Questo tema è stato sviluppato in Sergio Fontegher Bologna, Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Acro-Polis, 2024
di Roberto Fabbri
Al termine dell’esperienza della repubblica dell’Ossola i partigiani, inseguiti dai tedeschi e dai fascisti che stavano riprendendo il controllo della valle, furono costretti a riparare in Svizzera. Nel suo Sere in Valdossola, Franco Fortini, a quei tempi ventisettenne, racconta le ultime ore trascorse nell’Ossola libera. «… Arrivammo a Baceno, ingombra di gente che fuggiva… qualcuno ci disse che la teleferica funzionava ancora». Sopra Baceno, dalla frazione di Goglio partiva una funivia dell’Edison che saliva fino agli oltre 1.600 metri dell’Alpe di Devero, da dove si poteva raggiungere il confine. Tra il 16 e il 17 ottobre 1944 anche i partigiani della Divisione Valdossola la usarono per ritirarsi. «Si arrivava alla stazione della teleferica attraverso un sentiero sdrucciolevole di pioggia ed erba. Alcuni partigiani la caricavano; poi uno di loro, abbassando una leva, faceva partire la cabina verso uno sperone di roccia nera. Tutti la seguivano con gli occhi. Aspettavano che tornasse, sperando di potervi salire. Ci si guardava a vicenda, zitti: tutto era tanto assurdo. Il tempo pareva migliorato, il freddo era sul vento, le montagne di neve scintillavano contro il turchino. In quella luce acuminata, rivedo le cataste di vecchi copertoni d’auto viaggiare, insieme a casse di cottura, a secchi di lenticchie, a damigiane vuote, verso il cielo; e poi sparire alla vista, nel sibilo della corda metallica. Poco prima che si chiudessero le porte della cabina per una partenza, volò sul mucchio, luccicante nel suo involucro di cellophane, una camicia nuova, tutta appuntata con gli spilli. Chissà di dove veniva. Quando riuscimmo a entrare nella cabina; e la cabina si staccò da terra, sfiorò le vette dei pini, sorvolò un torrente schiumoso e poi, per un errore di manovra o un guasto, si fermò per qualche minuto a mezz’aria, non potevamo sapere che poche ore più tardi un guasto del medesimo genere avrebbe fermato la funicolare carica di fuggiaschi; e i tedeschi sopraggiunti in quel punto avrebbero aperto il fuoco coi mitra – e furono le scariche che udimmo, dalla neve del valico – contro quel bersaglio appeso in aria, uccidendo e spingendo i superstiti a gettarsi nel vuoto e insanguinare il prato e le rocce.»
Tra quei partigiani in ritirata, intrappolati nella cabina della funivia, c’era Giuseppe Faccioli, milanese di 32 anni (era nato il 15 marzo 1912), nome di battaglia “Pep”. Insieme a lui furono uccisi Giuseppe Conti, Giorgio Fossa, Gaudenzio Pratini. Probabilmente Faccioli era in montagna coi partigiani dal marzo 1944, aveva fatto in tempo a vivere il pesante rastrellamento nazifascista del giugno del 1944 nelle valli del Verbano. Nel luglio dello stesso anno era diventato capo squadra nella formazione autonoma Valdossola e forse aveva partecipato al momento iniziale della liberazione della valle, quando «la mattina del 10 settembre 1944 alcune centinaia di partigiani delle divisioni Autonome Valtoce, al comando del tenente Alfredo Di Dio, e Valdossola, al comando del maggiore Dionigi Superti, entrano in Domodossola…». Sulla lapide che lo ricorda, a Milano in via Cavalcanti, a pochi passi da via Ferrante Aporti, è scritto “Garibaldino divisione Val d’Ossola”; forse non fu l’unico garibaldino in una formazione autonoma che si diceva apolitica: della Valdossola faceva parte anche Albe Steiner, nipote di Giacomo Matteotti (il giorno del suo assassinio, a undici anni, aveva appeso alla portineria di casa un cartello con disegnata la faccia di Mussolini e la frase: “abbasso Mussolini gran capo degli assassini”), vicino al Partito comunista, amico di Elio Vittorini. Nella Valdossola Albe Steiner faceva il commissario politico e responsabile della stampa e della propaganda, mentre la moglie Lica Covo portava messaggi e altro da Milano alla montagna. Fortini racconta anche dell’incontro con lui, commissario politico che parlava d’arte astratta e progettava il logo e la carta intestata della divisione. Sulla lapide che ricorda Giuseppe Faccioli, ma purtroppo per un errore il cognome è scritto con una c sola, si legge anche “caduto in combattimento”. In occasione del 72° dell’eccidio dei quattro partigiani della funivia di Goglio, nel suo discorso in memoria Giuliana Sgrena ha detto: «… si è trattato di un vero e proprio dramma, una tragica beffa. Non si possono fare classifiche di fronte alla brutalità della morte, ma il massacro della funivia è stato un vile accanimento. Non si è trattato di uno scontro a fuoco e neanche di un brutale agguato, ma di una morte arrivata quando si aveva l’impressione di poter salvare almeno la pelle… Goglio era l’ultima spiaggia degli uomini del Valdossola. Era la ritirata: i partigiani con il morale a terra senza più la forza di quando avanzavano combattendo per una giusta causa, senza più ordini precisi dei loro capi, procedevano in ordine sparso…».
Letture Franco Fortini, Sere in Valdossola, Marsilio, 1985. Mario Giovana, repubblica dell’Ossola, in Dizionario della Resistenza, Einaudi, 2001. https://giulianasgrena.globalist.it/articoli/2016/10/16/goglio-il-dramma-della-funivia/
/goglio-il-dramma-della-funivia/
di Ennio Abate
Ho letto negli ultimi giorni varie reazioni alla presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare in occasione della morte di Barbara Balzerani. i E mi sono chiesto perché noi ex della nuova sinistra torniamo sull’argomento del lottarmatismo degli anni ’70, anche quando siamo fuori gioco rispetto all’attuale svolgimento della lotta politica.
E mi chiedo anche perché i commenti su quelle vicende non riescono ad andare, ancora oggi, oltre la demonizzazione dei brigatisti e l’assoluzione dei governanti d’allora. Mi ha colpito anche che quanti hanno difeso almeno il diritto d’opinione della Di Cesare diano per scontato il giudizio negativo sul lottarmatismo (o terrorismo) ma tacciano su come lo Stato lo abbia vinto e abbia vinto anche le formazioni politiche della nuova sinistra (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup, MLS) che il lottarmartismo criticarono. E, cioè, non accennino più ai danni subiti dalla democrazia italiana proprio da quella vittoria dello Stato..ii Ancora nel 2024, dunque, il dibattito non può uscire dall’oscillazione: compagni criminali o compagni che sbagliarono. (E a sbagliare oggi sarebbe la Donatella Di Cesare) . Continua la lettura di Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no.
Infine, c’è stato purtroppo poco tempo – neppure 20 minuti – per gli interventi dal pubblico e non c’era l’audio ma la serata è stata buona e interessante. Insomma, potevi venire.
di Ennio Abate
Sulla pagina FB di Sei di Cologno Monzese se… sotto questo post:
avevo lasciato il seguente commento:
"Ha riscontrato al riguardo lo storico e filosofo Enzo Traverso che l’ossessione commemorativa dei nostri giorni costituisce allora il prodotto del declino dell’esperienza trasmessa, in una società che ha perso i propri punti di riferimento, spesso accompagnata da una violenza insensata, senza altro oggetto che non sia il bersaglio occasionale del capro espiatorio, e da un sistema sociale che tende a cancellare le tradizioni (ovvero, il convincimento che il presupposto per dotarsi di un domani riposi nella consapevolezza del passato) così come frantuma le esistenze riconducendole a molecole di un sistema invece complesso, come tale al limite dell’incomprensibile per i più. Se ci si vuole risparmiare le pedanti e inette pedagogie dell’obbligo, allora forse bisognerebbe liberare il nostro bisogno di memoria (e di storie) dal vincolo della sua mera istituzionalizzazione. Poiché quest’ultima rischia invece di svuotarne i contenuti dall’interno. Il problema, in fondo, non è il pronunciarsi sulla maggiore o minore pertinenza di una ricorrenza civile ma sul modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare. Il resto, in fondo, rimane un campo aperto ad opportunità ed esperienze.
Dalla pagina FB di Claudio Vercelli del 27 gennaio 2022)
Ne è seguito questo scambio:
Cosimo Vincenzo Sansalone
non si capisce perchè i richiami storici istituzionalizzati o meno debbano svuotare di significato le ricorrenze.E ancora meno si capisce cosa propone come alternativa Enzo Traverso alla “banale” ricorrenza.
«Ora, il dibattito sull’ “unicità” ha via via acquisito un forte connotato politico. La tesi dell’ “unicità” esclusiva della Shoà è diventata prerogativa della destra nazionalista israeliana ed ebraica: in quanto proclama l’unicità esclusiva degli ebrei come vittime dell’estremo, è piegata a giustificare ogni azione dei governi di Israele come “legittima difesa” preventiva, come diritto di prevaricare, in nome della sicurezza, i diritti del popolo palestinese e il diritto internazionale, che pure si è andato formando ispirandosi in gran parte a principi desunti dall’esperienza della Shoà. In nome di questa interpretazione esclusiva dell’“unicità”, ogni ostilità palestinese verso l’occupazione israeliana viene equiparata alla minaccia estrema nazista. E con ciò si vuol tacitare ogni critica politica e morale alla colonizzazione israeliana dei territori occupati, e al sistematico contrasto a ogni occasione di trattativa e di compromesso di pace. Di contro, coloro che considerano la memoria della Shoà come permanente allarme sulle atrocità di massa contro ogni gruppo umano da chiunque messe in atto, rifiutano questo sfregio strumentale della memoria esclusiva della Shoà: memoria inclusiva contro memoria esclusiva, universalismo e diritti umani contro la degenerazione nazionalistica della memoria».
di Ennio Abate
Nel mio ormai pluridecennale diario/archivio della colognosità ieri ho depositato questa nuova perla comparsa sui social di Cologno Monzese:
Continua la lettura di Verniciare di tricolore le periferie?