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critiche, dissensi, piraterie

Contro l’ipocrisia su Gaza e l’apologia del servilismo

di Ennio Abate
MIO COMMENTO AD UN ARTICOLO DI LE PAROLE LE COSE (QUI)

La poesia come atto di resistenza. La forza delle parole come tentativo di salvezza.

Ma ci credete? E dove stanno le nostre poesie come “atto di resistenza” da mettere accanto a queste? O gli articoli di riflessione sul 7 ottobre e sui massacri israeliani che da allora si sono moltiplicati (o sono proseguiti)? Questo articolo mi sembra un tardivo e ipocrita obolo agli agonizzanti abitanti di Gaza ( “Per ogni copia venduta Fazi Editore donerà 5 euro ad Emergency per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza”) gettato loro passando di corsa, senza guardare in faccia né questi sconosciuti “dieci autori palestinesi” né quelli di cui parlano nei loro poveri versi. E continuando a tacere sullo scandaloso silenzio della maggior parte dei politici e dei nostri concittadini italiani sul massacro dei palestinesi da parte dei soldati israeliani che da mesi li rastrellano e li ammazzano.

 

 
MIO COMMENTO A UN ARTICOLO DI LE PAROLE E LE COSE (QUI)

1986/2025. SERVI VOLONTARI CRESCONO (E SFOTTONO)


Del resto è stato sempre così. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il regime hitleriano ha goduto di ampio appoggio da parte della popolazione almeno fino agli inizi dei rovesci della guerra. E anche gli anti-fascisti italiani più tenaci hanno sempre ammesso che per alcuni anni, dalla proclamazione dell’Impero fino a guerra avanzata, il regime di Mussolini ha goduto di un consenso assolutamente “bulgaro”. E così possiamo dire della Cina di oggi, e di altri paesi del tutto soddisfatti dei dispotismi che li dominano. Tranne ovviamente le solite minoranze intellettualoidi di bastian contrari, snob irrilevanti per le masse popolari.” (Sergio Benvenuto, psicanalista)


«Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria. Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO. Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare. Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “ La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: “La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro”».

(LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE di Franco Fortini, 28 ottobre 1986, Il manifesto)
Sergio Benvenuto – Le parole e le cose²

 

Gaza. Una domanda, un tentativo di risposta.


Rita D’Italia
Ma noi, concretamente, cosa possiamo fare?
Abbiamo un presidente del Consiglio che dileggia il Parlamento ed irride i giornalisti. Che scappa davanti ai problemi che non le interessano, un Presidente della Repubblica che tace e quando parla fa danno.
Protestiamo sui social ma nessuno ci ascolta.
Ci mangiamo il fegato perché abbiamo empatia piena col popolo palestinese, e soffriamo perché ci sentiamo impotenti davanti al massacro a cui assistiamo.

Ma concretamente cosa possiamo fare per fermare tutto questo?

 

Ennio Abate
Rita D’Italia
Quello che possiamo fare è poco o niente: testimoniare sì, raccogliere firme (Amnesty), tenersi in contatto con chi sta a Gaza (se questi contatti si hanno), amplificare le voci autorevoli dissenzienti e anch’esse inascoltate (il Papa ad es.), manifestare in pochi purtroppo (perché tutta una cultura politica antiautoritaria e di sostegno alle lotte degli oppressi è stata sconfitta), contrastare la ben foraggiata propaganda antipalestinese.

E tornare ad imparare come si organizzarono i nostri antenati che si opposero al fascismo.

(Sulla pagina FB di Doriana Goracci)

P.s.

SEGNALAZIONE


Il disagio come un sussurro
 

Stralcio:

Parlo, invece, di una responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano. Lo stesso che non scende in piazza, non fa sciopero, non si rifiuta di continuare a lavorare quando in un posto di meno di 400 km quadrati, in un anno e mezzo, vengono presi a bersaglio i giornalisti palestinesi di Gaza e ne vengono uccisi 208 (numeri del 24 marzo 2025). 208 giornaliste e giornalisti palestinesi di Gaza uccisi dalle forze armate israeliane in massima parte perché prese a bersaglio. Niente a che vedere con la seconda guerra mondiale o con il Vietnam: il paragone non regge, non solo per l’infima misura in chilometri quadrati di Gaza rispetto al Vietnam o all’intero mondo. Non regge perché a Gaza sono stati in massima parte presi a bersaglio. Erano e solo gli unici a mostrare la mattanza, il massacro, la strage, il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità. Senza immagini e senza voci, il genocidio non si vedrebbe. E noi, noi ‘giornalisti internazionali’, forti della nostra presunta credibilità – bianca e occidentale – non ci possiamo entrare, a Gaza. Le autorità israeliane non ci fanno entrare, a Gaza.

La responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano, però, può esprimersi anche senza andare a Gaza. Ci sono le testimonianze dei nostri colleghi palestinesi. Ci sono le interviste da fare, a distanza. Basta conoscere Gaza. Conoscere la terra. E intuiremmo cosa sta succedendo, in una terra distrutta, tutta distrutta.

Ed è qui il secondo ostacolo, che va dritto alla questione delle parole, del linguaggio impreciso che si usa non dal 7 ottobre, ma da 20 anni. Sono 20 anni, almeno, che non si affronta sui giornali la questione israeliano-palestinese (non è un conflitto, maledizione, non c’è nessuna possibile equiparazione tra i due “contendenti”, non è un duello, non è la guerra tra 2 stati ognuno dei quali detiene il monopolio dell’uso della forza). La questione israeliano-palestinese è stata considerata periferica, l’idea che Israele l’avesse vinta è stata pervasiva, e ancor più pervasiva la diffusione di un pensiero unico (i palestinesi non vogliono la pace, sbagliano tutto, sono terroristi, Israele è il simbolo della modernità, Tel Aviv è la modernità, Israele è l’unica democrazia del Medio oriente).

 

 

 

Se un giorno si dovesse tornare a ragionare…

Tre spunti


a cura di Ennio Abate

1.
“Viene da questo utilizzo gretto della causa palestinese nella lotta decoloniale la denuncia di “genocidio” divenuta ormai marchio e contrassegno. Mentre i contorni giuridici sono tutt’altro che chiari, il perverso uso politico di questo termine fa con un colpo di bacchetta dei genocidati di ieri i genocidari di oggi. Perciò mi sono sempre rifiutata di utilizzarlo – anche a costo di essere fraintesa. Lo hanno evitato i sopravvissuti della Shoah. Avrebbe dovuto farlo anche chi ha voce nel dibattito pubblico. Le parole sono importanti. Ma ciò non cambia né l’entità di un massacro inaudito compiuto dallo Stato di Israele né l’onta gettata sui discendenti di coloro che sono morti nei campi.” (Donatella Di Cesare)

2.
“Abbiamo una tale documentazione di prove che davvero lascia annicchiliti per ferocia, per brutalità, e perfino per sadismo, ma che trova conferma nelle dichiarazioni di Israele, che non solo minaccia come un ganster le istituzioni internazionali, ma in pieno delirio di onnipotenza lo rivendica, con discorsi che tutti saremmo in grado di riconoscere, se solo arrivassero puntuali alla nostra informazione. La distruzione sistematica e voluta di ogni presidio medico, l’assedio attraverso la fame, la sete, la privazione di medicine fino a negare ingresso a latte in polvere e incubatrici, i cori nazionalisti che invocano lo sterminio, i bombardamenti indiscriminati su quartieri residenziali, il bombardamento di corridoi umanitari concordati, l’incendio a tende con sfollati dentro, il massacro di civili in attesa di farina, gli spari su bambini in fila per il pane, le esecuzioni sommarie su bambini e vecchi, l’accanimento sui prigionieri e financo sui cadaveri, cosa impedisce a questa sinistra, anche a quella che ha strumenti culturali e fonti cui accedere, di vedere?” (Simona Borioni)

3.
I lupi

Quando ululano i lupi e ti domandi
perché sei vissuto e se ancora sei al mondo
ormai solo per passare la notte
presso gli esseri che tentarono
uicidio ma a cui il proposito
non riuscì, quando tutto è congettura, seduzione,
addirittura fede che ancora
possa esserci di peggio e molto ancora –
obbliga te stesso,
 morto,
al testimoniante ascolto
di come ululano i lupi…

(da Vladimir Holan, Il poeta murato)

 

E già i poeti in tempi di guerra…

di Ennio Abate

“Raimondi tende, forse da sempre, a spostare la propria attenzione  dall’antagonismo etico-politico alla conciliazione etico-morale, cioè al piano dell’esistenza in cui è ancora possibile o almeno sperabile costruire una forma di armoniosa condivisione. ” (Pusterla)

E già, I poeti in tempi di guerra dell’antagonismo etico-politico se ne sbarazzano volentieri, senza rimorsi. E, come preti – ah, la “sporca religione dei poeti”! – mirano alla conciliazione etico-morale. Si perdonano, ma saranno perdonati? Temo e spero di no. Anche perché fingono di non sapere che è impossibile costruire questa benedetta “forma di armoniosa condivisione” esclusivamente sul “piano dell’esistenza”. A meno di non contentarsi di coltivare il proprio giardino poetico-esistenziale-quotidiano (se lo hai) disinteressandosi a fatti come questi: ” I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare”.

*Mio commento a Su “L’Atalante” di Stefano Raimondi: https://www.leparoleelecose.it/?p=50648