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Ra e mane e zi Luigia ae mane re mierece

Narratorio 10

di Ennio Abate

Dopo aver corso quel rischio di morte all’inizio della sua vita e dopo l’incidente del dito – l’unghia saltata non ricrebbe più e la punta del dito rimase deforme [1] – l’infanzia di Chiero fu punteggiata da vari malanni e  un serio incidente. Il Narratore perché dovrebbe saltarli?
Nel passaggio da Casebbarone a Salierne gli  venne l’uocchie sinistre strabbicheun occhio era rimasto a Casebbarone e l’altro era attirato da Salierne? – e per qualche tempo dovette portare gli occhiali corretivi. E i coetanei – terribili! –  sfottevano: o quatruocchie! Continua la lettura di Ra e mane e zi Luigia ae mane re mierece

A guerre, zi Rafiluccia, a nonna

Narratorio 8

di Ennio Abate

A Casalbarone c’erano le grotte dint’o vallone. La gente del paese vi si era rifugiata durante i bombardamenti. E il soldato tedesco sbandato che poi era rimasto a  vagabondare per le campagne, dormendo sui fienili e vivendo con l’elemosina delle famiglie contadine che ormai lo conoscevano e l’accettavano?
La  seconda guerra mondiale era passata come una tempesta e aveva lasciato una montagna di morti. La più sfortunata tra i parenti di Chiero era stata
zia Rafiluccia.  S’ere spusate nu cugine, che si chiamava Pietro Triggiano ed era morto nella guerra 1915-1918  ma nessuno dei parenti ricordava più  in che anno e dove.  Poi, durante la Seconda guerra mondiale, aveva perso anche il figlio che aveva avuto da lui:

O figlie, Tanine, murette vicino o ponte e fierre sotto o prime bumbardamente. Ere o 21 giugne 1943, o iuorne e San Luigie. Chille e facettere ascì ra caserme sott’e bombardamente. Ca ere muorte, zi Vicienze o sapette pe case. Steve cercanne ospedale dopp’ospedale. Po truvaie une ncoppa a nu trene e chiste dicette: Tenite na fotografie? Zi Vicienze ngia facette verè e remanette accussì. Zi Rafiluccie nun putette avè manc’o cuorpe ro figlie. Ie, a notte, me l’ere sunnate. Me riceve: nun cercateme chiù. E me faceve verè tutt’o sanghe ca asceve ra spalle sinistre. Quanne zi Vicienze arrivaie all’obbitorie, nunn’o putette manche riconosce, pecché e surdate erene scappate da caserme senza numere e matricole. E pò e cadavere s’erene già gonfiate.[1]

E adesso campava in casa del fratello, zi Vicienze, in Via Pio XI a Salierne, dove, lasciando la casa di Casebbarone, s’erano sistemate lei e nonna Fortunata. In una stanzetta. C’erano due lettini, due comodini, due sedie e un armadio. Tutte e due vestivano a lutto. Zi Rafiluccia di tutte le sorelle era quella con l’aria più timida e triste. Parlava poco e sempre con la voce bassa e tremolante. Era molto religiosa, come quasi tutte le donne che Chiero conobbe a Salerno da ragazzo. Andava a messa la domenica nella chiesa di San Francesco vicino al liceo Tasso.  Ogni tanto usciva per far visita alla sorella Nannìne in via Sichelgaita e portava sempre o regaline per Chiero e Eggidie: qualche caramella, dei cioccolatini. La nonna invece – l’appartamento era al terzo piano – non usciva mai a causa delle scale che avrebbe dovuto fare.

[Una volta questa zia aveva fatto in segreto un regalo a Chiero. Successe quando aveva cominciato la scuola media in via Fieravecchia, dietro il Magistrale di piazza Malta. Lui se ne stava tornando a casa  verso il tardi pomeriggio – allora c’erano i doppi turni –   per Via Velia e incontrò zia Rafiluccia vicino agli archi dell’acquedotto medievale, o ponte ro riavule [2]. Era sola, gli domandò dei libri, dei compiti.  E, parlando, Chiero le disse che non aveva ancora la penna stilografica. Oltre ai libri, ai fumetti,  alla bicicletta, che mai ebbe e – otto Natale – i pastori di gesso o infrangibili da mettere nel presepio, quella era allora una delle poche cose da lui più desiderate. Zitta zitta, zi Rafiluccia l’aveva accompagnato nel negozietto che stava lì vicino, dove in vetrina erano esposte delle stilografiche. Gliene aveva fatto scegliere una tra le più belle. E nel consegnargliela, gli raccomandò di non far sapere di questo regalo agli altri due nipoti, Antonio e Fortunatina, i figli di zi Vicienze.]

Nonna Fortunata ere nate o 1864 e murette a 99 anne. Parlave e Garibbalde, ve raccuntave o cunte ro cece. [3]   O nonne, Antonio, ere nate nel 1867. Ere cape d’arte cu Angrisani e cummannave 50-60 persone. Avevene avute sei figli. O primme ere Filippe. A seconde ere Rafiluccie. A terze ere Teresine. Quarte Nanniìe. O quinte ere zi Vicienze. E l’urtima ere Assuntine. A nonne a chiamavane “a maestre”. Ere sarte e teneve e figliole ca mparavene o mestiere. Veneva ra famiglie Barone. Erene tutte signuri, pariente e De Donato. Nunn’erene gente e terre. E pure e figlie. Zi Filippe ere ‘ntagliatore. A nonne l’aveve mannate a scola a Napule, mica a Salierne. Chille faceve cert’i porte ca parevene merlett’. [1]

[Raccontarono: la nonna, non volendo, ti ferì al dito col suo ferro da maglia. Giorni dopo quel dito fu ancora colpito da una martellata per un  attimo di disattenzione di Chiero o di un cugino. Ne venne un’infezione con pus, curata per giorni con impacchi di lattuga cotta senza che guarisse. Nannìne –  si erano nel frattempo già trasferiti a Salerno nella casa di Via Sichelgaita? – lo portò alla Clinica Laurenzi, che era il figlio chirurgo della sua madrina di cresima. Il medico suggerì un’incisione, ma lei – in accordo con Mìneche? – rifiutò per paura.  Bianco volto, nero grembiulone, intoccabile corpo, che donava confetti d’anice, ahi, quanto amari! Ahi, nonna nonna, non m’infilzare! Ahi, mamma mamma, non farmi cadere! Ahi, moglie moglie, guarirmi non puoi! Ahi, madri grandi, querce di frutti spoglie e rinsecchite! Salto giù dall’albero, ché sono cresciuto. Veleno di allora non mi scorre più dentro. Ma perché ancora cado pallido, riverso sul tavolo, a fissare la morte? ][4]

 

 Versione dei brani in dialetto

Il figlio, Tanino, morì vicino al ponte di ferro nel primo bombardamento [su Salerno]. Era il 21 giugno 1943, il giorno di San Luigi. Quelli [i comandanti della caserma] fecero uscire [i soldati] mentre [gli alleati] bombardavano. Che [Tanino] fosse morto, zio Vincenzo lo seppe per caso. [Lo] stava cercando ospedale per ospedale. Poi incontrò uno sul treno e questo gli chiese: Avete una foto [di vostro nipote]? Zio Vincenzo gliela mostrò e [alla conferma da parte di quella persona che Tanino era morto] rimase impietrito. Zia Rafiluccia non poté avere neppure il corpo del figlio. Io la notte me l’ero sognato. Mi diceva: non cercatemi più. E mi mostrava il sangue che usciva in gran quantità dalla spalla sinistra. Quando Zio Vincenzo arrivò all’obitorio, non riuscì nemmeno a riconoscere [la salma], perché i soldati erano scappati dalla caserma senza il numero di matricola. E poi i cadaveri si erano già gonfiati.

Nonna Fortunata era nata nel 1864 e morì a novantanove anni. Parlava di Garibaldi, vi raccontava la fiaba del cece [3]. Il nonno, Antonio, era nato nel 1867. Era capo d’arte con Angrisani e comandava 50-60 operai. Avevano avuto sei figli. Il primo era Filippo. La seconda era Rafiluccia. La terza era Teresina. Quarta Nannìne. Il quinto era zio Vincenzo. E l’ultima era Assuntina. La nonna la chiamavanola maestra”. Era sarta e insegnava quel mestiere alle ragazze. Veniva dalla famiglia Barone. Erano famiglie di signori, parenti dei De Donato. Non erano di origini contadine. E pure le figlie [non lo erano]. Zio Filippo ere intagliatore [in legno]. La nonna l’aveva mandato a scuola a Napoli, mica a Salerno. Quello faceva certe porte che parevano dei merletti.

Note

[1] Dalla testimonianza di  zia Rina.
[2] La tradizione narra che quest’acquedotto, denominato “i Ponti del diavolo”, fu costruito dal mago salernitano Berliario, in una sola notte tempestosa, aiutato da forze malefiche.
[3]  Una versione qui: https://www.liberoricercatore.it/o-cunto-cecere/
[4] In corsivo versi tratti da E. A., Donne seni petrosi, 2010.

Foto di copertina. Nonna Fortunata seduta a sinistra e zia Rafiluccia in piedi in primo piano a destra.

 

 

Chille se so spusate o ’38

Narratorio 7

di Ennio Abate

Quanne a guerre fernette, tu virisse quanta gente purtave o lutte. E femmene tutte vestite e nire, l’uommene cu na striscette nera vicin’o bavere ra giacca o ro cappotte. A famiglia noste e chelle e zi Vicienze se ne venettere a Salierne. Addie Casebbarone! Che dispiacere pe nuie piccirille!

Mìneche si era congedato da carabiniere nel 1938. Aveva comprato  l’appartamento al terzo piano di Via Sichelgaita 48 e lui e Nannìne, appena sposati, ci andarono ad abitare. E allora perché Chiero e Eggidie nacquero a Casebbarone? Perché il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista e Mineche venne richiamato sotto le armi.  A Chiero, tanti anni dopo, glielo raccontò zi Rina:

Chille se so spusate o ‘38. Papà tuoie ere già congedate e doppe è state richiamate n’ata vota. Tu sì crisciute chiù miezze a nui, a Casebbarone. Papà tuoie veneve sule ogne settimane o ogne quindece iuorne. A case e via Sichelgaite l’avevane già accattate primma da guerra e vicine a vuie c’aveva venì zi Peppe,[1] si se fosse spusate cu soreme Marietta. Ma isse vuleve subite a dote; e allore pateme nge dicette: ma che te crire ca figlieme sta ca panze annanze? Ao poste e zi’ Peppe venette na signora, a signora Fava. O marite faceve o ferroviere e mamma toie facette amicizie cu lore. E po’, quann’ere incinte e duie o tre mise e te, chesta signora se iettaie sott’o trene. Mamma toie, ca già ere paurose, avette nu sciokke. Pò ogne poche venevane pa ‘nterrogà, nun saccie si gente ra pulizia o re carabinieri. E perciò Nannine se ne venette a Casebbarone, ca nun ngia faceve cchiù a remanè ra sole a Salierne. Po quanne cuminciarene e tire fine a bbascia a Livella [2], ce ne ietteme a Capesaregnane. E là arrivarene e tedesche. Erene tiempe brutte. Steveme tutte nuie donne e na diecine e vuie, piccirille. Zi Vicienze ere accuvate ncopp’o suppigne, se no so purtavene ‘n Germanie. Mamma toie se metteve paure pure e ascì. Vaie tu a fà a file po pane, me diceve. Po ce jeve zi Rafiluccie [3]. Tante – diceve – m’anne acciso o marite, m’anne acciso o figlie. Si accirene pure a me, niscune adda restà a chiagnere. Ie po curave na chioccie cu na diecine e pullicine pe preparà nu poche e mangià chiù sustanziuse. Invecie arrivarene e tedesche e se pigliarene tutte quante. E pò, siccome e tire mo arrivavane pure a Capesaragnane, ce ne fuietteme a Salierne. E me ricorde ca vuie piccirille ve stancavate a camminà a piere.

Di quel viaggio a piedi insieme ad altri sfollati in fuga aveva raccontato a Chiero e a Eggidie anche Nannìne. Sulla strada, vicino alla chiesa della madonna del Carmine, un soldato americano – c’era già stato lo sbarco degli alleati a Salerno – le voleva offrire delle gallette ma impaurita e pur affamata,  lei aveva rifiutato.

 

 Versione dei brani in dialetto

Quelli [Mìneche e Nannìne] si sposarono nel 1938. Tuo papà era già congedato e dopo è stato di nuovo richiamato. Tu sei cresciuto di più in mezzo a noi, a Casalbarone. Tuo papà veniva solo ogni settimana o ogni quindici giorni. Lça casa di via Sichelgaita l’avevano già comprata prima della guerra e vicino a voi doveva venire ad abitare zio Giuseppe, se si fosse sposato con mia sorella Marietta. Ma lui voleva subito la dote; e allora mio padre gli disse: ma cosa pensi che mia figlia è incinta? Invece che zio Giuseppe, venne [ad abitare come vicina] una ignora, la ignora Fava. Il marito era ferroviere e tua madre diventò amica loro [della coppia vicina di casa]. Po, quando era incitna di te da due o tre mesi, questa ignora i buttò sotto un treno. Tua padre, che già era una paurosa, ebbe uno shock. Poi ogni poco venivano ad interrogarla non so se quell idella polizia o dei carabinieri. E, perciò, Nannìne se ne venne a Caalbarone, perché non ce la faceva più a rimanere da sola a Salerno.

Poi quando iniziarono i cannoneggiamenti e le bombe arrivarono fino al passaggio a livello [d’Acquamela], ci rifugiammo a Caposaragnano. E là arrivarono i Tedeschi. Erano brutti tempi. Eravamo insieme solo noi donne e voi bambini. Zio Vincenzo era nascosto in soffitta, altrimenti lo deportavano in Germania. Tua madre aveva paura persino di uscire. Vai tu a fare la fila per il pane, mi diceva. Poi finiva per andarci zia Rafiluccia. Tanto – diceva – mi hanno ucciso il marito, mi hanno ucciso il figlio, se ammazzano pure me, nessuno avrà più da piangere. Io poi curavo una chioccia con una decina di pulcini per avere un po’ di cibo più nutriente. Invece arrivarono i Tedeschi e si presero tutto. Poi, visto che i bombardamenti arrivavano anche a Caposaragnano, fuggimmo a Salerno. Voi bambini vi stancavate a camminare a piedi.

 

 

Note
[1] Giuseppe, fratello di Mìneche
[2] Passaggio a livello di Acquamela.
[3] Raffaela, sorella di Nannìne.

Foto di copertina. Chiero in braccio  a Nannine. Poteva avere 3 anni, quindi siamo nel ’44. Il luogo è il cortile – quello con il grande limone – della casa della nonna materna a Casebbarone. Dietro madre e figlio il passaggio ad arco in ombra che dava sullo stradone. S’indovinano le colline coperte d’alberi. Era una giornata di sole. I volti  un po’ abbassati per la luce troppo intensa.

Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (2)


Narratorio 6

di Ennio Abate

Fu allora che Chiero incominciò a sentire confusamente la cosa che poi Nannìne, zi Adelina, a signurine Dag, i preti, i suoi amici di Azione Cattolica, e lui pure, chiamarono a vocazzione. Sempre, però,  nel subbuglio che si portava dentro il corpo dalla nascita. E così, in quei primi anni, se Nannine gli era accanto benevola, lui era un bambino quasi calmo e voglioso di imparare e fare. Proprio come quando leggeva vicino al braciere e Nannìne – non sappiamo dirvi con quali parole (ma di sicuro in dialetto), sorrisi, carezze, qualche bacio, un movimento degli occhi – gli diceva che lo voleva ubbidiente, bravo, buono, cumm’a n’angiolette. E Chiero ci stava, si lasciava sedurre. Macinava dentro quel desiderio materno. Vi si conformava. Si sottometteva. Perché si sentiva voluto bene dalla madre. Ed erano momenti di pace. Poi avrebbe detto di poesia. Continua la lettura di Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (2)

Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (1)

Narratorio 5

di Ennio Abate

L’abitano da pochi giorni l’appartamento al terzo piano della palazzina di Via Sichelgaita. Quattro stanze, un lungo corridoio. La camera da letto di Mìneche e Nannìne con due finestre e un balconcino. Quella accanto, per Chiero e Eggidie, è più piccola e ha solo una finestra. Le finestre si affacciano sul golfo di Salerno. Che sarà interamente visibile, ruotando lo sguardo dal Mazzo ra signora, a sinistra, alla collina del castello degli Arechi a destra. Per una decina d’anni. Fin quando sul terreno antistante – un rettangolo 50 per 250 metri a due livelli – prima coltivato, poi abbandonato e usato per partite di pallone – non verranno costruite tre palazzine popolari a cinque piani che faranno da sipario invalicabile.

Spaesamento e solitudine nei primi giorni dopo l’arrivo. Nell’inverno del ‘45? Del ‘46? L’appartamento non è del tutto ammobiliato. Scatoloni di cartone nelle stanze e nel corridoio. In una, già aperta, spunta lo strano lampadario con sfere di vetro rosa opaco. Penderà fino alla morte di Mineche e alla vendita della casa nella stanza che chiamavano o salotte. La porta tenuta sempre chiusa. Almeno nei primi anni Chiero e Eggidie vi entreranno solo se arrivavano ospiti.

 Fa freddo. E’ quasi sera. Il cielo – gli squarci di cielo – nelle finestre è scuro. Ancora ore da passare nell’angolo della stanza da pranzo accanto al braciere di rame con le carbonelle accese prima di andare a letto. L’aveva usato a Casebbarone  nonna Fortuna. E prima di lei quante altre ignote nonne e donne. Ora asciuga un po’ l’umido dei muri della stanza, che resta freddissima. Ancor più nel ricordo. Di Chiero? Del Narratore? E  madre e figli si scaldano.
Ogni tanto
Chiero o Eggidie mettono sulla brace scorze di mandarino. Bruciano e fanno fumo.  L’odore acre gli piace. Si scaldano loro tre. Sì, c’è Eggidie. Mineche  Mineche no, nun ‘nge. Sta a faticà fin’a tarde addò Salentine. E meglie accussì. Perché  una sola volta s’era improvvisato maestro con Chiero, che s’aveve ‘mparà o sisteme metriche decimale e faticave a capì. Allora Mìneche, ca nu teneve pacienze, n’ge rette nu schiaffone n’faccia. Forte. Da lasciargli i segni delle dita sul volto. E Nannine, ca steve cucinanne, currette p’abbraccià o figlie cha chiagneve. “sì, sì, tienetele sott’e gunnelle!”.
Si scaldano solo loro tre. Nannine lavora coi ferri una maglia di lana grezza. Chiero legge il sussidiario ‘Il mulino’. Una copertina grigio-azzurro con un brutto disegno  scolorito: un casolare di campagna con una grande ruota di mulino.

A Chiero e a Eggidie, e primme anne e l’elementare, Nannine, ca aveva fatte fin’a quarta elementare, ancora nge puteve ra na mane a mparà a legge e cunte scritte rint’o sussidiarie. E Nannìne ogni tanto aiutava Chiero, Gli faceva leggere la pagina a voce alta e se pronunciava con l’accento sbagliato una parola lo correggeva.
Di libri in casa, oltre ai libri di scuola elementare dei ragazzi, c’è soltanto un Codice penale rilegato, che Mineche ha conservato dall’epoca in cui aveva fatto il maresciallo dei carabinieri.  Sta nel ripiano dello scaffale dove poggia la radio Marelli. Molti anni dopo nel comodino di Mineche accanto al letto matrimoniale Chiero troverà  un romanzo di guerra di Mario Mariani [1] Più tardi, alla prima comunione, a Chiero regaleranno un messale.…

Mìneche tarda a rientrare per la cena. Allora Nannìne apre il suo libretto delle preghiere. Poi va a prendere dal suo comodino la  collana del rosario. Recita coi due figli  soltanto tre Avemmaria e un Padrenostre perché si stancherebbero a ripetere tutte le cinque decine del rosario.
Piccolo, con la copertina nera un po’ sgualcita. Tra le pagine varie immaginette. Di sicuro quella di San Rocco con la coscia ferita e il cane che porta un pane in bocca. E poi quella della Madonna di Pompei, l’aureola di stelle argentate attorno alla sua testa un po’ piegata e a quella del bambino.  Più in basso, a sinistra del piedistallo,  un monaco. E a destra una monaca. Il bambino fa cascare nelle mani del monaco un rosario e la madonna ne dà un altro alla monaca piegandosi un po’ verso di lei.

Chiero, le immagini che entrarono nei primi anni dopo la guerra in quella casa di Via Sichelgaita nei primi anni erano pochissime. Queste tra le pagine del libretto di preghiere di Nannìne. Quelle del sussiadiario.  Una illustrazione a colori quasi stinti dei due bravi che aspettano don Abbondio al bivio su uno dei rari quaderni con la copertina illustrata. Gli altri quaderni che ti vendeva  il cartolaio gentile e magro di via Vernieri avevano un’austera copertina fronte-retro nera e i tre bordi laterali di un rosso fuoco.
C’era poi il quadro del Cristo col cuore in mano [2]. Stava   nell’angolo della sala da pranzo tra la cristalliera e la porta della cucina. E il quadro ovale con  Sant’Anna che insegna le preghiere a Maria bambina appeso sul muro in  testa al letto matrimoniale di Mìneche e Nannìne.

Nota

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Mariani_(scrittore)
[2] https://www.divinarivelazione.org/pompeo-batoni-e-il-sacro-cuore/#:~:text=L’autore%20della%20pi%C3%B9%20famosa,Batoni%20(1708%2D1787).

 

“Salerno, rima d’inverno”

Narratorio 4

di Ennio Abate

Doveva fare molto freddo d’inverno. Chiero e Eggidie una volta corsero in cucina di prima mattina, mentre Mineche e Nannìne ancora dormivano. E – sorpresa, meraviglia – nei colli delle bottiglie lasciate fuori la notte sul davanzale l’acqua era diventata ghiaccio. Euforia della scoperta di un fatto inatteso. Speranza di convincere Nannìne a non accompagnarli a scuola dalle monache. Almeno per quel giorno.
Doveva fare molto freddo d’inverno. Per scaldare almeno un po’ la stanza da pranzo – la più usata di giorno
perché sull’unico grande tavolo si mangiava, i ragazzi facevano i compiti o Nannìne, coprendolo con una vecchia coperta di lana e un lenzuolo, ogni tanto stirava – avevano un braciere d’ottone.  Mo appicciamm’a vrasera. Riempito di carbonella ardente   presa dai fornelli della cucina, portato con cautela in sala da pranzo e appoggiato su un piedistallo circolare  di legno grezzo. Nannìne ci metteva spesso l’asciugapanni di liste intrecciate di compensato dove stendeva maglie di lana, calzini e altri indumenti perché asciugassero in fretta.

Doveva fare molto freddo d’inverno. La carbonella veniva conservata in soffitta in un cassonetto di legno e toccava ai ragazzi salire
e prelevarne quella da consumare in giornata. Il negoziante la consegnava periodicamente in una sacchetta portandola fino a casa. Ma per non farla mancare mai, in certi  giorni Nannìne andava lei a comprarne piccole quantità. E  tornava affaticata a piedi su per la salita  tirando su  una vecchia borsa di pelle a  triangolini neri o marroncini cuciti assieme. 

Doveva fare molto freddo d’inverno. Mìneche, sotto i pantaloni portava pesanti mutandoni di lana che gli arrivavano alle caviglie. E già faticava a piegarsi quando doveva togliersi gli stivaloni, che gli erano rimasti dal periodo militare assieme al pastrano, a una baionetta, a una borraccia, a un frustino di cuoio. Seduto sulla poltroncina accanto al suo letto matrimoniale, a volte si faceva aiutare da Chiero e Eggidie. A toglierseli. O ad allacciarseli. Loro si accoccolavano a terra e incrociavano le lunghissimi stringhe attraverso le borchiette d’acciaio. Alla fine lui le tirava e stringeva il nodo.

Doveva fare molto freddo d’inverno. A Chiero e Eggidie venivano i geloni sulla piega alta delle orecchie. Portavano maglie di lana grezza. Pungevano sulla pelle e dopo qualche lavaggio si restringevano. Stavano spesso accanto a quel braciere per scaldarsi mani e piedi. E prima di andare a dormire e infilarsi tra le lenzuola gelide, Nannìne metteva per un bel po’ sulla brace dei fornelli in cucina due mattoni  pieni e pesanti di terracotta. Quando erano caldi, li avvolgeva in vecchi panni di lana un po’ bruciacchiati per il continuo uso e li metteva nella parte bassa dei letti sotto le coperte in modo che scaldassero i piedi.

Nota
“Salerno, rima d’inverno” è un verso di Alfonso Gatto:

« Salerno, rima d’inverno,
o dolcissimo inverno.
Salerno, rima d’eterno.
 »

 

La sera in Via Sichelgaita

Narratorio 3

di Ennio Abate

 A quei tempi Via Sichelgaita era appena sterrata e c’erano pochi lampioni piantati su pali di legno. Distanziati più di cento metri l’uno dall’altro. Le lampade mandavano un alone fioco e circoscritto. Solo nelle notti calme, se c’era la luna piena,  quei pochi globi di luce venivano riassorbiti e il nero del cielo sembrava diventare di un azzurro delicato.

 

Quante volte accadde? Quando il buio calava, nella stanza che divideva con Eggidie, Chiero – la fronte premuta sul vetro freddo della finestra e già inchiodata da un’angoscia che poteva crescere di botto – fissava uno spicchio di strada illuminato dal lampione all’angolo della curva del convitto Pascoli a trecento metri di distanza. 
Cercava di indovinare tra le sagome scure, che ogni tanto lo attraversavano stagliandovisi  per pochi attimi, quella piccola e lenta di Nannìne, che certe sere tardava a tornare da qualche visita ai parenti.
Nella stanza da pranzo, Mìneche,  sulle spalle il pastrano di  quand’era stato soldato e che, quando andava a dormire, stendeva ai piedi del letto matrimoniale dalla sua parte per tenere i piedi  più al caldo, s’era addormentato per la stanchezza  sulla sedia russando, mentre la Radio Marelli continuava le trasmissioni. E Eggidie?
L’arrivo del buio precipitava ogni volta Chiero in un sentimento di paura. La palazzina a tre piani di Via Sichelgaita 48  e quelle circostanti svanivano in quell’oscurità. Chiusi i portoni o i cancelli che davano sulla strada,  ogni famiglia si isolava. E Nannìne controllava più volte che fosse chiusa bene a chiave la porta d’ingresso. Controllava pure che anche la spranghetta fosse tirata fino in fondo. Poi  spegnevano le luci della cucina, della sala da pranzo, del corridoio. Anche la porta interna che separava le due stanze da letto – quella matrimoniale di Mìneche e Nannìne e quella accanto, dove dormivano Chiero e Eggidie – veniva chiusa con un’altra minuscola spranghetta a scorrimento.
Per impedire al freddo, che d’inverno penetrava dalla cucina e dalla sala da pranzo rivolte a nord di arrivare anche nelle stanze da letto poste a sud? O l’abitudine di sprangare per la notte non solo la porta di casa ma anche la porta interna 
con quella piccola serratura – e, vabbè, che allora si usavano  i vasi da notte – diceva di un bisogno esagerato di proteggersi da imprecisati pericoli?
Come se vivessero ancora in campagna, ancora a Casalbarone – ah, le galline tirate fuori di sera dal pollaio esterno alla casa di di zia Assuntina e messe al sicuro nella stalla – e non in città?
Timore dei ladri?
Se fossero entrati in casa scassinando la porta d’ingresso, si sarebbero sentiti, per quella piccola serratura, più al sicuro? Li avrebbero lasciati frugare nel resto dell’appartamento – il corridio, il salotto, la sala da pranza e la cucina – senza intervenire, senza  gridare o chiedere aiuto? Tanto il “tesoretto” – poche collane o fermagli d’argento e d’oro – era al sicuro in un cassetto dell’armadio della stanza matrimoniale di Mìneche e Nannìne…

A Salierne

Narratorio2

di Ennio Abate

Di botto a Salierne. In Via Sichelgaita 48. Basta con Casebbarone e con la casa di nonna Fortunata. Basta coi cugini. Basta con le stradine silenziose che a serpentina s’insinuavano tra i campi coltivati, anch’essi senza rumori. Lì Chiero ci passò sempre a piedi. E più tardi – d’estate, durante le vacanze ai tempi in cui a Salerno fece le elementari e le medie – sulla bicicletta dei cugini Alfano. In auto, solo tanti anni dopo.

Via Sichelgaita era un posto nuovo per due guagliuncielli, curiosi e spaesati. Ci vanno ad abitare che è il quarantacinque-quarantasei, a guerra finita. Cà isse e o frate suoie, Eggidie, là nun cunuscevene proprie a nisciune. Stevene chiuse ‘ncase. E e primm’e iuorne nun scennevene manche fore nzieme a l’ati guagliune ca facevane bande, ma se ne stevene ‘ncopp’ao balcone ra palazzine, ca ere o nummero 48 e Vie Sichelgaite. E, a sere, che tristezze. Quanne faceve notte pe sta via s’appicciavene si e no quattre lampiuni. Une ogni ciente metre. E cu na lampadine debbole ‘ncima a nu pale e legne. Ca, quanne se fulminave, l’operaie aveva saglie cu doie specie e favece e fierre attaccate ae piere. Po a mamme nunne tenette chiù. Specie a Nunuccie ca vuleve scenne abbascie a giucà chiagneve e sbatteve e piere pe terra e urlave. Nannine non voleva. Li fece scendere soltanto nell’androne interno sott’o purtone. E là giocavano con le figurine ‘ncopp’e gradine. Oppure ievene rint’o giardine ra signora Goglie e stevene nu poche cue figlie femmene ra signora Goglie, Rosanne e Ada (ca Ughe se ne ieve pe cunte suoie). Soltanto alcune settimane dopo che erano arrivati nella nuova casa, Chiero e o frate riuscirono a fare amicizia anche cu e guagliune ca facevene a banda e Via Sichelgaita e ievene là attuorne pe miezz’ae campe. Nannine nu poche s’ere rassegnate, pure se teneve sempe paure. E che puteve fa? O guaglione se ne scappave fore lo stesse pe ghi a giucà cu Anielle e Peppeniell’e, e figlie ra signora Martine, Rosarie e Tunine Iemme e po Carle Sassone e a sore chiù piccirelle, Lucie. E po quacche vote arrivavene pure ati guagliuni e guagliune ra ate palazzine. Venevene Adriane e Marie. E Rosario ca ere o chiù gruosse e po chillu puverielle ca o chiamavene o Zelluse. ca manch’ se sapeve che nome faceve.

Sfratellanza

frammento per Prof Samizdat

di Ennio Abate

Mi telefonano. Ictus. Ricovero in una clinica. Visite solo dai parenti. Da mesi non ti sentivo, o voce telefonica elusiva, corrosa d’amarezza, violenta a tratti. Mi richiamavi solo dopo qualche giorno dal mio solito «come va? fatti sentire» che lasciavo nella segreteria telefonica. Dicevi che saresti passato ancora in questo mio altro accampamento di tenaci indagini sul nulla degli sconfitti. Ma sapevo che non saresti più passato. Non era facile per te, mitizzatore feroce della mia e tua giovinezza, sopportarne la perdita e trovare buchi nelle nostre stanchezze scostanti.

Ah, il tuo desiderio folle! Ricordi quella sera? A a forza di discorsi volevi sottomettermi al tuo delirio eroico e protervo. Li respinsi, protervo io pure per l’occasione. Potevo solo assisterti. Come si fa con un malato che ti vuole inchiodato al suo letto. E per l’intera notte accettai di esserlo. Ti lamentasti, ti disperasti, scaricasti il tuo odio. Poi non ci vedemmo più per mesi. Né mi occupai più di te. controllando nella mia rubrica telefonica i nomi di amici e conoscenti, il tuo mancava. Avevi bussato forte alle porte del mio cuore, non a quelle della mente. E ti avevo aperto lo stesso. Mi lasciasti il tuo vuoto accanto al mio.

Dopo la luttuosa telefonata annunciatrice dell’ictus, i medici ti hanno trovato una brutta neoplasia. Mi informano che sei semicosciente. Vai avanti con antidolorifici. I tuoi stanno pensando di farti morire fuori dall’ospedale. Ma in quale casa? La tua ultima – mi avevi detto – era un buco, una tana.

E allora sono arrivato a rivederti. Ho preso il metró. Sono uscito in un quartiere mai visto prima. Mi sono fatto indicare da due passanti la direzione da seguire per arrivare alla clinica. Ho chiesto ancora conferma a un anziano dai capelli bianchi come i miei. L’ho rivisto di nuovo all’ingresso della clinica. Sono salito al quarto piano. Stanza 314. Porta socchiusa.

Sei disteso con lo schienale molto sollevato. Il tuo volto è più affilato e scavato di quanto ricordassi. Una figura di El Greco. Occhi vitrei, uno più spalancato dell’altro. Un braccio scheletrico col polso fasciato appoggiato dietro il cranio. Accanto al tuo letto una donna. Si alza dalla sedia e mi viene incontro. Alzando la voce, provo a dirti il mio nome. Poi quello di amici comuni di quei tempi diventati così improvvisamente lontanissimi. E di alcune città in cui ci eravamo incontrati. Non reagisci. In silenzio, dunque, accanto a te.

Inaspettatamente suona il mio cellulare. È nella tasca del cappotto che avevo appoggiato su una sedia. Afferro il cappotto e scappo innervosito fuori dalla stanza. È C, che vuole parlarmi. Lo blocco. Gli dico che sto in ospedale da un amico che sta male. Che lo richiamerò. Perché non gli dico che stai morendo?

Nel corridoio c’è la signora di prima. Parla, parla. Dice: Terribile Milano. Che disumanità. Come si fa a viverci. Ti ha visto anche nel camerone della clinica dov’eri ricoverato prima che scoprissero il male incurabile. Non eri da solo come adesso, ma assieme ad altri malati. Dice che lei non aveva sopportato l’indifferenza degli infermieri. Guardavano la TV. Trascurando i malati. Dice pure che ora vive in campagna. Lei e un amico fanno gli artigiani. Ricavano dal legno oggetti per bambini. Continua. Dice che sei stato un uomo straordinario. Che è colpita dalla dignità con cui stai affrontando la morte. 

Rientro con lei nella stanza. Ti guardo. Ogni tanto ti agiti, sembri guardare dalla mia parte. M’illudo che tu abbia un momento di lucidità. Mi avvicino di più al tuo volto. Ti ripeto ancora il mio nome. Spalanchi gli occhi. Apri anche un po’ la bocca. Sembri stupefatto e impaurito. Poi abbassi le palpebre e volgi il viso dall’altra parte, appoggiandolo al cuscino.