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Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (2)


Narratorio 6

di Ennio Abate

Fu allora che Chiero incominciò a sentire confusamente la cosa che poi Nannìne, zi Adelina, a signurine Dag, i preti, i suoi amici di Azione Cattolica, e lui pure, chiamarono a vocazzione. Sempre, però,  nel subbuglio che si portava dentro il corpo dalla nascita. E così, in quei primi anni, se Nannine gli era accanto benevola, lui era un bambino quasi calmo e voglioso di imparare e fare. Proprio come quando leggeva vicino al braciere e Nannìne – non sappiamo dirvi con quali parole (ma di sicuro in dialetto), sorrisi, carezze, qualche bacio, un movimento degli occhi – gli diceva che lo voleva ubbidiente, bravo, buono, cumm’a n’angiolette. E Chiero ci stava, si lasciava sedurre. Macinava dentro quel desiderio materno. Vi si conformava. Si sottometteva. Perché si sentiva voluto bene dalla madre. Ed erano momenti di pace. Poi avrebbe detto di poesia. Continua la lettura di Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (2)

Freddo, braciere, letture, preghiere, paure (1)

Narratorio 5

di Ennio Abate

L’abitano da pochi giorni l’appartamento al terzo piano della palazzina di Via Sichelgaita. Quattro stanze, un lungo corridoio. La camera da letto di Mìneche e Nannìne con due finestre e un balconcino. Quella accanto, per Chiero e Eggidie, è più piccola e ha solo una finestra. Le finestre si affacciano sul golfo di Salerno. Che sarà interamente visibile, ruotando lo sguardo dal Mazzo ra signora, a sinistra, alla collina del castello degli Arechi a destra. Per una decina d’anni. Fin quando sul terreno antistante – un rettangolo 50 per 250 metri a due livelli – prima coltivato, poi abbandonato e usato per partite di pallone – non verranno costruite tre palazzine popolari a cinque piani che faranno da sipario invalicabile.

Spaesamento e solitudine nei primi giorni dopo l’arrivo. Nell’inverno del ‘45? Del ‘46? L’appartamento non è del tutto ammobiliato. Scatoloni di cartone nelle stanze e nel corridoio. In una, già aperta, spunta lo strano lampadario con sfere di vetro rosa opaco. Penderà fino alla morte di Mineche e alla vendita della casa nella stanza che chiamavano o salotte. La porta tenuta sempre chiusa. Almeno nei primi anni Chiero e Eggidie vi entreranno solo se arrivavano ospiti.

 Fa freddo. E’ quasi sera. Il cielo – gli squarci di cielo – nelle finestre è scuro. Ancora ore da passare nell’angolo della stanza da pranzo accanto al braciere di rame con le carbonelle accese prima di andare a letto. L’aveva usato a Casebbarone  nonna Fortuna. E prima di lei quante altre ignote nonne e donne. Ora asciuga un po’ l’umido dei muri della stanza, che resta freddissima. Ancor più nel ricordo. Di Chiero? Del Narratore? E  madre e figli si scaldano.
Ogni tanto
Chiero o Eggidie mettono sulla brace scorze di mandarino. Bruciano e fanno fumo.  L’odore acre gli piace. Si scaldano loro tre. Sì, c’è Eggidie. Mineche  Mineche no, nun ‘nge. Sta a faticà fin’a tarde addò Salentine. E meglie accussì. Perché  una sola volta s’era improvvisato maestro con Chiero, che s’aveve ‘mparà o sisteme metriche decimale e faticave a capì. Allora Mìneche, ca nu teneve pacienze, n’ge rette nu schiaffone n’faccia. Forte. Da lasciargli i segni delle dita sul volto. E Nannine, ca steve cucinanne, currette p’abbraccià o figlie cha chiagneve. “sì, sì, tienetele sott’e gunnelle!”.
Si scaldano solo loro tre. Nannine lavora coi ferri una maglia di lana grezza. Chiero legge il sussidiario ‘Il mulino’. Una copertina grigio-azzurro con un brutto disegno  scolorito: un casolare di campagna con una grande ruota di mulino.

A Chiero e a Eggidie, e primme anne e l’elementare, Nannine, ca aveva fatte fin’a quarta elementare, ancora nge puteve ra na mane a mparà a legge e cunte scritte rint’o sussidiarie. E Nannìne ogni tanto aiutava Chiero, Gli faceva leggere la pagina a voce alta e se pronunciava con l’accento sbagliato una parola lo correggeva.
Di libri in casa, oltre ai libri di scuola elementare dei ragazzi, c’è soltanto un Codice penale rilegato, che Mineche ha conservato dall’epoca in cui aveva fatto il maresciallo dei carabinieri.  Sta nel ripiano dello scaffale dove poggia la radio Marelli. Molti anni dopo nel comodino di Mineche accanto al letto matrimoniale Chiero troverà  un romanzo di guerra di Mario Mariani [1] Più tardi, alla prima comunione, a Chiero regaleranno un messale.…

Mìneche tarda a rientrare per la cena. Allora Nannìne apre il suo libretto delle preghiere. Poi va a prendere dal suo comodino la  collana del rosario. Recita coi due figli  soltanto tre Avemmaria e un Padrenostre perché si stancherebbero a ripetere tutte le cinque decine del rosario.
Piccolo, con la copertina nera un po’ sgualcita. Tra le pagine varie immaginette. Di sicuro quella di San Rocco con la coscia ferita e il cane che porta un pane in bocca. E poi quella della Madonna di Pompei, l’aureola di stelle argentate attorno alla sua testa un po’ piegata e a quella del bambino.  Più in basso, a sinistra del piedistallo,  un monaco. E a destra una monaca. Il bambino fa cascare nelle mani del monaco un rosario e la madonna ne dà un altro alla monaca piegandosi un po’ verso di lei.

Chiero, le immagini che entrarono nei primi anni dopo la guerra in quella casa di Via Sichelgaita nei primi anni erano pochissime. Queste tra le pagine del libretto di preghiere di Nannìne. Quelle del sussiadiario.  Una illustrazione a colori quasi stinti dei due bravi che aspettano don Abbondio al bivio su uno dei rari quaderni con la copertina illustrata. Gli altri quaderni che ti vendeva  il cartolaio gentile e magro di via Vernieri avevano un’austera copertina fronte-retro nera e i tre bordi laterali di un rosso fuoco.
C’era poi il quadro del Cristo col cuore in mano [2]. Stava   nell’angolo della sala da pranzo tra la cristalliera e la porta della cucina. E il quadro ovale con  Sant’Anna che insegna le preghiere a Maria bambina appeso sul muro in  testa al letto matrimoniale di Mìneche e Nannìne.

Nota

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Mariani_(scrittore)
[2] https://www.divinarivelazione.org/pompeo-batoni-e-il-sacro-cuore/#:~:text=L’autore%20della%20pi%C3%B9%20famosa,Batoni%20(1708%2D1787).

 

“Salerno, rima d’inverno”

Narratorio 4

di Ennio Abate

Doveva fare molto freddo d’inverno. Chiero e Eggidie una volta corsero in cucina di prima mattina, mentre Mineche e Nannìne ancora dormivano. E – sorpresa, meraviglia – nei colli delle bottiglie lasciate fuori la notte sul davanzale l’acqua era diventata ghiaccio. Euforia della scoperta di un fatto inatteso. Speranza di convincere Nannìne a non accompagnarli a scuola dalle monache. Almeno per quel giorno.
Doveva fare molto freddo d’inverno. Per scaldare almeno un po’ la stanza da pranzo – la più usata di giorno
perché sull’unico grande tavolo si mangiava, i ragazzi facevano i compiti o Nannìne, coprendolo con una vecchia coperta di lana e un lenzuolo, ogni tanto stirava – avevano un braciere d’ottone.  Mo appicciamm’a vrasera. Riempito di carbonella ardente   presa dai fornelli della cucina, portato con cautela in sala da pranzo e appoggiato su un piedistallo circolare  di legno grezzo. Nannìne ci metteva spesso l’asciugapanni di liste intrecciate di compensato dove stendeva maglie di lana, calzini e altri indumenti perché asciugassero in fretta.

Doveva fare molto freddo d’inverno. La carbonella veniva conservata in soffitta in un cassonetto di legno e toccava ai ragazzi salire
e prelevarne quella da consumare in giornata. Il negoziante la consegnava periodicamente in una sacchetta portandola fino a casa. Ma per non farla mancare mai, in certi  giorni Nannìne andava lei a comprarne piccole quantità. E  tornava affaticata a piedi su per la salita  tirando su  una vecchia borsa di pelle a  triangolini neri o marroncini cuciti assieme. 

Doveva fare molto freddo d’inverno. Mìneche, sotto i pantaloni portava pesanti mutandoni di lana che gli arrivavano alle caviglie. E già faticava a piegarsi quando doveva togliersi gli stivaloni, che gli erano rimasti dal periodo militare assieme al pastrano, a una baionetta, a una borraccia, a un frustino di cuoio. Seduto sulla poltroncina accanto al suo letto matrimoniale, a volte si faceva aiutare da Chiero e Eggidie. A toglierseli. O ad allacciarseli. Loro si accoccolavano a terra e incrociavano le lunghissimi stringhe attraverso le borchiette d’acciaio. Alla fine lui le tirava e stringeva il nodo.

Doveva fare molto freddo d’inverno. A Chiero e Eggidie venivano i geloni sulla piega alta delle orecchie. Portavano maglie di lana grezza. Pungevano sulla pelle e dopo qualche lavaggio si restringevano. Stavano spesso accanto a quel braciere per scaldarsi mani e piedi. E prima di andare a dormire e infilarsi tra le lenzuola gelide, Nannìne metteva per un bel po’ sulla brace dei fornelli in cucina due mattoni  pieni e pesanti di terracotta. Quando erano caldi, li avvolgeva in vecchi panni di lana un po’ bruciacchiati per il continuo uso e li metteva nella parte bassa dei letti sotto le coperte in modo che scaldassero i piedi.

Nota
“Salerno, rima d’inverno” è un verso di Alfonso Gatto:

« Salerno, rima d’inverno,
o dolcissimo inverno.
Salerno, rima d’eterno.
 »

 

La sera in Via Sichelgaita

Narratorio 3

di Ennio Abate

 A quei tempi Via Sichelgaita era appena sterrata e c’erano pochi lampioni piantati su pali di legno. Distanziati più di cento metri l’uno dall’altro. Le lampade mandavano un alone fioco e circoscritto. Solo nelle notti calme, se c’era la luna piena,  quei pochi globi di luce venivano riassorbiti e il nero del cielo sembrava diventare di un azzurro delicato.

 

Quante volte accadde? Quando il buio calava, nella stanza che divideva con Eggidie, Chiero – la fronte premuta sul vetro freddo della finestra e già inchiodata da un’angoscia che poteva crescere di botto – fissava uno spicchio di strada illuminato dal lampione all’angolo della curva del convitto Pascoli a trecento metri di distanza. 
Cercava di indovinare tra le sagome scure, che ogni tanto lo attraversavano stagliandovisi  per pochi attimi, quella piccola e lenta di Nannìne, che certe sere tardava a tornare da qualche visita ai parenti.
Nella stanza da pranzo, Mìneche,  sulle spalle il pastrano di  quand’era stato soldato e che, quando andava a dormire, stendeva ai piedi del letto matrimoniale dalla sua parte per tenere i piedi  più al caldo, s’era addormentato per la stanchezza  sulla sedia russando, mentre la Radio Marelli continuava le trasmissioni. E Eggidie?
L’arrivo del buio precipitava ogni volta Chiero in un sentimento di paura. La palazzina a tre piani di Via Sichelgaita 48  e quelle circostanti svanivano in quell’oscurità. Chiusi i portoni o i cancelli che davano sulla strada,  ogni famiglia si isolava. E Nannìne controllava più volte che fosse chiusa bene a chiave la porta d’ingresso. Controllava pure che anche la spranghetta fosse tirata fino in fondo. Poi  spegnevano le luci della cucina, della sala da pranzo, del corridoio. Anche la porta interna che separava le due stanze da letto – quella matrimoniale di Mìneche e Nannìne e quella accanto, dove dormivano Chiero e Eggidie – veniva chiusa con un’altra minuscola spranghetta a scorrimento.
Per impedire al freddo, che d’inverno penetrava dalla cucina e dalla sala da pranzo rivolte a nord di arrivare anche nelle stanze da letto poste a sud? O l’abitudine di sprangare per la notte non solo la porta di casa ma anche la porta interna 
con quella piccola serratura – e, vabbè, che allora si usavano  i vasi da notte – diceva di un bisogno esagerato di proteggersi da imprecisati pericoli?
Come se vivessero ancora in campagna, ancora a Casalbarone – ah, le galline tirate fuori di sera dal pollaio esterno alla casa di di zia Assuntina e messe al sicuro nella stalla – e non in città?
Timore dei ladri?
Se fossero entrati in casa scassinando la porta d’ingresso, si sarebbero sentiti, per quella piccola serratura, più al sicuro? Li avrebbero lasciati frugare nel resto dell’appartamento – il corridio, il salotto, la sala da pranza e la cucina – senza intervenire, senza  gridare o chiedere aiuto? Tanto il “tesoretto” – poche collane o fermagli d’argento e d’oro – era al sicuro in un cassetto dell’armadio della stanza matrimoniale di Mìneche e Nannìne…

A Salierne

 

 

 

 

 

 

 

Narratorio2

di Ennio Abate

Di botto a Salierne. In Via Sichelgaita 48. Basta con Casebbarone e con la casa di nonna Fortuna. Basta coi cugini. Basta con le stradine silenziose che a serpentina s’insinuavano tra i campi coltivati, anch’essi senza rumori. Lì Nunuccie ci passò sempre a piedi. E più tardi – d’estate, durante le vacanze ai tempi in cui a Salerno fece le elementari e le medie – sulla bicicletta dei cugini Alfano. In auto, solo tanti anni dopo.

Via Sichelgaita era un posto nuovo per due guagliuncielli, curiosi e spaesati. Ci vanno ad abitare che è il quarantacinque-quarantasei, a guerra finita. Cà isse e o frate suoie, Eggidie, là nun cunuscevene proprie a nisciune. Stevene chiuse ‘ncase. E e primm’e iuorne nun scennevene manche fore nzieme a l’ati guagliune ca facevane bande, ma se ne stevene ‘ncopp’ao balcone ra palazzine, ca ere o nummero 48 e Vie Sichelgaite. E, a sere, che tristezze. Quanne faceve notte pe sta via s’appicciavene si e no quattre lampiuni. Une ogni ciente metre. E cu na lampadine debbole ‘ncima a nu pale e legne. Ca, quanne se fulminave, l’operaie aveva saglie cu doie specie e favece e fierre attaccate ae piere. Po a mamme nunne tenette chiù. Specie a Nunuccie ca vuleve scenne abbascie a giucà chiagneve e sbatteve e piere pe terra e urlave. Nannine non voleva. Li fece scendere soltanto nell’androne interno sott’o purtone. E là giocavano con le figurine ‘ncopp’e gradine. Oppure ievene rint’o giardine ra signora Goglie e stevene nu poche cue figlie femmene ra signora Goglie, Rosanne e Ada (ca Ugh se ne ieve pe cunte suoie). Soltanto alcune settimane dopo che erano arrivati nella nuova casa, Nunuccie e o frate riuscirono a fare amicizia anche cu e guagliune ca facevne a banda e Via Sichelgaita e ievene là attuorne pe miezz’ae campe. Nannine nu poche s’ere rassegnate, pure se teneve sempe paure. E che puteve fa? O guaglione se ne scappave fore lo stesse pe ghi a giucà cu Anielle e Peppeniell’e, e figlie ra signora Martine, Rosarie e Tunine Iemme e po Carle Sassone e a sore chiù piccirelle, Lucie. E po quacche vote arrivavene pure ati guagliuni e guagliune ra ate palazzine. Venevene Adriane e Marie. E Rosario ca ere o chiù gruosse e po chillu puverielle ca o chiamavene o Zelluse. ca manch’ se sapeve che nome faceve.

Sfratellanza

frammento per Prof Samizdat

di Ennio Abate

Mi telefonano. Ictus. Ricovero in una clinica. Visite solo dai parenti. Da mesi non ti sentivo, o voce telefonica elusiva, corrosa d’amarezza, violenta a tratti. Mi richiamavi solo dopo qualche giorno dal mio solito «come va? fatti sentire» che lasciavo nella segreteria telefonica. Dicevi che saresti passato ancora in questo mio altro accampamento di tenaci indagini sul nulla degli sconfitti. Ma sapevo che non saresti più passato. Non era facile per te, mitizzatore feroce della mia e tua giovinezza, sopportarne la perdita e trovare buchi nelle nostre stanchezze scostanti.

Ah, il tuo desiderio folle! Ricordi quella sera? A a forza di discorsi volevi sottomettermi al tuo delirio eroico e protervo. Li respinsi, protervo io pure per l’occasione. Potevo solo assisterti. Come si fa con un malato che ti vuole inchiodato al suo letto. E per l’intera notte accettai di esserlo. Ti lamentasti, ti disperasti, scaricasti il tuo odio. Poi non ci vedemmo più per mesi. Né mi occupai più di te. controllando nella mia rubrica telefonica i nomi di amici e conoscenti, il tuo mancava. Avevi bussato forte alle porte del mio cuore, non a quelle della mente. E ti avevo aperto lo stesso. Mi lasciasti il tuo vuoto accanto al mio.

Dopo la luttuosa telefonata annunciatrice dell’ictus, i medici ti hanno trovato una brutta neoplasia. Mi informano che sei semicosciente. Vai avanti con antidolorifici. I tuoi stanno pensando di farti morire fuori dall’ospedale. Ma in quale casa? La tua ultima – mi avevi detto – era un buco, una tana.

E allora sono arrivato a rivederti. Ho preso il metró. Sono uscito in un quartiere mai visto prima. Mi sono fatto indicare da due passanti la direzione da seguire per arrivare alla clinica. Ho chiesto ancora conferma a un anziano dai capelli bianchi come i miei. L’ho rivisto di nuovo all’ingresso della clinica. Sono salito al quarto piano. Stanza 314. Porta socchiusa.

Sei disteso con lo schienale molto sollevato. Il tuo volto è più affilato e scavato di quanto ricordassi. Una figura di El Greco. Occhi vitrei, uno più spalancato dell’altro. Un braccio scheletrico col polso fasciato appoggiato dietro il cranio. Accanto al tuo letto una donna. Si alza dalla sedia e mi viene incontro. Alzando la voce, provo a dirti il mio nome. Poi quello di amici comuni di quei tempi diventati così improvvisamente lontanissimi. E di alcune città in cui ci eravamo incontrati. Non reagisci. In silenzio, dunque, accanto a te.

Inaspettatamente suona il mio cellulare. È nella tasca del cappotto che avevo appoggiato su una sedia. Afferro il cappotto e scappo innervosito fuori dalla stanza. È C, che vuole parlarmi. Lo blocco. Gli dico che sto in ospedale da un amico che sta male. Che lo richiamerò. Perché non gli dico che stai morendo?

Nel corridoio c’è la signora di prima. Parla, parla. Dice: Terribile Milano. Che disumanità. Come si fa a viverci. Ti ha visto anche nel camerone della clinica dov’eri ricoverato prima che scoprissero il male incurabile. Non eri da solo come adesso, ma assieme ad altri malati. Dice che lei non aveva sopportato l’indifferenza degli infermieri. Guardavano la TV. Trascurando i malati. Dice pure che ora vive in campagna. Lei e un amico fanno gli artigiani. Ricavano dal legno oggetti per bambini. Continua. Dice che sei stato un uomo straordinario. Che è colpita dalla dignità con cui stai affrontando la morte. 

Rientro con lei nella stanza. Ti guardo. Ogni tanto ti agiti, sembri guardare dalla mia parte. M’illudo che tu abbia un momento di lucidità. Mi avvicino di più al tuo volto. Ti ripeto ancora il mio nome. Spalanchi gli occhi. Apri anche un po’ la bocca. Sembri stupefatto e impaurito. Poi abbassi le palpebre e volgi il viso dall’altra parte, appoggiandolo al cuscino.

Le contorsioni di Chiero (4)

di Ennio Abate

Ad Acerno conobbe pure – e poi si scrisse con lui una o due lettere – un simpatico giornalista  che si faceva chiamare Rik. Aveva i capelli rossicci, i baffetti alla Clark Gable e lavorava a Roma nella redazione de Il Vittorioso. Un giornale per ragazzi ben scritto e ben disegnato da gente che stava  dalla parte dei preti e della Democrazia Cristiana.
A Chiero i primi numeri – si era nel 1949 –  glieli avevano venduti in parrocchia e s’era subito appassionato. Nannìne, sempre con la preoccupazione di risparmiare perché in casa solo Mìneche portava lo stipendio,  cercò di frenare quelle piccole ma continue spese. Chiero leggeva, leggeva. Ora voleva farsi comprare un nuovo romanzo esposto nella vetrina della libreria delle suore Paoline – fosse Robin Hood o Ivanhoe.  Ora insisteva per ottenere da Eggidie anche i soldini del suo salvadanaio per correre a comprare i primi libri con la copertina grigia della BUR che cominciavano ad uscire. Di fronte ai rimproveri di Nannìne,  Chiero s’infuriò e strappò i giornali. Poi pianse e strillò  finché chella povera femmene per consolarlo finì  per fargli l’abbonamento a Il Vittorioso. Continua la lettura di Le contorsioni di Chiero (4)

Le contorsioni di Chiero (3)

di Ennio Abate

Avvertito dalla signorina Dag, ricomparve ronn’Enze To – il prete che aveva giudicato i ragazzi di San Domenico degni di vincere o gagliadette. Adesso era il direttore spirituale del campo estivo ad Acerno. Un giorno, venuto a Salerno per certi suoi impegni diocesani, salì a piedi fino alla casa in Via Sichelgaita per convincere Mìneche e Nannìne a mandare Chiero a quel  campeggio. Appena lo vide dal balcone, il ragazzo – sorpreso e felice – scese di corsa le scale e in strada gli saltò tra le braccia. Proprio come faceva con Nannìne (ma mai cu Mìneche!). Affacciate al balcone, le signorine Bonomo guardarono la scena incuriosite e pettegole. Continua la lettura di Le contorsioni di Chiero (3)

Le contorsioni di Chiero (2)

di Ennio Abate 

Gli anni seguiti alla settimana in seminario – dieci  circa! – furono per Chiero di contorsioni. Sempre nel minestrone della vocazzione  – cattolica, salernitana, parrocchiale, scolastica – stava. E là dentro si contorceva.
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