Qualche appunto su vicinanze e distanze tra Fortini e Zanzotto

zanzotto paolini

di Ennio Abate

Ho sempre supposto che Zanzotto sia stato per Fortini come un tarlo e viceversa. (E credo che qualcosa del genere sia avvenuto anche nel rapporto tra Ranchetti e Fortini; e, perché no, tra Pasolini e Fortini…). È solo una supposizione. Non sono mai riuscito a trovare il tempo per accertarla o smentirla sui testi e nelle rispettive biografie. Eppure questo ricordo lasciato da Zanzotto sul «Corriere della Sera» nel 1995 a un anno dalla morte di Fortini, ora ripubblicato da LA PRESENZA DI ERATO (qui), mi pare quasi una conferma.

Si noti innanzitutto come Zanzotto valorizzi il «Fortini poeta»[1]. Non era e non è affatto scontato. Ho sentito con le mie orecchie qualche poeta delle generazioni appena successive ai due ironizzare sulle poesie di Fortini; e anche di recente mi è capitato sul blog «Le parole e le cose» di vederlo ridotto a «poeta edificante» (qui) o a poeta «che annoia» (qui). Né si è riusciti ad ottenere da Mondadori la “consacrazione” nei Meridiani della sua opera poetica, che apparirà invece, a un ventennio della sua scomparsa, negli Oscar. Questa è, dunque, la vulgata su Fortini. Il pregiudizio che egli sia stato un «pensatore», un «intellettuale», un «saggista» più che un poeta è duro a morire negli ambienti letterari italiani rimasti imbevuti di crocianesimo; e forse serpeggia anche tra molti di quelli che in vita furono a lui più vicini nelle faccende letterarie. Un sintomo, dunque, dell’arretramento culturale di questo Paese e del letargo dei suoi accademici. E perciò vanno apprezzate le lodi postume a Fortini che Zanzotto fece in quest’articolo, spendendo la sua autorevolezza contro il pigro e consolidato clichè e collegando strettamente il teorico e il critico al poeta («do per scontato che il suo ininterrotto, instancabile intervenire nella vita letteraria, con apporti nella teoria e nella critica, appartenga al Fortini poeta»).

Eppure, a mio parere, in questo suo ricordo, Zanzotto, pur riconoscendo il poeta Fortini, dimostra di rimanere Zanzotto (e quindi relativamente distante da Fortini). La sua mente poetica e pensante si muove su altre coordinate rispetto a quella di Fortini. Non dico che il riconoscimento non sia sincero o si riduca al consueto e dovuto omaggio postumo. Si sente però nelle sue parole un certo imbarazzo quando, ricordando l’eredità noventiana di Fortini, pare quasi rammaricarsi che entrambi (Noventa e Fortini) nella loro gerarchia di valori non mettessero al primo posto la poesia, la sua autonomia (come ha fatto da sempre e forse senza tentennamenti lui); ed insistessero invece sui vincoli, le relazioni contraddittorie che essa intrattiene con «i ruoli» e le «funzioni civili ed etiche» (cioè – dico io – con la storia, la società, la politica); relazioni che – sottolinea Zanzotto – la pongono « sempre a rischio, sempre sull’ orlo dell’inesistenza».

Per Zanzotto – parole sue – la poesia è soprattutto se non esclusivamente un «imperativo» tutto interiore, « quasi “clonato” da quel dittar dentro, che proviene da territori molto lontani connessi alla primaria strutturazione dell’ io» ed è «“senza tempo”». Influenzato dalla psicanalisi (e soprattutto da Lacan), alla quale ricorse anche per terapia personale in momenti complicati della sua vita, per Zanzotto la “realtà” è quella psichica, è l’inconscio; e non (o molto meno) la formazione sociale (capitalistica) o la storia, come per il marxista Fortini. Che, va ricordato, anche quando parlò di inconscio, ne trattò nei termini di Frederic Jameson come «inconscio politico»; e ironizzò spesso sulla contesa che vedeva prevalere gli “psichici” sugli “storici” e i “materialisti”.

Mi è capitato di leggere proprio in questi giorni un saggio di Roberto Finelli, « Materialismo “contra” spiritualismo». Sigmund Freud e Jacques Lacan» (qui). In esso ho raccolto alcune affermazioni che, riferite ai due psicanalisti, in parte potrebbero illuminare anche le “distanze” esistenti tra Zanzotto e Fortini. Del complesso saggio di Finelli a me interessa riportare questi punti:

– le due definizioni (una iniziale e l’altra successivamente perfezionata) di inconscio da parte di Freud, che Finelli riassume così:

a.«l’inconscio è un aposteriori, è un posto, un prodotto da altro, conseguenza di una censura che ammutolisce e toglie parola. L’inconscio è cioè distruzione di linguaggio»;

b. « l’Es è invece un originario, l’insieme dei movimenti organici profondi del corpo che si manifestano nello psichico attraverso il gioco dei sentimenti di piacere e dispiacere [e cioè] il rappresentante del corpo nella mente. Il suo modo precipuo di essere, di esistere nello psichico, è il sentire: quella percezione proveniente dall’interno che Freud chiama propriamente sensazione, sentimento o pulsione, e che si distingue radicalmente dalla percezione sensoriale proveniente dall’esterno»;

– la distinzione tra Io e Es: «l’Io è quella parte dell’Es che ha subíto una modificazione per la diretta azione del mondo esterno grazie all’intervento del [sistema] Percezione-Coscienza: in certo qual modo è una prosecuzione della differenziazione superficiale. L’Io si sforza altresí di far valere l’influenza del mondo esterno sull’Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell’Es esercita un dominio incontrastato».

I concetti presenti in queste citazioni da Finelli aiutano a chiarire che, quando qui Zanzotto parla della poesia di Fortini come alimentata «da una totalizzante fede in un senso del mondo, della storia», indica proprio quello che Finelli chiama sforzo dell’Io  nel «far valere l’influenza del mondo esterno sull’Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell’Es esercita un dominio incontrastato». E che, quando parla invece dell’«imperativo» tutto interiore, « quasi “clonato” da quel dittar dentro, che proviene da territori molto lontani connessi alla primaria strutturazione dell’ io» ed è «“senza tempo”», allude alla seconda definizione dell’Es (punto b) di cui sopra.

Potrei concludere, dunque, che esiste una netta contrapposizione tra uno Zanzotto “psichico” e un Fortini “marxista e storicista”. O, più in generale, tra psicanalisi e marxismo. Ma così accoglierei uno schematismo abbastanza sterile. Sì, una certa tensione tra i due modi di pensare – “psichicamente” e “storicamente” – è innegabile; e ne risente anche la poesie dei due: quella di Zanzotto che parte e ruota attorno alla problematica dell’io; e quella di Fortini che fa del noi il suo focus centrale. (Tra lirica ed epica o poesia civile, se vogliamo semplificare parecchio). E perciò, anche per questi diversi orientamenti (o strabismi?), tra i due non mancarono, come ricorda Zanzotto, «contrasti talvolta marcati», tanto da fargli dire: «Anch’ io, in certi momenti, mal sopportai il magistero di Fortini» (che poi sarebbe a dire: il suo marxismo…). Eppure la vicinanza tra loro non venne mai meno. Ed, infatti, Zanzotto stesso ricorda che proprio Fortini – l’”ideologo”, l’intellettuale” , il “marxista” – « fu tra i pochi a capire i veri motivi di un mio, per così dire, “rapporto col nulla”, soprattutto nei periodi di enormi vuoti depressivi e ossessivi (da cui egli mi parve immune, almeno in quelle forme)».

C’è, però, un punto di questa intervista   in cui colgo una forzatura da parte di Zanzotto nei confronti dell’amico poeta. La colgo quando parla del «suo furor politico etico»; e quando accenna al modo di giudicare dell’amico, dicendo che gli  sembra « sempre un po’ nell’ ombra di un possibile mane techel phares di origine biblica».

Questo accenno di Zanzotto a me ha fatto venire in mente consimili osservazioni di Michele Ranchetti, che, anche lui, e proprio in quel convegno senese del 1995 a un anno dalla morte di Fortini, commemorandolo e rievocando il suo legame con lui, oltre a ironizzare scetticamente sulle discussioni politiche infervorate degli intellettuali “olivettiani” negli anni Sessanta,[2] sul modo di giudicare di Fortini si espresse così:

« Fortini volle leggere le mie poesie. Le lesse, le prese in mano con una padronanza assoluta, come di un maestro d’arte che esamina il prodotto di un aspirante artigiano. E anche qui,in una materia per me allora così privata e segreta, io mi accorsi di quanto fossero rilevanti, per lui, tutte le cose, direi tutte le forme dell’esperienza del vivere: lo scrivere, il discutere, le amicizie, i mestieri, le appartenenze, in un certo senso senza discrimine, perché non c’è nulla che non abbia importanza e significato. Soprattutto, non c’è nulla di cui non si debba rendere conto. Ma il suo, cosi almeno mi pare, ora più che allora, non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico. Tanto meno, un giudizio religioso: era una sorta di giudizio universale privato che comprendeva tutti gli elementi, dove il bene e il male appartenevano a una sfera estetica, cosi come alla sfera morale, per cui una poesia non poteva in un certo senso essere bella, se non era anche buona o giusta».

Come si vede, al pari di Zanzotto, Ranchetti, oltre a sottintendere la sua disapprovazione per la tendenza fortiniana a tenere assieme «sfera estetica» e «sfera morale» (e politica), ricorre a una terminologia biblica («era una sorta di giudizio universale privato»).

La domanda che mi pongo a questo punto è allora abbastanza precisa. E parte dall’ipotesi che sia Zanzotto che Ranchetti,[3] poco intendendosi o curandosi di marxismo,[4] tendano fin troppo facilmente a ricondurre i “furori fortiniani” al loro “campo di competenza”, sottolineando troppo, se non esclusivamente, la matrice ebraico-religiosa di Fortini, sicuramente dominante nella sua formazione giovanile, mai venuta del tutto meno poi, ma certo non più preponderante e comunque diversamente praticata dopo la sua scelta marxista. Non voglio parlare di “annessione”, sarebbe eccessivo. Ma è certo che, se Zanzotto scrive di Fortini che quel «suo furor politico etico era per me accettabile in quanto anche poetico (profetico»; e quindi, perché intratteneva qualche legame col divino,[5] vuol dire che vede in lui quello che più vuol vedere.

Non è neppure casuale, e conferma questa mia ipotesi, che l’interpretazione zanzottiana di Fortini valorizzi della sua ricerca poetica soprattutto l’ultima fase, quella di «Composita solvatur». E cioè quella che più pare riconducibile alla concezione di poesia zanzottiana:

« Anche per Fortini credo che in ultima analisi la poesia fosse spudoratamente libera e “cosa in se’ “, anche nel suo stesso verificarsi e vanificarsi come ludus. Pur sullo sfondo di dolorose consapevolezze e di convinzioni tenacemente “rimorse”, egli pure l’ accoglie come particolare modo dell’ immediato e del vero che “adveniunt” nel vortice della realta’ : bolle di sapone che vanno riflettendo il bianco e nero, lo splendore, o il rien du tout del mondo e dell’ uomo, dandogli un sovrappiu’ insostituibile, bolle lasciate scorrere via da un bambino: ormai di altri tempi, di quando i bambini potevano usare semplicemente cannuccia, acqua e sapone piu’ di quanto siano in condizione di fare ora.».

Chiudo con una perpessità: davvero «Composita solvantur» può essere ridotta a «nugae di ambiente milanese medio, e quasi da vecchierello che trascina suo di’ tardo»? O a « vagito sulle soglie del nulla: un vagito che non chiede, non giustifica e non si giustifica, che sta al di la’ di colpevolezza e innocenza e che persino sa di essere un rantolo»?

NOTE

[1] Ricordo che in tale direzione si mosse Luca Lenzini che intitolò una serie di saggi su Fortini «Il poeta di nome Fortini», Manni, Lecce 1999.

[2] “Ho conosciuto Fortini a Ivrea, in un tempo che mi pare lontanissimo. Ma era in visita, non faceva più parte della colonia intellettuale, viveva già a Milano.Credo fosse in occasione della visita di Rocco Scotellaro.Di queste cose, persone e tempi vi è una poesia di Sereni. Ripensando ad allora,e quindi contrapponendo quésto presente (il mio e il nostro), a quel tempo,mi sembra che si trattasse di falsi problemi, di false connessioni, di intrecci da comprendere e da sciogliere, di cui non vedo più traccia. Io lavoravo alla segreteria delle Relazioni Interne, di cui era responsabile Franco Momigliano. Allora, il contrasto, di cui si discuteva, era fra i Servizi sociali (la nuova forma di intervento sulla fabbrica distinta e opposta ai conflitti di classe) e la struttura tradizionale,ossia le rappresentanze sindacali distinte nei tre raggruppamenti tradizionali. Veniva vissuto e contrastato o auspicato, questo contrasto, come se in esso si manifestasse una differenza non più sanabile fra vecchio e nuovo, fra ideologia e sociologia ‘neutrale’, fra America ed Europa, fra prima della guerra e dopoguerra. Se ne discuteva tutto il giorno, nelle pause lunghissime del dopopranzo e del dopocena, prima di andare a sentire una conferenza di un intellettuale o di un poeta chiamato da Geno Pampaloni a parlare nella saletta dell Biblioteca di fabbrica. Ma anche la conferenza o la poesia diventavano poi parte della discussione, venivano fatti confluire nell’argomento del contrasto insanabile, e cosi via. Non era un giro a vuoto, ma una strana ossessione monotematica da cui era difficile e insensato districarsi .Naturalmente, l’appartenenza al partito, e soprattutto le ragioni e la necessità di non appartenervi erano elementi costanti del discutere; grosso modo, prevaleva la ‘fronda’ socialista in cui quasi tutti si riconoscevano.

Fortini, mi pare di ricordare, prendeva tutto questo ‘ragionare’ molto sul serio, si infervorava, formulava giudizi definitivi, come se ogni volta,si trattasse di questioni di vita e di morte. Ed era del tutto persuaso, mi sembra, della rilevanza di ogni frase, senza sospettare limiti e velleità individuali e collettivi. Faceva sul serio,credeva davvero a quel che diceva lui stesso, forse in modo prevalente, ma anche in quello che diceva a ciascuno di noi. In me, questo destava un certo imbarazzo, come di una sproporzione originaria e non avvertita, fra il senso del discutere fra singoli intellettuali, in situazione privilegiata e marginale, e ‘il resto’, anche se non mi era chiaro il perché della sproporzione, e il ‘carattere’ di questo ‘resto’ ,che pure percepivo esistente e più forte di noi.” (Dalla testimonianza  del 1995 di M. Ranchetti).

 [3] Notevole è la comune appartenenza dei due al campo degli “psichici” ed è da ricordare che Ranchetti lavorò per molti anni alla traduzione delle opere di Freud pubblicate per la prima volta in Italia dalla Borighieri.

[4] Dall’intervista che mi concesse il 4 gennaio 2005:

«Quelli che io ritengo altri radicalismi – quello degli illuministi, quello di Marx – tu non li consideri?

 Non li considero non perché non li ritenga tali. Non li considero perché non li ho incontrati sulla mia strada.

 Scusami, ma perché avresti dovuto incontrarli proprio ed esclusivamente sulla tua strada? Certe strade non s’incrociano necessariamente con quella che abbiamo imboccato.

 Io sono arrivato alla lettura di Freud e di Wittgenstein per caso, nel senso concreto del termine, perché una persona (un ebreo), che ha voluto convertirsi alla fede cattolica e ha scelto me come padrino, mi ha portato il libro di Wittgenstein di cui era stato allievo. Allora l’ho preso e l’ho letto. Secondo esempio: Freud. Non avendo nessuna fonte di lavoro, mi sono rivolto a Boringhieri, che stava iniziando la pubblicazione delle sue opere, e mi sono offerto come traduttore dal tedesco. E così ho cominciato a leggere Freud. Queste due occasioni concrete mi hanno posto di fronte a un libro, alla persona che l’ha scritto e all’universo che ha cercato di produrre ed io le ho colte. Non è avvenuta la stessa cosa per Marx. Queste due letture – di Wittgenstein e di Freud – sono state in un certo senso imposte a me per esigenze concrete: una di lavoro e l’altra dall’offerta di una persona che mi è apparsa subito “nuova” rispetto alla mia cultura. Non mi è capitato invece che qualcuno, con la stessa necessità di proposta, mi offrisse la lettura di Marx.»( http://www.backupoli.altervista.org/article.php3?id_article=7&var_recherche=ranchetti+intervista)

[5] il richiamo alla formula di Ovidio «Est deus in nobis agitante calescimus illo» [C’è un dio in noi, ci riscaldiamo a lui quando si agita] non mi pare sia solo erudizione letteraria marginale.

20 pensieri su “Qualche appunto su vicinanze e distanze tra Fortini e Zanzotto

  1. Quant’è bella questa “tua” perplessità:

    “Chiudo con una perplessità: davvero «Composita solvantur» può essere ridotta a «nugae di ambiente milanese medio, e quasi da vecchierello che trascina suo di’ tardo»? O a « vagito sulle soglie del nulla: un vagito che non chiede, non giustifica e non si giustifica, che sta al di la’ di colpevolezza e innocenza e che persino sa di essere un rantolo»?”

    1. Guardare agli eventi nel loro significato finale che si riesce a cogliere solamente quando ci si allontana definitivamente da essi.

      « Dunque nulla di nuovo da questa altezza/Dove ancora un poco senza guardare si parla./E nei capelli il vento cala la sera./Dunque nessun cammino per discendere/Se non questo del nord dove il sole non tocca/E sono d’acqua i rami degli alberi./Dunque fra poco senza parole la bocca/E questa sera saremo in fondo alla valle/Dove le feste han spento tutte le lampade./Dove una folla tace e gli amici non riconoscono. »
      (Foglio di via)
      F.Fortini
      .

  2. Sì, per quanto posso dire ricordando le conversazioni con lui, Fortini aveva dei “tarli” che gli rodevano nella mente scavando gallerie sotterranee, e di quando in quando venivano alla luce. Tre di questi “tarli” erano sicuramente Zanzotto, Ranchetti e Pasolini. Ma mentre i “tarli” Zanzotto e Ranchetti erano tutto sommato buoni: apprezzava molto (anche con un certo mio stupore, devo dire) la poesia di Zanzotto, e citava Ranchetti con una distanza affettuosa, riconoscendone la cultura prodigiosa, il “tarlo” Pasolini lo riscaldava molto polemicamente, ed era evidente il rapporto d’amore-odio che lo legava al poeta friulano. Un rapporto irrisolto sul piano biografico, che Fortini risolveva sul piano politico tacciando di “ingenuità” e di “visceralità” il (non) marxismo pasoliniano.
    Con Zanzotto, ovviamente, il discorso era diverso, in quanto dal marxismo si passava alla psicoanalisi, che Fortini conosceva ma non ri-conosceva essere tra i suoi strumenti teorici formativi. Per questo mi pare che Fortini accettasse del discorso psicoanalitico solo il concetto “eretico” d’inconscio politico, mutuato da Jameson, che non era uno psicoanalista, e con cui si trovava sotto molti aspetti in sintonia.
    Chiosa: l’articolo di Finelli su Freud VS Lacan linkato da Abate mi sembra, come saggio, un po’ deludente. Se a mio avviso è condivisibile la conclusione: Lacan opera una “dematerializzazione spiritualistica” del “materialismo incarnato da Freud”, sono insufficienti le pezze d’appoggio teoriche di Finelli (le fonti Heiddeger e Kojève, la fase dello specchio e la tripartizione reale-immaginario-simbolico lacaniane) per giungere alla sua conclusione. Manca tutto un percorso analitico che ha portato Lacan al suo allontanamento da Freud.

  3. …mi permetto alcune riflessioni su questo post di Ennio, certo un po’ estemporanee e senza una vera conoscenza dell’argomento…mi scuso.
    Mi viene da pensare ai molti migranti dei barconi che affrontano rischi mortali con la sola speranza di conservare “il piacere” della vita…E allora credo che per l’Es, espressione del nostro corpo, il piacere originario, supremo e universale sia quello di proteggere la vita e che questo piacere (o bisogno) collimi con le costruzioni dell’io pensante e consapevole sui diritti dell’uomo, in particolare quelli sulla giustizia sociale(io-noi). Penso che nell’Es non sia presente solo la spinta al piacere in senso “epicureo”, ma una memoria atavica di sofferenza e negazione(anche di gruppo) che porta a una lotta semplicemente per affermare il piacere di continuare a vivere per sè e per la specie. Da qui penso che quel “dittar dentro” della poesia, di cui parla Zanzotto non sia necessariamente (o almeno per tutti i poeti) in senso individualistico, ma portavoce di un noi che tumulta dentro…Forse Fortini non ha mai escluso il piacere dalla sua visione della poesia e della vita, ma inteso in un senso ampio…

    1. Cara Annamaria, il “tumulto dentro” è il più grande piacere del poeta, che lui lo riconosca oppure no. Tu mi dirai : come si può non riconoscere un piacere? Si può , dipende molto dal rapporto che si ha con se stessi. Questo due grandi poeti , l’hanno provato e trasmesso ognuno a proprio modo. Spesso e inutilmente si scava troppo nell’animo dei poeti.

  4. OCCHIO PIGNOLO!
    “ma portavoce di un noi che tumult[u]a dentro” (Locatelli)

    *tumultuare
    v.intr.
    1.
    Essere in tumulto, sollevare un rumore intenso e confuso, per lo più nell’ambito di sommosse popolari o manifestazioni di protesta.
    “il popolo tumultuava per le piazze”
    2.
    fig.
    Di idee, sentimenti, ecc., affollarsi, sovrapporsi in modo concitato (anche + in ).
    “terribili pensieri tumultuavano nella sua mente”

    1. @ Emilia Banfi

      I poeti trasgrediscono norme linguistiche per “dire di più e meglio”. I caporali semplicemente sbagliano.
      E poi perché in passato, quando nei tuoi commenti c’erano refusi, li hai corretti o chiesto di correggerli?
      Un saluto pignolo

  5. ciao a tutti voi…sono al mare che oggi é in gran tumulto (forte mareggiata)…Sta forse componendo poesie? Cari saluti
    Annamaria

  6. Non sono così addentro alla conoscenza (né in veste di critico né in veste personale) dei poeti in questione da potermi permettere valutazioni precise e ponderate, ma ho l’impressione che ambedue utilizzino la poesia, o si rappresentino attraverso di essa, partendo da due angolature diverse sia espressive che metodologiche, indice di due diverse costituzioni (chiamiamole così per semplificare) “psichiche”: una rivolta verso l’interiorità, la parte profonda della persona; l’altra rivolta verso l’esteriorità, il mondo, la storia.
    Una che privilegia la realtà psichica (i legami con l’inconscio, in primis, e, a seguire, le relazioni che vengono istituite tra esso, e l’altra realtà, quella fattuale, esterna); l’altra che invece privilegia la realtà fattuale che, in quanto tale, non è esente dal sollecitare istanze psichiche profonde nel soggetto che la tratta.
    Tutti e due fanno dei ‘ponti’ (consapevoli o no che ne siano i loro autori) tra realtà interiore e realtà esterna: altrimenti non sarebbero ‘grandi poeti’.
    La differenza sta fra ciò che viene messo in ‘avanscena’, i valori che li guidano in quello specifico contesto che è il poetare, il che non significa che non ne vengano riconosciuti altri o che non vengano applicati in contesti diversi.
    E’ come una rappresentazione teatrale: a volte vengono messe in evidenza le dinamiche interne dei personaggi, a volte viene messa in evidenza la storia. Pirandello era un genio nel muovere questi scenari!
    Se queste specificità, invece, si ‘incistano’ o vengono espresse in termini assolutizzanti, ciò comporta dei rischi:
    – un solipsismo, o chiusura alla realtà esterna vissuta come ‘intralcio’, come qualche cosa che va a turbare l’idillio amato e temuto con ciò che appare e nel contempo si ritrae creando un pericoloso vuoto; o l’obbedienza assoluta al * “dittar dentro”* (“quello che ho in cuore ho in bocca” sono solite dire alcune persone credendo con ciò di esprimere il massimo della sincerità!);
    – un eccessivo realismo, che si può, volendo, cogliere in quel *«suo [di Fortini] furor politico etico»* citato da Zanzotto, per cui la realtà è sempre all’ombra di un giudizio “biblico”, proprio quel * mane techel phares* che viene citato.
    E’ chiaro che questi ‘assoluti’ (il “dittar dentro”), queste ‘totalizzazioni’ (“«una totalizzante fede in un senso del mondo, della storia»), vanno però presi, nei casi in questione, come esemplificazioni e non come delle stigmate.

    Proprio per questa articolazione non c’è da stupirsi se Zanzotto, pur elogiando Fortini come poeta, *rimane Zanzotto*. E ci mancherebbe!
    Così come riporta il post di Ennio: *Zanzotto stesso ricorda che proprio Fortini – l’”ideologo”, l’intellettuale” , il “marxista” – « fu tra i pochi a capire i veri motivi di un mio, per così dire, “rapporto col nulla”, soprattutto nei periodi di enormi vuoti depressivi e ossessivi (da cui egli mi parve immune, almeno in quelle forme)»*.
    Mentre, le suggestioni tratte dalla lettura del saggio di R. Finelli, invece di portare quel supporto che Ennio Abate si auspica, a mio parere sviano di non poco.

    Innanzitutto perché l’inconscio di cui trattasi è stato oggetto di sviluppi e integrazioni concettuali sia da parte degli studiosi post freudiani, ma anche dalla stessa teoresi freudiana.
    Non è rimasto rigidamente ancorato alla visione della prima topica come:
    a) il luogo del rimosso (*«l’inconscio è un aposteriori, è un posto, un prodotto da altro, conseguenza di una censura che ammutolisce e toglie parola. L’inconscio è cioè distruzione di linguaggio»*, R. Finelli);
    Ma nemmeno inteso solo come:
    b) “Es”, ovvero un polo pulsionale, una forza impersonale e caotica, un calderone di impulsi ribollenti che costituisce la matrice originaria della psiche, è amorale, obbedisce solo al principio del piacere, ignora le leggi spaziotemporali e la logica. (Seconda topica freudiana). E il cui dominio dovrà declinare secondo la nota espressione di Freud: “Dove c’era l’Es ci sarà l’Io”.

    L’inconscio può anche essere inteso, lacanianamente, come:
    c) il luogo della forclusione, meccanismo che attiene alla psicosi e che cancella definitivamente un avvenimento, che non rientra più nella memoria psichica.
    O, secondo le odierne teorizzazioni a partire da Bion, come:
    d) l’archivio dinamico dove quotidianamente e inconsapevolmente depositiamo, prendiamo, rielaboriamo e ridepositiamo (una specie di lavoro onirico diurno) il senso emotivo delle nostre esperienze (= teoria di un inconscio in perenne formazione che si correla ad un ampliamento della capacità funzionale della mente);
    e) il “senza forma”, il “vuoto informe infinito” assimilato da J. Milton.
    Là dove non c’è parola, non perché è stata rimossa o forclusa (vedi sopra) ma perché solo quando si costituisce la parola si istituiscono le coordinate di spazio e tempo là dove spazio e tempo non esistono.
    f) oppure, come dice Bion, “è un pensiero che ancora non è stato pensato”.

    La espressione di Freud di un Io “servitore di tre padroni” (Es, SuperIo – ovvero le istanze morali per lo più fondate sull’interdetto – e la Realtà esterna) è molto suggestiva, ma serve per giustificare la rivoluzione copernicana dell’aver messo la coscienza in una posizione de-centrata rispetto all’inconscio.
    Va intesa non alla lettera, altrimenti ricadiamo in quella ‘rappresentazione di cosa’ per cui la ‘realtà è ciò che noi diciamo che è’, non c’è metafora, non c’è simbolizzazione.

    Detto questo, non mi vedo un Fortini che si industria nel sostituire al principio di piacere il principio di realtà (*sforzo dell’Io nel «far valere l’influenza del mondo esterno sull’Es e sulle sue intenzioni tentando di sostituire il principio di realtà al principio di piacere, che nell’Es esercita un dominio incontrastato»*).
    Quanto a Zanzotto e al suo *“dittar dentro” che proviene da territori molto lontani connessi alla primaria strutturazione dell’ io» ed è «“senza tempo”»*, credo che ciò abbia poco a che fare con *il gioco dei sentimenti di piacere e dispiacere*, ovvero con *la seconda definizione dell’Es (punto b)*.
    E proprio perché la polarità piacere/dispiacere implica già una costituzione temporospaziale.
    E, per quanto riguarda il sentire (*quella percezione proveniente dall’interno che Freud chiama propriamente sensazione, sentimento o pulsione, e che si distingue radicalmente dalla percezione sensoriale proveniente dall’esterno*), esso ha bisogno di una rappresentazione sia essa eidetica o di parola. Una rappresentazione che viene dall’esterno perché la mente dell’infans non è ancora in condizioni di produrla. Il prototipo è appunto quello del corpo che ha bisogno di una mente per poter essere pensato.

    In conclusione, anch’io non vedo una contrapposizione tra uno Zanzotto “psichico” e un Fortini “marxista e storicista”. Vedrei anche la tensione tra i due modi di pensare “psichicamente” e “storicamente” come una tensione produttiva che può stimolare nuove riflessioni anziché essere un ostacolo.

    R.S.

    p.s. avrei dovuto essere più sintetica, ma qui piove che Dio (o Allah) la manda e quindi, per empatia, continuavano a piovermi parole su parole.
    Casomai leggetelo a puntate!
    Buone vacanze a tutti.

  7. …grazie Rita delle tue parole, da bere tutte insieme come un bicchiere di fresca acqua piovana…di nuovo un saluto a tutti

  8. @ Bugliani e a Simonitto

    Quasi mi pento di aver citato il saggio di Roberto Finelli!
    Volevo servirmi di striscio delle suggestioni personali ( chiamiamole così) che avevo colto in quei due passi citati e solo per avvalorare la mia *supposizione* sui due poeti in questione, ma mi pare di aver fatto una cattiva scelta. E dico la verità: non vorrei vedermi precipitare addosso l’intero edificio delle diatribe tra varie scuole psicanalitiche, da cui mi sentirei seppellito e frastornato, per così poco.
    Cerchiamo d’intenderci su un *minimo*, rimandando ad altra occasione gli approfondimenti sul piano teorico.
    Mi pare, dunque, che siamo d’accordo su questo che è per me il punto di sostanza: sia che si parta dalla poesia intesa come *“dittar dentro”* (Zanzotto) sia dalla poesia rivolta al mondo e alla storia (Fortini), si ha – nella buona poesia – un recupero (imprevedibile solo per chi ragiona schematicamente) di ciò che non è presente ( o non appare) fin dall’inizio.
    In modi specifici per ciascuno dei due. Quindi giusta la sintesi di Rita [Simonitto]: « Tutti e due fanno dei ‘ponti’ (consapevoli o no che ne siano i loro autori) tra realtà interiore e realtà esterna».
    Mi va di aggiungere in proposito l’opinione di uno studioso amico come Velio Abati, conoscitore di entrambi i poeti (e spero che in seguito possa intervenire direttamente sulla questione…) , che mi ha fatto notare in una mail:

    «Per me Zanzotto, come argomento nel volume «L’impossibilità della parola» [scritto da Velio Abati, nota mia], è ancorato a una saldissima radice orfica, che da subito e incessantemente ha affrontato la storia: da qui la ricchezza, la potenza e la trasformazione storica della sua poesia. In altre parole l’orizzonte di Zanzotto è la totalità, solo che ciò che la segna è l’ossimoro (anche in senso tecnico).
    In Fortini, come ho cercato di argomentare nella mia introduzione a Un dialogo ininterrotto [raccolta delle interviste di Fortini curate sempre da Velio Abati], la totalità ha un forte e mai rinnegato legame con il romanticismo tedesco, anche se certo in lui più netti sono i legami dialettici, per cui la sua totalità è stabilmente segnata dall’accento sul negativo (sia nel suo ‘manierismo’ poetico, sia nella sua militanza intellettuale). In Zanzotto la scissione; in Fortini “l’uno si divide in due”.».

    Sulle critiche al saggio di Finelli. Chiederei a Roberto Bugliani un intervento più organico sul rapporto Freud/Lacan.

  9. Senti Ennio, io volevo solo dire che per me e magari per qualcun altro la parola tumulto significasse anche ciò che ho pensato e scritto e resto ancora di questa idea. La tua correzione mi giunge esatta ma si sa che i tumulti non sono solo sommosse popolari, rumori , riguardanti le folle ma anche appartengono agli stati d’animo , perché no? Ciao.

  10. @ Emy

    Se Ennio fa il caporale, io faccio la ‘maestrina’.
    Credo che lui volesse solo sottolineare un errore di scrittura (o di battitura) per cui si scrive “tumultuare” e non “tumultare”: nessun riferimento al significato del termine “tumulto”.

    Quindi, alla fine: “tu-multare me?”. “E io multo te”

    Bye, bye.
    Rita

  11. @ Ennio

    Non vedo alcuna ragione di pentimento!

    Perché mai dev’essere una cattiva scelta quella di portare alla discussione del Blog la tua personale lettura e le tue personali suggestioni in merito alla ricerca di trovare uguaglianze e differenze nei due poeti citati?
    A partire dalle tue suggestioni io ho portato alcuni spunti in merito al concetto di inconscio, oggi, ritenendo che la moneta utilizzata da R. Finelli possa essere valida all’interno della sua ricerca epistemologica sul linguaggio, ma non moneta corrente per capire, soprattutto in Zanzotto, la sua spasmodica ricerca nella direzione della ‘totalità-barra-vuoto’ (totalità/vuoto).
    Trovo interessanti le notazioni di Velio Abati: se potessero essere ampliate sarebbe una gran bella cosa e un contributo non da poco.
    Ferma restando anche la richiesta di Ennio a R. Bugliani di dire qualche cosa su Freud e Lacan.

    p.s. mi chiedevo che legame possa esserci, ammesso che ci sia, fra la difficoltà ad accettare la rottura della totalità e l’utilizzo della figura retorica dell’ossimoro.
    In ultima analisi potrebbe essere un tentativo, fatto per via linguistica, di esprimere la tensione nel tenere assieme i contrari senza che questi rompano l’unità emotiva che li supporta.

    R.S.

  12. Interessantissimo dialogo, che aiuta a comprendere la meravigliosa corrispondenza di amorosi sensi tra Fortini e Zanzotto nonché tra loro e tutti noi umani, nonostante i tempi sempre più disumani.

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