Archivi tag: Ennio Abate

I nostri morti: Gianmario Lucini

di Ennio Abate

Penso  ogni tanto ai dialoghi interrotti con amici che non ci sono più. A quanta fatica  è necessaria per riprendere in mano e  rileggere qualcuno dei loro libri o articoli pubblicati sui blog che curo da almeno  vent’anni. Alla pena che mi afferra se vado a vedere qualcuna delle mail che mi scambiai con loro. Fatica e pena necessarie. Ripensarli. Fosse pure per pochi minuti. Stavolta dedicati a Gianmario Lucini.
Continua la lettura di I nostri morti: Gianmario Lucini

Se un giorno si dovesse tornare a ragionare…

Tre spunti


a cura di Ennio Abate

1.
“Viene da questo utilizzo gretto della causa palestinese nella lotta decoloniale la denuncia di “genocidio” divenuta ormai marchio e contrassegno. Mentre i contorni giuridici sono tutt’altro che chiari, il perverso uso politico di questo termine fa con un colpo di bacchetta dei genocidati di ieri i genocidari di oggi. Perciò mi sono sempre rifiutata di utilizzarlo – anche a costo di essere fraintesa. Lo hanno evitato i sopravvissuti della Shoah. Avrebbe dovuto farlo anche chi ha voce nel dibattito pubblico. Le parole sono importanti. Ma ciò non cambia né l’entità di un massacro inaudito compiuto dallo Stato di Israele né l’onta gettata sui discendenti di coloro che sono morti nei campi.” (Donatella Di Cesare)

2.
“Abbiamo una tale documentazione di prove che davvero lascia annicchiliti per ferocia, per brutalità, e perfino per sadismo, ma che trova conferma nelle dichiarazioni di Israele, che non solo minaccia come un ganster le istituzioni internazionali, ma in pieno delirio di onnipotenza lo rivendica, con discorsi che tutti saremmo in grado di riconoscere, se solo arrivassero puntuali alla nostra informazione. La distruzione sistematica e voluta di ogni presidio medico, l’assedio attraverso la fame, la sete, la privazione di medicine fino a negare ingresso a latte in polvere e incubatrici, i cori nazionalisti che invocano lo sterminio, i bombardamenti indiscriminati su quartieri residenziali, il bombardamento di corridoi umanitari concordati, l’incendio a tende con sfollati dentro, il massacro di civili in attesa di farina, gli spari su bambini in fila per il pane, le esecuzioni sommarie su bambini e vecchi, l’accanimento sui prigionieri e financo sui cadaveri, cosa impedisce a questa sinistra, anche a quella che ha strumenti culturali e fonti cui accedere, di vedere?” (Simona Borioni)

3.
I lupi

Quando ululano i lupi e ti domandi
perché sei vissuto e se ancora sei al mondo
ormai solo per passare la notte
presso gli esseri che tentarono
uicidio ma a cui il proposito
non riuscì, quando tutto è congettura, seduzione,
addirittura fede che ancora
possa esserci di peggio e molto ancora –
obbliga te stesso,
 morto,
al testimoniante ascolto
di come ululano i lupi…

(da Vladimir Holan, Il poeta murato)

 

Augusto Vegezzi. Un taccuino di versi

a cura di Ennio Abate e Giulio Toffoli

Di Augusto Vegezzi sono stati pubblicati su Poliscritture vari scritti. [i] E per anni ho avuto con lui alcuni scambi – i primi quando era ancora vivo l’amico comune, Attilio Mangano (1945 – 2016) – in cui riflettemmo sulla parte di esperienza politica sessantottina in comune, pur nella amara consapevolezza di parlare di tempi ormai finiti rischiando di associarci al malinconico canto del cigno di una sinistra in disfacimento.[ii] Dopo la sua morte (7 giugno 2022) io e Giulio Toffoli, che di Vegezzi era stato allievo al liceo, abbiamo avuto modo di conoscere, grazie a Marina Vegezzi, figlia di Augusto, il contenuto di una agenda, dove egli aveva scritto a mano molti versi. Si tratta di un diario lirico, che tocca con linguaggio sobrio e controllato i temi della vita, della vecchiaia, delle difficoltà di scegliere uscendo da tormentose ambivalenze esistenziali. A prevalervi sono l’introspezione, l’incitamento a se stessi, l’interrogazione angosciata. Il manoscritto è databile alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso quando, conclusa la sua esperienza nel mondo della scuola, Augusto si trovò a indagare forse con maggior distacco sul senso del percorso di vita fatto fino ad allora. Non possiamo dire, invece, con certezza se intendesse pubblicare questi suoi versi, se li considerasse un privato esercizio di introspezione e se li avesse già fatti leggere a qualcuno/a. A me e a Giulio questi versi sono parsi importanti come documenti di una sua visione esistenziale e di un uso della parola letteraria mai banale; e ci siamo presi la responsabilità di farli conoscere, trascrivendoli in vista di una possibile pubblicazione. Nel frattempo presentiamo questa  piccola selezione di dodici poesie. Mentre per un approfondimento della figura di Augusto (e di quella del fratello Nello, qui) rimandiamo al recente saggio scritto da un altro amico piacentino di Augusto, Franco Toscani (qui ) e invitiamo i lettori a visitare il sito (qui) a lui dedicato.

Continua la lettura di Augusto Vegezzi. Un taccuino di versi

Ripensando a Giorgio Majorino, psicanalista “ibrido”

di Ennio Abate

Attorno al maggio 2022 ho ritrovato Giorgio Majorino su Facebook e su “Gli Stati generali”.
L’ho seguito e scambiato con lui in varie occasioni ricordi e opinioni (qui, ad es., un suo commento su Elvio Fachinelli: https://www.poliscritture.it/2022/06/05/fachinelli-e-o-fortini-1/#comment-107655).
Di recente, tornando sulla sua pagina FB, preoccupato per il fatto che il suo ultimo post fosse del 20 novembre 2024, ho saputo  della sua morte e che i funerali si erano già svolti il 9 gennaio 2025.
Di questi tempi la perdita di persone, che stimo e che ho conosciuto, si aggiunge  – nero su nero – alla sofferenza  sorda del lutto per i tantissimi morti – a Gaza in primo luogo – che mi resteranno per sempre sconosciuti.
Nulla posso/ possiamo fare.  Resistere? Certo, ma  da soli e da vecchi e con pensieri smozzicati di fronte a fatti sempre più orrendi (o orrendi come sempre).
Non è una consolazione, ma – al buio in tempi bui –  sottraedomi – magari solo a intervalli –  alle distrazioni (e alle distruzioni) che mi assalgono,  ancora  posso indagare  su quanto hanno fatto o scritto persone stimabili come Giorgio Majorino, al di là delle vicinanze o distanze dalle sue idee.
Rileggerò – e invito altri/e a leggere – i suoi articoli su “Gli Stati generali” (qui il link con l’elenco: https://www.glistatigenerali.com/author/gmajorino/page/2/) e sul suo blog              ( https://www.narrazionipsicoanalitiche.com). Ma non posso non ricordare che la sua figura – distinta ma non separabile da quella del fratello Giancarlo – per me resta  legata soprattutto all’esperienza di “Manocomete – quadrimestrale di profondità e superficie”, una rivista culturale uscita tra il 1994-1995.
Sul n. 2  Giorgio Majorino pubblicò  una lettura  psicoanalitica delle dinamiche in atto nel gruppo redazionale che si era aggregato attorno alla rivista. E molto mi colpì, perché a me parve che ponesse in chiaro un problema di potere, che sospettavo ma non riuscivo a esprimere. Anzi, ebbi l’impressione che, nel sottolineare la rivista come “oggetto simbolico del desiderio”, enfatizzasse “il clima di guerra” presente tra i redattori. Mi sconcertò anche l’accento posto  sull “odio”  come “collante” che teneva uniti  i partecipanti. E, di fronte alla sua affermazione che “le radici della democrazia si collocano  nell’inconscio”, nei miei appunti e disappunti (qui) chiedevo di considerare – troppo illuministicamente e ottimisticamente? –  anche “tronco, fogliame e frutti possibili” e di affiancare, perciò, a quella sua riflessione fatta col virus della psicoanalisi, altre considerazioni fatte col “virus della politicità”.
Eppure già allora dovetti riconoscere l’affermarsi tra i partecipanti di un “moto confusionario”, quello delle cosiddette “diversità”;  e lo sprofondamento di ogni  “sostrato comune”,  sul quale aveva insistito il fratello Giancarlo nell’editoriale di “Manocomete” intitolato “Avvio”. E mi chiesi in cosa consistesse quel “sostrato  comune” della rivista o quella “particolare affinità culturale” sulla cui base – secondo Giorgio Majorino – “la leadership (direttori, editori) [aveva]  convocato più persone” per iniziare la nuova rivista.  O chiesi: “A unirci è il tema? O la distribuzione di Eros? O la coesività  paranoide contro il nemico esterno?”.
A cosa tentavo di aggrapparmi? Finii per ammettere che a livello dell’inconscio “l’odio [era] il miglior collante per marciare uniti”, come sosteneva Giorgio Majorino. E anzi  espressi dubbi  quasi estremi: “ma noi vogliamo marciare uniti? e di che unità abbiamo bisogno, oggi?”.
Insomma, speravo ancora che il suo punto di vista psicoanalitico non cancellasse la possibile “coesività erotica” volta all’esterno (a  quella che chiamavo allora una “politicità ampia”); e, dunque, non negasse il passaggio del “noi” dei partecipanti alla rivista da un mondo tutto di fantasmi a un mondo almeno con meno fantasmi. Non mi sembrava inevitabile che “il gruppo [dovesse] necessariamente prendere la via della conflittualità” tribale, arcaica. Mi sbagliavo.

P.s.
“Manocomete” fu un troppo breve tentativo di  rimettere a pensare assieme intellettuali di varie competenze e generazioni, alcuni attivi già negli anni Sessanta, altri dopo il 1968. Riassumo qui il bilancio postumo sulla rivista, che feci  il 29 aprile 2003, in occasione della morte di Luciano Amodio, uno dei protagonisti – assieme a Giancarlo Majorino e Felice Accame – di “Manocomete”:

"A Manocomete eravamo residui di una precedente epoca, provati e un po’ invecchiati, ma intenti a questo indispensabile spostamento. La posizione filosofica  di Amodio a me pareva comunque la più chiara politicamente: comunismo finito, quotidianità piccolo borghese (“democrazia”) imperante; il ceto medio aveva  sostituito la classe operaia,  liquidando i valori costruiti attorno a quella. La discontinuità forte col passato lui l’aveva colta come tragedia (forse per lui da lungo tempo annunciata) e aveva abbozzato il massimo di disincanto possibile per uno come lui, che aveva un importante passato di sinistra intellettuale alle spalle  e che nel ’68-’69 aveva visto giungere soltanto le déluge.
Si poteva discutere a fondo quel suo bilancio, correggerlo, confrontarlo con altri, depurarlo dei toni tragici o rassegnati, intravvedere le nuove possibilità di comunicare e di cooperare?
Non si riuscì a proseguire. Nell’allontanarci dal “campo di battaglia” degli anni Settanta, le nostre memorie, che sempre subiscono il danno di una relativa fissazione ad un evento-mito (il '56 di Amodio, il '68-‘69  per me, il '77 per altri), non si incontrarono e combaciarono male e solo per lembi. 
Insistere a lanciarsi segnali apparve troppo arduo o inutile. Subito dopo "Manocomete", Giancarlo Majorino si ritirava ancora a scrivere e a lavorare in solitudine; e gli altri, coetanei  o più giovani, disattenti mi pare alla posta in gioco in quel tentativo, ne accettarono la fine".

*”psicanalista ibrido” è la definizione che Giorgio Majorino ha dato di sé:

Sono stato uno psicoanalista “ibrido” che ha sempre cercato di raccogliere nei vari orientamenti, materiali e ipotesi per il lavoro clinico e quindi, partendo da questi fare anche congetture un poco più approfondite sui fenomeni collettivi, andando aldilà di spiegazioni psicologiche solo descrittive. In altri termini facendo ipotesi sui meccanismi di base (o quelli che, provvisoriamente, riteniamo tali). Oltre al lavoro clinico, ho partecipato a ricerche psicologico-sociali, attivita’ peritali giudiziarie, insegnamento accademico. Ho pubblicato vari saggi su periodici culturali e scientifici e, nel 1992 il libro “Effetti psicologici della guerra”, da Mondadori.
(da https://www.glistatigenerali.com/author/gmajorino/)

 

Nei dintorni di Franco Fortini. Introduzione

di Ennio Abate

Questa è la versione definitiva dell’Introduzione  al mio libro “Nei dintorni di Franco Fortini” che dovrebbe uscire  prossimamente. La pubblico qui su Poliscritture in questo 1° gennaio 2025 non tanto per pubblicizzare il mio lavoro ma come augurio a me stesso e a quanti come me non hanno voluto mai metterci una pietra sopra alle speranze del ’68-’69. Buon anno. 

Continua la lettura di Nei dintorni di Franco Fortini. Introduzione

Un commento a Luperini-Corlito, Il Sessantotto e noi

di Ennio Abate

Non ho letto il libro di Luperini e Corlito ma avevo letto (e mi sono riletto ora) l’introduzione apparsa su LA LETTERATURA E NOI (qui) e solo su questa intervengo per esporre alcune perplessità:
1. Va bene la testimonianza, la voglia di lasciare ”una sorta di testamento rivolto al futuro”. Ma parlare del ‘68 come di “uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo” mi pare un’affermazione smentita dalla storia che, appunto, è venuta dopo e che ci ha lasciato con le ossa rotte. Spartiacque sarà stato su molte cose, ma come negare il persistere e anzi il prevalere poi di elementi di continuità (o di restaurazione) con la situazione pre ’68, se gli stessi autori della testimonianza temono ora di “dover morire fascisti o postfascisti”?
2. “Nessuno può dimenticare la propria gioventù”. e “questo anno ha lasciato un’impronta indelebile” in chi ha fatto o preparato il ‘68 – una minoranza preziosa ma, va detto, presto messa fuori gioco. Ma qual è il giudizio storico? Perché di questo c’è bisogno, specie a tanti decenni di distanza e se ci si lamenta che ben pochi sono gli studi degli storici sul ‘68. Se no, si rischia di dare troppa importanza alle proprie impressioni (“Ci sembrò allora che tutto il mondo fosse giovane“).
3. Nei tentativi di organizzare i desideri e i bisogni emersi nel ‘68-’69 si confrontarono posizioni vagamente luxemburghiane e posizioni leniniste o a volte “miste”; e abbiamo visto il fallimento di entrambe. Non capisco, allora, come mai e perché l’ipotesi della «lunga marcia attraverso le istituzioni» di Rudi Dutschke, (di taglio luxemburghiano) possa essere indicata come “l’unica ipotesi di rivoluzione possibile nelle società capitalistiche complesse”. Ma anche la stessa “progressiva conquista delle “casematte borghesi” teorizzata da Gramsci e strettamente connessa al suo concetto di egemonia”, qui evocata, è ipotesi praticata (dal PCI) e ha avuto risultati – negativi, credo io.
4. In mancanza di una analisi del capitalismo o dei capitalismi odierni e di un progetto politico capace di contrastarlo/li, che serve ribadire che “ il nostro obiettivo era e rimane una società di uguali”, mentre vediamo le diseguaglianze crescere a dismisura e non esistono forze capaci quantomeno di arginarle?
5. Anche rimandare la palla al futuro e ad altri (“La riflessione sul Sessantotto si potrà riaprire solo quando qualche movimento politico ne riprenderà la lezione e l’eredità, ne criticherà e supererà i limiti”), mi pare atteggiamento vago. Il futuro qui da noi in Occidente è compromesso o cancellato. La repressione è anch’essa senza argini. Colpisce lavoratori, studenti, giovani, immigrati ed ha in altre parti del mondo le dimensioni del massacro se non di peggio.
Può darsi – ripeto – che nel libro ci siano analisi e ragionamenti più convincenti e per ora sospendo il giudizio, ma non volevo tacere i miei dubbi.

E già i poeti in tempi di guerra…

di Ennio Abate

“Raimondi tende, forse da sempre, a spostare la propria attenzione  dall’antagonismo etico-politico alla conciliazione etico-morale, cioè al piano dell’esistenza in cui è ancora possibile o almeno sperabile costruire una forma di armoniosa condivisione. ” (Pusterla)

E già, I poeti in tempi di guerra dell’antagonismo etico-politico se ne sbarazzano volentieri, senza rimorsi. E, come preti – ah, la “sporca religione dei poeti”! – mirano alla conciliazione etico-morale. Si perdonano, ma saranno perdonati? Temo e spero di no. Anche perché fingono di non sapere che è impossibile costruire questa benedetta “forma di armoniosa condivisione” esclusivamente sul “piano dell’esistenza”. A meno di non contentarsi di coltivare il proprio giardino poetico-esistenziale-quotidiano (se lo hai) disinteressandosi a fatti come questi: ” I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare”.

*Mio commento a Su “L’Atalante” di Stefano Raimondi: https://www.leparoleelecose.it/?p=50648