Da “Gridi d’estate”

di Lidia Are Caverni

«Venezia languida lascia che il passo/ la calpesti e la laguna smuore bianca / di consuetudine» (da «Gridi d’estate»). Gentile Lidia, non posso evitare di mettere a confronto questi suoi versi (e gli altri qui sotto scelti dall’ultima raccolta) così assorti in un sogno lirico inattaccabile con le immagini dei luoghi canonici di Venezia invasi in questi giorni dall’acqua. E chiedermi con amarezza: questa è la poesia a cui dobbiamo abbandonarci mentre il mondo che pareva anche nostro viene distrutto? [E. A]

 DA “IL SOLE O DIONISO” (1994)
 
 
 Se ci fosse il mare una cupola
 verde per l'improvvisa
 immensità uno stordimento
 di ramo per l'intricata foresta
 un tremolio di conchiglia
 strappata dal grembo un duro
 guscio di palma in attesa
 del nuovo marinaio una chiglia
 dolce che s'incurva seguendo
 l'onda dello sterminato
 cammino.
 
 
 
 *
 Il rametto te l'ho venduto
 della mia saggezza ogni
 cosa fiorisce il giorno
 consuma piume di gufo e io
 ho scarni ritrovi per il mio volo
 l'albero del bosco  
 non basta a sanare ferite
 la notte disseta di umide
 stelle chiarore che lava
 la mia conchiglia spiaggia
 dell'infinito andare.
 
 *
 Un canto d'usignolo frantumava
 la notte uno zirlio interrotto
 di grillo agonizzava ai margini
 delle case in alto il pioppo
 e l'ombra della siepe un nero
 fumo punteggiato di stelle
 potevi sentire la coccola  
 cadere sul tetto della veranda
 vorace l'avrebbe divorata
 l'uccello l'ingordigia
 degli avvenimenti il rotolare
 di quando scendono montagne
 a diventare sabbia.  
 


 *
 E le danze le sentiresti
 fra le dita assieme  
 ai sorrisi grappoli di mais  
 che l'estate prepara
 nei campi ondeggia l'asfodelo
 delle mie pene ne farò involucro
 da gettare lontano ora voglio
 che si dispieghi il sentiero
 il passo non greve di stanchezza
 andrò leggera vapore che si leva
 nella tenera sera.
 
 
 
 *
 Dolcissimo ascolta la mia fronda
 aveva bacche d'oro erano
 quelle dell'incantamento
 lucido involucro dei baci
 che le parole coronavano
 della schietta persona tutta
 si drizza ancora la mia fierezza
 per i mieli che dai e le tue mani  
 ala di tepore per le mie guance.
 
 
 
 
 
 
 DA “GRIDI D’ESTATE” (2000)
 
 
 *
 L'aria secca odorava profumo
 di fresca magia conservata nei vasi
 degli arcani segni era caduta la pioggia
 uno sciacquio che intenso dilavava
 il viale sapeva di montagna denso fogliame  
 che stillava freschezza dal cespuglio
 il merlo si sporgeva aspettando  
 che la terra porgesse il suo frutto.
 
 
 
 *
 Impavido mai sazio del cibo leggero
 degli dei imperituro come il tempo
 che scorre assalito dai demoni emersi
 dalle fenditura della terra essere marino
 racchiuso in un guscio mitilo infisso
 nella roccia della memoria abbarbicato
 alla vita agli infiniti frangenti
 del sogno colmo dei marosi pensieri  
 che frangono la mente sereno e altero
 come notte di luna.
 
 
 
 *
 Vestito di rosso il bambino guardava
 il mare il pesce guizzava mostrando
 il suo sogno un'aria bruna e dolce  
 profumava di rosmarino il mirto si addensava
 di bacche brivido che consuma.
 
 
 
 *
 Serpenti bruni masticano ariste
 impazziti di desiderio il sole concede
 lusinghe che non mantiene cespugli
 di erba menta consumano il cuore
 nostalgia di infanzie lontane la pianura
 sconfina al mare pallida offuscata  
 dall'aria inerte macerata dal caldo
 bluastri i monti tremolano di assenza.
 

 *
 Non dire parole lascia che scorra
 quest'aria stanca con dita di clessidra
 le strade allucinate di sole il caldo
 sudario del muro che non si arrende
 al tramonto tieni stretto il mio cuore
 che esausto si consuma e sarò solo silenzio.
 
 
 
 *
 A occidente il sole verga l'aria
 di bronzo stormi di uccelli impazziti
 cercano ripari per la notte la luna
 già splende bicorne ambisce di possedere
 il cielo l'ebbro disfarsi dell'estate
 riarsa la fronte cerca refrigerio
 negli estremi sussulti dei giorni  
 Venezia languida lascia che il passo
 la calpesti e la laguna smuore bianca
 di consuetudine.
 


 *
 Per il mio collo non desideravo
 altro frammenti di corallo legati
 con lo spago piede scalzo di giovinezza
 lontano ti cercavo negli anfratti
 nell'eco delle canzoni nel ragliare
 angosciato dell'asino legato all'ombra
 calda del giorno la notte un sussurro
 un riportare parole che ferivano come
 fossero lamine sulla pelle riarsa dal sole.
 
 
 
 *
 Se ne andavano nudi carpito
 l'ultimo sguardo della luna
 con ali di farfalla i fiori
 della notte si chiudevano timorosi
 del volo il geco si nascondeva dove
 l'ombra raggelava tepori andando
 ridevano nei loro corpi bambini  
 le dita generavano l'azzurro
 del cielo la luce delle stelle
 le fontane chiocciolavano lente
 perché l'incanto non finisse.
 
 

 *
 Parlavano altre voci i leggeri bisbigli
 dell'erba esile il fiore taceva
 desiderava che suonasse la pioggia
 con dita di chitarra il ronzio degli insetti
 si diffondeva a macerare il cuore moscon d'oro
 che divora la rosa il vento che percorreva
 la sera.
 Avvolto nelle spire del serpente il tempo
 non concede risposta granaglie affollano
 cortili dove la pula si addensa in nuvole
 di polvere affamati gli uccelli volano
 intorno neri stormi che popolano il cielo
 il papavero sconsolato si china sul campo deserto
 nessuno l'ha raccolto e geme nero cuore
 svuotato dagli insetti arde di fuoco la pianura
 il grido cocente dell'estate dissecca il letto
 del fosso la rana dimentica il canto d'amore.
 
 
 
 *
 La pianura divora sue prede il topo  
 esausto per l'immane corsa ascolta  
 il fremito del cuore la terra nasconde  
 il suo grembo il pennacchio lieve  
 di pannocchia al vento le pagine
 custodiscono segni il lento fluire del tempo.
 
 

 *
 Perché piccolo si stende il quadrato dell'orto
 dove l'ape germina frutti bluastre le foglie
 aspettano che giungano bruchi divorano il cuore
 l'anima nascosta dove si annidano promesse
 i tentacoli dalle cento braccia del sole
 a cui poco fa l'ombra lo sciacquio pensoso
 troppo lieto di poche gocce di pioggia
 la tartaruga divora progenie sterili emanazioni
 infeconde mostrate impudiche che nessuno  
 prende solo gli scherni del merlo avido  
 di bacche di rosa.
 
 

 *
 Tacevano gli uccelli sedentari
 abitués degli alberi di fronte  
 passavano gli stormi come passavano
 i sogni dense emanazioni dell'anima
 andavano altrove a lungo li inseguivi
 cantando era il tuo cuore che si faceva
 piuma remigante nel vento eppure
 sostavi ancorato tallo di lumaca.
 
 

 * 
 Mi soddisfaceva la notte la luna
 che sfidava i tetti illuminava
 le case di luce fredda diffusa il corpo
 rabbrividiva di improvviso gelo
 sulla luna passavano i sogni di carri
 dove si trainavano i desideri il buio
 ne gioiva abbracciando l'ultima stella.
 
 

 
 *
 Il mio dire lo conosci il parlare
 quieto di agnello il labbro si consuma  
 sul pascolo che volge al monte l'impeto
 del torrente sulla china che bacia
 il rinfrescarsi del bosco il fungo  
 raccolto sul limite che donava refrigerio
 l'ondularsi di tenero pendio la vespa
 che catturammo poi nel bicchiere.
 


 *
 Cosa vuoi che dica in questo tempo
 malato di nostalgia il veleno che assilla
 lo scorrere del giorno come fosse atroce
 il presente la pioggia si bagna di fresco
 e tu profumi di caffè consumato nella stanza  
 sospesa di vento prima che scoppi il temporale
 l'estate si frantuma d' insetti la mia malattia
 i tuoi occhi dicono il ritorno il sentore
 della mia poesia.
 
 

 *
 Se ne andavano i grilli stanchi della festa
 le lucciole spengevano fuochi i bruchi  
 odorosi di terra le rane non tacevano
 era un'abitudine il canto d'amore
 che sfidava la notte giungeva fino alle stelle
 gli amanti sul prato solcavano l'erba  
 i fili intrecciavano anelli che il vento spezzava.
 
 
 
 
 
 
 DA “L'ALBERO MONCO” (2016)
 
 
 
 
 L'albero monco gemeva
 crudele la ferita aveva  
 tagliato la chioma decimato
 le foglie che timide si aprivano
 gli uccelli non riconoscevano
 più i suoi rami volavano
 altrove l'albero taceva nel silenzio
 non sapeva che più forte  
 avrebbe germogliato il tronco
 presto sarebbe fiorito a nuova  
 vita.
 
 
 
 
 Nel giorno dello scambio
 l'albero monco consegnava  
 la semenza al vento farfalle
 leggere disseminavano il prato
 ma non cercavano fiori  
 ravvolte in se stesse gli uccelli
 le guardavano incuriositi  
 da tanta pioggia le porteranno  
 lontano a germogliare di nuova vita  
 taceva anche il merlo occupato
 altrove nei cespugli del prato
 nei vasi dei terrazzi dove
 cercare riparo dai gatti nel rinnovato
 tepore.
 
 
 
 
 L'albero monco non sapeva
 se ci sarebbe stato un futuro
 sotto i colpi di acciaio aveva
 perso i suoi rami più belli
 i teneri germogli aveva
 sentito vicina la morte l'agonia  
 gli mozzava il respiro  
 gli impediva di produrre foglie  
 trovava nuove bellezze  
 vigorie di slanci che lo portavano
 in alto dove rimanevano  
 radi pennacchi guardava  
 la pioggia che gli rinfrescava
 le vene e gioiva.
 
 
 
 
 L'albero monco guardava
 la notte dopo tanto dolore
 meritava le stelle la breve  
 falce di luna che ingentiliva
 il cielo il volo di tortora  
 annunciava l'alba tra i suoi rami
 via via più forti presto sarebbe  
 sorto il sole a riscaldare la terra
  il lieve alito del vento avrebbe
 ripreso a far stormire le foglie
 l'albero non aveva più paura
 e lasciava cadere il suo seme.
 
 
 
 
 L'albero monco non soffriva  
 più si stavano cicatrizzando
 ferite non osava guardarsi
 il tronco saldo forte i rami  
 che di poco si ergevano  
 guardava gli abeti nel prato
 fieri di bellezza la piumosità
 verde che ricopriva le cime ma  
 non provava invidia sentiva
 il suo cuore che palpitava  
 taceva e aspettava.
     
 
 
 *
 Se mi vuoi aspettami all'angolo
 di casa dopo aver sceso in fretta
 la rampa di scale andremo lontani
 fra boschi e prati a vedere i fiori
 del maggio gli abeti dai verdi  
 rigogli sfioreremo con le mani  
 aperte la leggerezza dell'erba umida  
 di pioggia che il sole a poco a poco
 riscalda ci faremo nido solitario
 io e te dove si posano gli uccelli
 con passo lieve per non intralciare
 le radici del monte che in alto  
 si erge.
 
 
 
 
 *
 Scomparso il chicco di grano
 beccato dagli uccelli a devastare
 tutta la bianca semenza di giorni
 lieti lontani dove il bozzolo non sapeva
 se restare bruco o divenire farfalla
 avida di nettare di amplessi consumati
 in fretta in un palbosco
mo di mano per poi
 morire in un corpuscolo da seppellire
 in giardino per farla mutare in semi  
 piccoli grani neri a nuova vita.
 
 
 *
 Nel bosco non si poteva  
 entrare irti gli stecchi graffiavano
 la pelle intrighi di rami di alberi  
 che sfioravano il cielo avrei voluto
 accarezzarne le cime sentire  
 i teneri germogli che grondavano  
 in dorate essenze solo i cervi
 osavano per i noti sentieri sarebbero
 presto risuonati i canti d'amore
 le battaglie che li vedevano  
 fieri per me solo la breve radura
 il ceppo dove sedere e pensare.
 
 

4 pensieri su “Da “Gridi d’estate”

  1. SEGNALAZIONE

    Questo brano estratto dalla bacheca di Adriano Barra su Facebook ( https://www.facebook.com/adriano.barra.127/posts/1738084129661107) dice bene qualcosa che io pure sento a proposito di poesia e mondo e ho suggerito anche qui nel cappello introduttivo di questo post. (Lui parla di letteratura, ma è come se dicesse poesia):

    Solo la morte è vera? Può darsi ma non ne sono sicuro. E comunque che sia vera non serve a niente, tanto è vero che tutti si affrettano a falsificarla. Per sopportarla. Come la letteratura che con la morte non ha veramente niente a che fare, perché viene dopo e comunque è un’altra cosa. Perché la morte non sa di niente, non significa niente e la letteratura invece si sforza di significare, di produrre, di mettere al mondo segni, di « sapere », nel senso di sapore. E chi fa critica è qualcuno che questi sapori li sa gustare, che ne parla bene, pur sapendo che sono finti. Ma, con tutta la morte che c’è, questi segni, questi sapori dovrebbero essere forti, forti e chiari, chiari e forti, almeno quanto la morte. Ma forse la letteratura è debole, e la morte è troppa, e aumenta, giorno per giorno, e la critica non ci può fare niente.

    1. Fare letteratura significa staccarsi dalla propria realtà, nell’immaginario si mescolano gli elementi significativi del passato, filtrato dalla coscienza ,fatti di impressioni, sentimenti, impressioni e quelli del presente. Un sentimento troppo forte, un dolore, il peso provato davanti agli avvenimenti tragici o problematici, bloccano l’immaginario che non può più agire da filtro. Nascono versi,se è poesia, privi di slancio che li fanno sentire universali, oppure prosa che non sia del tutto aderente alla realtà, altrimenti diventa cronaca.
      Così è per me. Non so se ci riesco, ma ci provo.

      1. E che succede alla “realtà” quando noi ce ne stacchiamo per rivederla ( o smarrirla spesso) nell’immaginario?
        E che tipo di *filtro* è quest’immaginario? Sicuramente positivo o anche negativo (spesso o a volte)?
        Ed è davvero possibile “staccarsi dalla propria realtà” ( ammesso che la realtà sia “propria”)?
        Sono solo alcune delle domande che nella storia della letteratura o della poesia non hanno ricevuto UNA sola risposta…

  2. SEGNALAZIONE

    Ecco un esempio in negativo (per me) di cosa significhi ricorrere all’immaginario non per capire di più la “realtà” o i rapporti complessi e quasi inestricabili tra “realtà” e immaginario ma per dimenticare i problemi e infilare poeti e poesia in un delirio di onnipotenza. Si legga questa recensione da LA PRESENZA DI ERATO: https://lapresenzadierato.com/2019/06/03/franco-di-carlo-la-morte-di-empedocle-edizioni-divinafollia-2019-nota-di-lettura-di-domenica-giaco/?fbclid=IwAR3SRcWiKACp2T5l1kfFj9EF5zkqmg-oT8352qACfgKOd2qxN8t4iV8zVvQ
    e ci si soffermi su questo stralcio:

    Di fronte alla decadenza di una umanità senza destino, mette a frutto la sua capacità analitica, consapevole che la poesia sia la forma più alta di conoscenza, più della politica, più della scienza, più dell’economia, più della religione, e se nobile, sincera e alta, può anche avere la capacità di provocare un cambiamento nelle coscienze. L’identità dei Paesi, più dei politici e della politica, l’hanno creata i Poeti e la Poesia. Come profeta (non in senso biblico ma con illuminante visione) invita allora gli uomini in un ultimo appello a rinascere dalla notte dei tempi:

    “Rinascete alla vita e distinguete / il vero dal mondo falso riprendete / il viaggio incompiuto. Tempo verrà / che nessun moto mai più vi scuoterà /dalla notte del sonno e lì resterà / sempre immutato, l’eterno dolore”

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